giovedì 28 aprile 2005

Recensione DOPO MEZZANOTTE

Recensione dopo mezzanotte




Regia di Davide Ferrario con Giorgio Pasotti, Francesca Inaudi, Fabio Troiano, Francesca Picozza, Silvio Orlando, Alberto Barbera, Gianna Cavalla

Recensione a cura di GiorgioVillosio

Chi ha visto "Jules et Jim" di Truffaut, non può non appaiare il fatidico film del Maestro francese all'operetta "poetica" di Davide Ferrario, per via dello strano triangolo erotico-sentimentale: lui, lei e l'altro, che si amano a turno, di comune accordo. Lei, Amanda, è una giovane socialmente "disagiata", alla ricerca perenne di una stabilità lavorativa, economica, sentimentale ed esistenziale: emblema attualissimo di una certa gioventù nostrana, senza arte né strumenti. L'altro, Angelo, 'o malamente, proviene come lei dalla zona più popolare di Torino, e vive di espedienti e furti d'auto, con l'aplomb del bullo di quartiere da neorealismo italiano; non disdegna altre avventure, ed usa la povera Amanda per il suo puro comodo. Salvo poi rincorrerla affannosamente quando la sa innamorata del giovane rivale. Il quale Martino, invece, è tutt'altro personaggio, ai limiti del surreale: fa il guardiano notturno al Museo del Cinema, all'interno della Mole Antonelliana del capoluogo torinese, conducendo una vita solitaria con un riserbo quasi autistico. Ma quando la ragazza, inseguita dalla polizia, si rifugia sotto la Mole, non indugia un solo momento ad accoglierla sotto la sua protezione; da cui, dunque, il folgorante innamoramento.
Ma l'amore a tre, che i giovani mettono in piedi, non costituisce il vero perno del film, come nel caso di Jules et Jim, ma una semplice componente, raccontata inoltre per brevi sfumature e senza eccesso di dettagli; non coi toni sfumati e romantici del film francese, come se sui tre amanti incombesse un destino erotico ineluttabile, ma coi modi ironici e scherzosi di tante commedie all'italiana di Wertmulleriana memoria.

In realtà la specialità del film sta nella curiosa trovata dell'ambientazione all'interno del Museo del Cinema. All'ombra dell'austero monumento, nell'atmosfera grave e rarefatta che chi ha visitato la Mole ben conosce, il giovane vive come i fantasmi della leggenda nei castelli abbandonati; come una presenza puramente spirituale nella materia greve e fredda che lo circonda. Si muove silenziosamente di notte sulle scale solitarie della antica sinagoga, "frequentando" gli antichi reperti del cinema muto e in bianco e nero, come i momenti virtuali della sua vita psichica; quasi che le sue vicende esistenziali ed emotive non ne fossero altro che una semplice derivazione (a conferma il fatto che il ragazzo viva addirittura dentro la Mole, in un micro appartamento realizzato come un set cinematografico).

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venerdì 22 aprile 2005

Recensione A SNAKE OF JUNE - UN SERPENTE DI GIUGNO

Recensione a snake of june - un serpente di giugno




Regia di Shinya Tsukamoto con Asuka Kurosawa, Yuji Koutari, Shinya Tsukamoto, Tomoro Taguchi, Susume Terajima, Mansaku Fuwa

Recensione a cura di kowalsky

"Qualcuno mi parla di "Tetsuo - l'uomo d'acciaio" e mi chiede se per caso fosse un film degli anni settanta. E' logico: per Tsukamoto il tempo è un concetto astratto, puo' anche non esistere (ma coesistere fino in fondo se incentiva il bisogno morale di quotidianità/attualità).
Come una "scheggia impazzita" (una sorta di Alien ibernato per un paio d'anni e successivamente lordato dal ventre dell'immagine, trait d'union tra surrealismo ed estetica pulp) s'agita il Blob del più controverso regista orientale, il Cronenberg che l'Occidente non si è mai meritato. Con l'alter-ego americano (ma forse anche con un certo Dennis Cooper) Tsukamoto è ossessionato dai dèmoni che infestano la civiltà contemporanea, spettri di un mondo forzatamente moderno, e da voce a un cinema che osa prefiggersi la "ricchezza" dei parametri e della visionarietà tecnico/scenografica in un contesto di indipendenza dai grossi budget. Per molti di noi, è incomprensibile credere che "A Snake of June", col suo cut-up da Fuori Orario e la sua cifra stilistica per aficionados dei d'Essai, abbia avuto una gestazione tanto sofferta.

