martedì 27 dicembre 2005

Recensione LADYHAWKE

Recensione ladyhawke




Regia di Richard Donner con Rutger Hauer, Michelle Pfeiffer, Matthew Broderick

Recensione a cura di kaiser soze

Philippe Gaston, detto il Topo (Matthew Broderick) è solo un ladruncolo, in fuga da Agijon e dalla giustizia sommaria dell'odiato e temuto Arcivescovo.
E' proprio durante la fuga che si imbatte nel solitario Etienne Navarre (Rutger Hauer), un tempo capitano delle guardie di Agijon, che viaggia con la sola compagnia del suo cavallo e del suo falco. Il Topo scopre che il cavaliere ed il suo falco, anch'essi in fuga da Agijon, sono entrambi vittime di un oscuro sortilegio che si trascinano da due anni. L'Arcivescovo (John Wood), infatti, geloso dell'amore che legava il capitano alla bella Isabeau (Michelle Pfeiffer), ha stretto un patto col demonio, condannando i due innamorati ad una crudele prigionia che li tenga separati pur stando insieme: la notte trasforma Navarre in lupo, mentre il giorno trasforma Isabeau in falco.

Il film è stato girato interamente in Italia, nel Parco Nazionale d'Abruzzo, mentre il castello del Vescovo si trova a Torrechiara, in Emilia Romagna.

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sabato 24 dicembre 2005

Recensione LE CRONACHE DI NARNIA: IL LEONE, LA STREGA E L'ARMADIO

Recensione le cronache di narnia: il leone, la strega e l'armadio




Regia di Andrew Adamson con Georgie Henley, William Moseley, Skandar Keynes, Anna Popplewell, Tilda Swinton, Judy McIntosh, Liam Neeson, James McAvoy

Recensione a cura di elfavy

Dopo la saga di Harry Potter e la Trilogia del Signore degli Anelli, un?altra serie di film fantasy occuperà le sale italiane per i prossimi sei anni. Ne scuole di magia ad Hogwarts ne orribili Uruk-hai che fanno scorrerie, ma bensì un?incantata Narnia all?interno di un armadio. Un romanzo pubblicato nel 1950 da C.S. Lewis, grandissimo amico e compagno di Università, di guerra, del ?Tea Club?, del noto J.R.R. Tolkien, creatore della Terra di Mezzo. Lewis ha fatto della terra di Narnia un capolavoro di sette volumi e come si è già annunciato dovrebbero approdare tutti al cinema.

La storia racconta di quattro bambini, Peter, Susan, Edmund e la più piccola Lucy che si rifugiano durante la Seconda Guerra Mondiale nella casa del professor Digory Kirke. Nell?esplorare la casa Lucy trova un armadio e, nascondendosi dentro, finisce in un luogo nevoso e magico. Nei pressi di un lampione incontra un fauno, Mr Tumnus, che le racconta di Narnia, ovvero il paese in cui è approdata, e della sua regina: la Strega Bianca.
Narnia era una volta un bel luogo verdeggiante ma tutto iniziò a cambiare con l?arrivo della Strega Bianca che aveva sottomesso le creature ad un inverno senza fine. La creatura confessa di trovarsi agli ordini della Strega e che se mai avesse incontrato un figlio di Adamo o una figlia di Eva avrebbe dovuto portarglieli. Ma il fauno decide di salvare la piccola riconducendola nella direzione di casa: l?armadio. Al ritorno nessuno dei fratelli crede alla piccola fin quando non scopriranno la verità.L?avventura inizia quando tutti e quattro finiscono a Narnia e Peter, Susan, e Lucy devono per forza combattere contro la Strega Bianca che ha rapito Edumnd. Ma i quattro fratelli non sono soli, le truppe del bene si sono riunite e il Leone Aslan li aiuterà a far avverare la profezia...