Come mai? Proviamo a fare un passo indietro: le ragioni per cui questo cinema velleitariamente assunto a "culto di se'" tanto quanto i film della Factory di Warhol negli anni sessanta sia oggetto di scherno invisibile sono disparate. Il cinema di Tsukamoto si spoglia interamente di ogni orpello tradizionale, diventando quel crocevia di trucco e apparenza (v. la CONCRETA rappresentazione del Noise metropolitano) che in un certo senso ha espiato i primi affronti nel lontano 1938, durante una fantomatica e celeberrima trasmissione radiofonica di Orson Welles mentre rileggeva "la guerra dei mondi" di Wells con drammatica veridicità, Il minimalismo estremo di Tsukamoto diventa anche in questo caso un'immortale b/n quasi fosse un Chaplin decisamente avverso all'uso del sonoro (ne colse la sua dimensione arcaica soltanto con "il dittatore"). E' (ovviamente) cinema sul cinema, arte che potrebbe essere ripiegata in se stessa - pensiamo solo all'incredibile e sfruttatissima inquadratura dell'occhio dal primo film di Bunuel (e Dalì), "un cane andaluso". Ma è anche la dissacrazione di una videocamera che riproduce tutto quel voyeurismo catturato dalla nostra essenza inconscia di esseri umani percio' inevitabilmente dannoso (autoindotto come un celebre film di Micheal Powell). Tutto cio' che l'occhio non vede, ma osa spiare. Nello spazio iperscrutabile di una metropoli soffocante ed ermetica quanto uno stanzino senza finestre, le vicissitudini di Rinko Tatsumi piegano quel climax di quotidiana legalità e di un certo cinema più o meno tradizionale (lo spettatore cerca, pretende che si parli solo ed esclusivamente di una donna frustata dal rapporto freddo con il marito) mettendo in campo la rivalsa del cineasta su un pubblico tendenzialmente troppo esposto alla paura per poter accettare i suoi film. E' sonica rappresentazione del mostruoso, del deforme, dell'insolito e dei tabu' popolari, brutalizzata da un soundtrack iconoclasta, e ancor di più dal rumorismo industriale di un'insostenibile aquazzone (nessun riferimento con Noe', sono metafore che a Tsukamoto non riguardano). L'acqua - elemento termico e meteorologico che incalza solenne e assordante nel film - è la stralunata deviazione acida di un'ossessione - v. la mania patologica del marito di Rinko, Shigehiko, di pulizia degli ambienti - o il compendio coreografico del gioco morboso della moglie con il suo "maniaco2".

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martedì 19 aprile 2005

Recensione IL VENTRE DELL'ARCHITETTO

Recensione il ventre dell'architetto




Regia di Peter Greenaway con Brian Dennehy, Chloe Webb, Lambert Wilson, Sergio Fantoni, Vanni Corbellini, Stefania Casini, Alfredo Varelli, Francesco Carnelutti, Geoffrey Coppleston, Rate Furlan

Recensione a cura di Kater

Pieno di citazioni artistiche, chiuso, intellettuale, compiaciuto, estetico, il cinema di Greenaway non dà l'idea di voler narrare ma solo di mostrarsi. D'altro canto, lo stesso Greenaway dichiara che il suo interesse primo è portare al cinema 'l'estetica dell'arte' e l'arte non fornisce spiegazione di sè, si mostra attraverso i suoi codici. Il ventre dell'architetto è il suo terzo film, cromaticamente anomalo rispetto al resto della sua produzione e certamente il più semplice, forse perchè alle prese con la più concreta delle arti visive: L'architettura.
La cosa divertente, tipica dell'umorismo greenawaiano, è che il film ruota intorno alla figura di Ethienne Louis Boullèe, architetto visionario dell'illuminismo, che non costruì praticamente nulla e la cui opera più famosa (sulla carta) è il Cenotafio per Newton, un edificio sferico, la figura in assoluto meno architettonica, svincolata dal reticolo cartesiano.
Stourley Kracklite, architetto americano ammiratore di Boullèe, con il quale condivide il fatto di essere fondamentelmente un teorico, si reca a Roma con la moglie Louisa per realizzare il suo sogno: Una mostra per l'architetto visionario. L'entusiasmo di Kracklite è alle stelle, la mostra realizza il sogno di una vita, ma fin da subito iniziano a mutare le cose fuori e dentro lui. E' assalito da tremendi dolori al ventre che diventano presto un' ossessione, che lo spingono a fotocopiarselo, a fotocopiare ventri di statue, e sulle fotocopie cercare di studiare il suo male, di disegnarlo. Si studia attraverso la propria riproducibilità e, al contempo, la riproducibilità dell'arte come una sorta di specchio, cercando l'origine del male che lo divora.

La moglie Louisa, incinta di Kracklite da cui si sente abbandonata, si avvicina a Casparian, un giovane architetto ambizioso che la corteggia e che cerca, riuscendoci, di sotrarre fondi alla mostra. Intanto Kracklite scrive a Boullèe, a cui confida i propri dolori, i tradimenti della moglie e l'incomprensione da cui si sente circondato. Solo Ethienne lo può capire.
Scrive: "Caro Ethienne, non mi piacciono i dottori, ti mettono sempre in stato di inferiorità. Quando ti hanno palpato le parti intime, sentito l'alito, tastato la lingua, come fai a parlargli da pari a pari? (...) Firmato: Stourley Kracklite (architetto).
Kracklite si avvicina alla morte, il suo ventre contiene un terribile cancro intestiale; quello di Louisa contiene il suo proseguo naturale, un figlio, la vita.
Ventri, oscure semisfere del nostro corpo, centri del nostro equilibrio, che possono contenere, con la stessa corporea naturalezza, la vita o la morte.
La parabola di Kracklite, estromesso dalla mostra, privato della moglie, con pochi mesi di vita si conclude con il suo suicidio (annunciato da una sequenza all'inizio del film). Nella posa di un Cristo crocifisso si getta dalle finestre del Vittoriano, all'interno del quale la moglie innaugura quello che fù il suo sogno, è da alla luce il figlio.

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mercoledì 13 aprile 2005

Recensione VACANZE ROMANE

Recensione vacanze romane




Regia di William Wyler con Audrey Hepburn, Gregory Peck, Eddie Albert, Tullio Carminati

Recensione a cura di peucezia

Probabilmente William Wyler quando decise di realizzare il film ROMAN HOLIDAY (vacanza a Roma e non vacanze come nella nostra traduzione) non pensava che stava dando vita a un vero e proprio cult della cinematografia mondiale.
In fin dei conti gli elementi giocavano in suo favore solo in parte: c'era Gregory Peck, attore all'apice del successo dopo i film interpretati a fianco di dive del calibro di Ingrid Bergmann, Susan Hayward e Jennifer Jones, c'era il comprimario Eddy Albert, c'era lo scenario naturale offerto da Roma ma la parte della protagonista era stata assegnata ad una debuttante, l'allora giovanissima Audrey Hepburn che invece seppe dare al suo personaggio la grazia algida e l'allure adeguati per il ruolo.

VACANZE ROMANE è importante anche per il ruolo assunto dal nostro paese: girato interamente a Roma sia in interni che in esterni, da' la stura alla Hollywood sul Tevere, cioè a produzioni americane girate a Cinecittà attratte dai costi ridotti e anche dalle valide maestranze e inconsapevolmente fa da testimonial turistico per il Belpaese attirando ricchi turisti americani ormai definitivamente convinti che l'Italia non è più un cumulo di macerie e di sciuscià come nelle descrizioni crude dei film neorealisti tanto amati proprio negli Stati Uniti.