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Recensione ROMA CITTA' APERTA

Recensione roma citta' aperta




Regia di Roberto Rossellini con Aldo Fabrizi, Anna Magnani, Marcello Pagliero, Vito Annichiarico, Nando Bruno

Recensione a cura di kowalsky

La verità è spesso scomoda: esiste ancora qualche illustre luminare o esperto - conscio di esporre una tesi impopolare e forse rafforzato (beato lui) dal proprio snobismo - che avanza delle riserve su uno dei massimi capolavori del cinema italiano, e per quanto folle possa sembrare se ne possono persino comprendere le ragioni.
Non è tanto che a qualcuno il neorealismo non va giù, ma è forse una questione di affinità empatica: può darsi che gli illustri intellettuali di cui parlo si oppongano alla grandezza emotiva del neo-realismo in quanto - a loro modo di vedere - ad esso corrisponde una versione troppo semplicistica e lirica dei fatti. Essi presumono che per confrontarsi con la razionalità sia necessario scendere a patti con l'irrazionale.
Forse, allora, hanno guardato superficialmente a questo film, che non può e non deve essere collocato in una realtà storica di ferite brucianti come il dopoguerra imminente, o dei romanzi di Vasco Pratolini o Mario Soldati, perché non è solo questo. Non è nemmeno riconducibile in toto al neorealismo classico, per varie ragioni, soprattutto perché questo film è, oltre che amaro, violentissimo.

E' la Pura Realtà, filtrata senza trucchi cinematografici o simbolismi castranti, ma a sua volta è un Simbolo (questo sì) di tutto ciò che un paese in guerra non è più in grado di combattere: fulcro della vicenda è un ragazzino, figlio di un tipografo impegnato nella Resistenza, che vive la sua esistenza fra i coetanei compagni di giochi e i genitori, e che vede a poco a poco spezzarsi tragicamente il legame familiare a seguito della deportazione del padre in Germania e dalla tragica fine della madre, Pina, mentre - in una sequenza di memorabile impatto - insegue Francesco, il suo uomo, tentando invano di ribellarsi al suo arresto.
La fatalità degli eventi brucia, ci lascia con un senso doloroso, più che perdita, di muta e rabbiosa rassegnazione. Davanti alle ceneri di un paese (una città?) mutilata e dilaniata da una guerra d'occupazione, lo sguardo freddo e crudele di un nazista segna l'inevitabile conflitto tra la forza dell'istinto e l'impossibile obiettività sul Male assoluto.

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venerdì 23 dicembre 2005

Recensione KING KONG

Recensione king kong




Regia di Peter Jackson con Naomi Watts, Jack Black, Adrien Brody, Andy Serkis, Jamie Bell

Recensione a cura di Simone Bracci

Storia di un amore impossibile. L'emblema è l'immagine del gorilla gigante che stringe nella sua mano la bionda e sensuale Ann Darrow, oggetto del suo desiderio e dimostrazione di un sentimento che valica i confini della natura e che si tramuta nello sguardo tenero e toccante di re Kong, nei suoi ultimi istanti di vita. Già, perché il "King Kong" made by Peter Jackson, essendo un concentrato di generi, è anche questo: un dramma d'amore che impietosisce e commuove. Andy Serkis, l'attore feticcio di Jackson, colui che aveva dato volto (con più di cento sensori posti sul viso) a Gollum, ora si ripete con Kong, rendendolo semplicemente meraviglioso dal punto di vista realistico, riuscendo meglio che non nel suo personaggio del cuoco burbero.
Per il resto gli effetti digitali della Weta, la casa neozelandese oramai di moda dopo la trilogia dell'anello, la fanno da padrone, creando in Skull Island un'epoca senza tempo, dove Kong è il padrone incontrastato.