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mercoledì 6 aprile 2005

Recensione LA PROMESSA

Recensione la promessa




Regia di Sean Penn con Jack Nicholson, Aaron Eckhart, Benicio del Toro, Helen Mirren, Robin Wright Penn, Vanessa Redgrave, Mickey Rourke, Sam Shepard, Patricia Clarkson

Recensione a cura di GiorgioVillosio

Il cinema americano segue abitualmente modalità stereotipate per i diversi generi, con l'effetto di approdare, nella maggioranza dei casi, a soluzioni assolutamente prevedibili perchè già viste: pensate alle storie di avvocatura e tribunali, ai film di azione con gli inseguimenti in auto, ai polizieschi con agenti corrotti, ai film di mafia coi criminali italo americani, o, stereotipo tra gli stereotipi, a tutta la cinematografia western, con buoni e cattivi, pionieri ed indiani!
Sarebbe troppo facile e semplicistico sostenere che tale fenomeno sia dovuto a mancanza di fantasia e di inventiva da parte di autori, sceneggiatori e registi; e risulterebbe fuorviante, perché in tal modo si verrebbe a nasconderebbe la causa effettiva di tutto ciò, che risiede invece nella determinata volontà delle produzioni, mirate sostanzialmente al "business innanzi tutto".
E, per fare denaro, è sempre meglio seguire vie rassicuranti già battute e tradizionalmente seguite, con esiti certi; lasciando invece l'onere della sperimentazione a piccoli operatori temerari.
La cosa, che, detta pari pari, da noi suona scandalosa, non dovrebbe invece stupire più di tanto, ove il cinema venga visto come ogni altro business. In fin dei conti anche le auto si assomigliano tutte e vengono pensate sui gusti del pubblico, senza voli di fantasia; come pure è vero che i ristoranti propinano sempre la stessa cucina, senza tentare novità gastronomiche, o che nelle hit parades musicali si sentono plagi continui di motivi già affermati.
Al di qua dell'Atlantico, in effetti, la si pensa un po' diversamente a proposito di cinema, quanto meno da parte delle fasce del pubblico più acculturato, che cerca nei film qualità estetiche, prima ancora che divertimento facile e ragioni di cassetta; quelle che invece, persegue diabolicamente la nostra televisione, soprattutto dopo l'esplosione delle reti commerciali (copiate, se vogliamo, proprio dalla cultura yankee). In tal modo il cerchio si chiude, e, come cinefili, siamo portati a guardare con preconcetti scetticismi i prodotti di oltreoceano, pur riconoscendone comunque la insuperabile professionalità esecutiva.

Fortunatamente, però, la regola conosce le sue brave eccezioni, e capita ogni tanto di trovarsi davanti a film americani di sorprendenti qualità anche sul piano narrativo e del pensiero, come nel caso de "La promessa" del validissimo Sean Penn. Apparentemente di genere poliziesco e di azione, il racconto risulta invece fortemente introspettivo, psicologico e riflessivo, conducendo infine a considerazioni profonde e pessimistiche sull'esistenza e sull'umano. Il protagonista, detective alla vigilia della pensione, tratta il suo ultimo caso professionale, alla ricerca di un maniaco pedofilo, e promette di risolvere un caso mai chiarito. Abbandonato ormai il lavoro, continua le sue ricerche fino a trovare il bandolo della difficile matassa. Ma, diversamente da quanto succede in genere negli analoghi film Usa, la sua verità non arriverà mai a trionfare, e l'intuitivo detective non verrà creduto da nessuno, né da amici interessati né dai colleghi. Fino a quando, per un fatale incidente d'auto, il vero colpevole morirà prima di scoprirsi, lasciando l'investigatore solo con le sue certezze e nel più totale sconforto; che lo porterà in effetti ad una follia progressiva. Quello che c' è di vero, nel film di Penn, è che nella realtà della vita funziona normalmente così: che quasi tutti gli uomini si trovano a fare i conti col misconoscimento della propria opera e delle proprie ragioni, perdendo autostima, fiducia nei propri mezzi e volontà progettuale. Il tutto raccontato con modi delicati e preferitivi (commovente e sfumato il primo incontro di amore dei protagonisti), facendo intendere senza mai calcare la mano sugli effetti facili; soprattutto nella storia del maniaco pedofilo, che mai viene visto all'opera, e solo per rapidi accenni. Bravo più del solito Jack Nicholson, finalmente in una parte dove l'occhio sbarrato e l'espressione diabolica sono legittimate dal personaggio e dalla vicenda.

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lunedì 4 aprile 2005

Recensione HAPPINESS

Recensione happiness




Regia di Todd Solondz con Ben Gazzara, Lara Flynn Boyle, Jared Harris, Dylan Baker, Jane Adams, Philip Seymour Hoffman

Recensione a cura di maremare

Nel 1960 ebbe un grande successo un filmetto della produzione Disney, dal titolo "Il segreto di Pollyanna", che racconta di un'orfanella costretta a vivere presso una severa zia in un paesino segnato dall'egoismo, dal risentimento e dalla reciproca inimicizia. Il segreto della ragazzina è la felicità: come essere e come rendere felici, usando moine, sorrisetti e buon umore.
Persino quando rimane paralizzata a causa di un incidente, Pollyanna continua ad irradiare ottimismo e buon umore.
Certo è difficile capire come la storiella mielosa di Pollyanna possa avere avuto un così vasto consenso di pubblico, se non considerando l'innato bisogno delle persone di credere nell'esistenza di una ricetta per la felicità.
Per contro, accanto al nostro inestinguibile bisogno di favola, occorre registrare un opposto e assai diffuso atteggiamento filosofico-esistenziale, vagamente cinico che tende a svalutare persino il desiderio di una ipotetica felicità, tacciandolo di egoismo, superficialità o sciocco infantilismo. Un festival del nichilismo, tendente a trasformare in virtù la nostra incapacità di stare bene con noi stessi e gli altri. In poche parole, vorremmo essere felici e non riusciamo neppure ad essere sereni: non vogliamo ammettere che il fallimento dipende, in gran parte, dalle nostre incapacità.

Emblematico, in tal senso, "Happiness", ideologicamente lontano da Pollyanna ben più dei quaranta anni che separano le due pellicole, ma perfetto nella sua antitesi.
I personaggi di Happiness non sono affatto edificanti: una coppia di genitori estenuati da quarant'anni di finta armonia coniugale, tre figlie con storie tragiche e banali. Una di queste è sposata al peggiore psicoanalista della storia del cinema, pedofilo e innamorato degli amichetti del figlio.
Intorno a loro ruotano un piccolo popolo di onanisti coatti, molestatori telefonici, ladri, assassini; tutti invischiati in modo caparbio e fallimentare in quella ricerca della felicità che è considerata un diritto costituzionale da ogni bravo cittadino americano.

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venerdì 1 aprile 2005

Recensione GIU' LA TESTA

Recensione giu' la testa




Regia di Sergio Leone con Rod Steiger, James Coburn, Romolo Valli, Maria Monto

Recensione a cura di peucezia

Film del 1971, uscito quindi in un periodo particolarmente "caldo" dal punto di vista politico-sociale, Giù la testa chiude l'epopea western di Sergio Leone anche se però definire questa pellicola un film western è forse un po' una forzatura. Esistono degli elementi di base propri del genere: il bandito, una diligenza, un progetto di rapina in banca ma in effetti l'azione spostata in Messico nei primi anni del XX secolo all'epoca di una rivoluzione non ben precisata differenziano il film dagli altri del filone.

In Giù la testa ci sono molti elementi simbolici che ne fanno un'opera un po' più ambiziosa con allusioni più o meno velate alla politica (la frase di Mao a inizio film ne è un esempio).
Di questo film si è detto tutto e il suo contrario: molti sostengono che non fu amato da Leone e che la scelta di Rod Steiger come protagonista fu imposta più che voluta, comunque l'attore americano (tra l'altro splendidamente doppiato dal grande Carletto Romano) non sfigura affatto nel ruolo del peone e bandito da strapazzo messicano Juan Miranda un po' rozzo ma capace di slanci che lo riscattano ampiamente fino alla conclusione del film.
Altro coprotagonista che prende il posto dello sguardo di ghiaccio Clint Eastwood lanciato proprio da Leone quasi dieci anni prima è James Coburn nel ruolo del rivoluzionario irlandese John Mallory, detto Sean. I duetti con Steiger soprattutto a inizio film sono memorabili, inoltre Coburn è il contraltare di Steiger, la sua coscienza e di questo lo spettatore se ne rende conto sequenza dopo sequenza.
Se risulta facile intuire il pensiero del personaggio interpretato da Steiger fin dall'inizio, il ruolo di Sean è più enigmatico, di lui si intravedono sequenze della vita passata grazie all'uso frequente del flashback accompagnato dalla bellissima colonna sonora di Ennio Morricone.

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