Sin dall'inizio si capisce che l'opera di Jackson è uno spassionato omaggio all'originale del 1933, partendo dai titoli di testa per concludere con i continui rimandi al film che ha segnato la sua infanzia, portandolo sulla via cinematografica. King Kong risulta essere un'opera con due anime e due facce, dove una prima parte (che coincide con quella finale), sospesa tra il dramma e la commedia, esprime tutto il cinismo di una città agli albori del suo impero ed una parte centrale, mista tra avventura, fantasy ed horror, che è simbolo di un territorio dove mai l'uomo potrà dire la sua. Il tutto ambientato in due giungle di struttura opposta: una metropolitana, com'era già la New York degli anni trenta, che Jackson si è divertito a mandare in frantumi, e l'altra proibita e misteriosa, come appare l'Isola del Teschio all'ignara troupe e all'equipaggio che là li ha condotti.
Proprio in questa suddivisione così netta, che poco ha a che vedere con l'originale, sta il punto debole del film. A partire dall'eccessiva durata (180'), in cui l'enfatica esigenza di confezionare un buon prodotto ha forse oscurato l'obiettivo di Jackson, la volontà di riesprimere un mito collettivo, passando per il ritmo del racconto, che se da una parte mantiene intatta la sua eleganza stilistica, dall'altra tende a spiazzare lo spettatore non coinvolgendolo sempre come meriterebbe.

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giovedì 22 dicembre 2005

Recensione MEMORIE DI UNA GEISHA

Recensione memorie di una geisha




Regia di Rob Marshall con Ziyi Zhang, Ken Watanabe, Kôji Yakusho, Michelle Yeoh, Kaori Momoi, Youki Kudoh, Li Gong, Kenneth Tsang

Recensione a cura di martina74 (voto: 5,5)

Gei-sha, in giapponese, significa "persona d'arte": nel mondo nipponico, specialmente prima della seconda guerra mondiale ma anche in misura minore oggi, la geisha è un'icona misteriosa e irraggiungibile, con il viso nascosto da una maschera di trucco come nel teatro Kabuki, e avvolta nei molti metri di seta ricamata che compongono il kimono. La geisha rappresenta un ruolo femminile che nel mondo occidentale non riusciamo a capire appieno: distante e pudica (gli incontri sessuali non sono quasi mai contemplati nelle "prestazioni" dell'artista), addolcisce con la sua compagnia le cene e le cerimonie del tè, suonando, danzando e dispensando piccole perle di saggezza che devono servire a far sentire gli uomini al centro dell'attenzione. Si dice che per gli occidentali l'infanzia, pur giocosa, sia l'età della costrizione e delle regole e la maturità quella dell'autodeterminazione, mentre per i giapponesi sembra accadere il contrario: l'uomo adulto perde del tutto la dimensione ludica ma anche la libertà personale e si ritrova imprigionato in una rete di costrizioni e di rituali, che la geisha riesce in qualche modo a sciogliere con le sue seduzioni castissime: mostrando un polso mentre inclina la teiera, ridendo dietro il ventaglio, camminando con piccoli passi di bambina.
Questo aspetto esotico e non del tutto comprensibile della cultura del Sol Levante attira da molto tempo gli occidentali e, da Puccini in poi, molti artisti hanno tentato di raccontare quel mondo inaccessibile: Rob Marshall (prodotto da Steven Spielberg, che in un primo momento avrebbe voluto essere anche regista) è l'ultimo in ordine di tempo a provare la tentazione di sollevare il sipario su questo piccolo universo, e lo fa adattando per il cinema "Memorie di una geisha", il best seller di Arthur Golden.

La storia è quella di Chiyo, venduta dalla famiglia ad appena nove anni, assieme alla sorella, a una okiya, una scuola per geishe. Spesso accadeva che le famiglie povere vendessero le figlie per avviarle a questa attività, liberandosi di bocche da sfamare e garantendo loro, se non la libertà, almeno una fonte di guadagno.
Appena giunta all'okiya e separata dalla sorella, Chiyo attira le invidie di Hatsumomo (Gong Li), geisha affermata ma infelice, che già vede nella bambina una futura rivale. È proprio l'odio di Hatsumomo a far subire alla piccola i maltrattamenti della tenutaria della casa e a impedirle di seguire l'apprendistato per divenire maiko e poi geisha. Nel periodo in cui è costretta a fare la serva dell'okiya, Chiyo incontra l'uomo che diverrà l'unico amore della sua vita (Ken Watanabe) e, mentre la voce metallica di una radio ci informa degli avvenimenti che si succedono negli anni, la bambina sboccia in una splendida Zhang Ziyi e la famosa geisha Mamhea (Michelle Yeoh) la prende sotto la sua protezione e la addestra al ruolo di maiko, per contrastare l'influenza di Hatsumomo nei salotti di Kyoto.
Già al suo debutto la giovane, il cui nuovo nome è Sayuri, è protagonista di un enorme successo e in breve (con una cesura nella sceneggiatura che lascia alquanto perplessi) diviene una leggenda vivente, scatenando in modo definitivo l'odio e il desiderio di vendetta di Hatsumomo.
La seconda guerra mondiale pone però bruscamente fine alla tradizione millenaria delle "persone d'arte" e Sayuri è costretta a rifugiarsi in un luogo sperduto, da cui tornerà grazie all'insistenza del socio in affari dell'uomo amato, per fare da intermediaria nei rapporti con gli americani, che tentano di colonizzare economicamente il Paese. Il finale romantico lascia spazio alla speranza di un futuro per Sayuri, che rimarrà comunque sempre prigioniera della sua maschera teatrale e delle sue sete preziose, in un mondo sempre più sorpassato, in cui le icone tradizionali della femminilità sembrano fossili di un tempo destinato a non tornare.

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martedì 20 dicembre 2005

Recensione MARIA FULL OF GRACE

Recensione maria full of grace




Regia di Joshua Marston con Catalina Sandino Moreno, Yenny Paola Vega, Virgina Ariza, Johanna Andrea Mora, Wilson Guerrero, John Álex Toro, Guilied Lopez, Patricia Rae, Orlando Tobon

Recensione a cura di peucezia

Film del 2004, diretto da Joshua Marston, coproduzione USA-Colombia, ha sbaragliato opere con maggiore battage pubblicitario ed è stato premiato come migliore opera prima al festival di Berlino e al Sundance film festival.

La storia è cruda, dura: Maria, (Catalina Sandino Moreno) è una ragazza volitiva di diciassette anni. Fosse vissuta in Italia o negli Stati Uniti la sua vita non sarebbe stata molto dissimile da quella delle sue coetanee, divisa tra fidanzatini, feste e studi, ma invece vive nella realtà difficile della periferia di Bogotà, capitale di una nazione tristemente famosa per il suo narcotraffico ed ha una difficile realtà familiare. Così si trova nella condizione di diventare "mula", incensurata portatrice di droga. Maria e le sue compagne di sventura hanno dalla loro parte la gioventù, la bellezza, ma il peso della miseria disperata e disperante. Non vediamo mai sorridere nessuna delle giovani protagoniste del film.
Il loro sguardo tagliente ci accompagna fino alla conclusione della vicenda e ci ricorda l'amarezza delle loro giovani esistenze, ma anche la fierezza propria di un popolo misero, sconfitto ma mai veramente vinto.

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giovedì 15 dicembre 2005

Recensione A/R ANDATA + RITORNO

Recensione a/r andata + ritorno




Regia di Marco Ponti con Libero Di Rienzo, Vanessa Incontrada, Kabir Bedi, Remo Girone, Ugo Conti

Recensione a cura di peucezia

Dopo l'opera prima "Santa Maradona", un po' troppo pretenziosa fotografia dei soliti trentenni e delle loro inquietudini e insoddisfazioni, il regista Marco Ponti torna con un lavoro più frizzante e originale, avvalendosi della buona interpretazione di Libero De Rienzo, giovane attore ormai lanciatissimo sul palcoscenico nazionale e dei suoi validissimi compagni di avventura: Vanessa Incontrada, finalmente con la sua vera voce dopo lo scialbo doppiaggio a cui era stata destinata da Pupi Avati ne "Il cuore altrove" e l'ironico Kabir Bedi (anche lui con il suo esotico accento anglo-indiano).

Non mancano nel film le citazioni ai classici della commedia all'italiana anche se talvolta velate ed allusive: il protagonista si chiama Dante Cruciani come Totò ne "I soliti ignoti".

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mercoledì 14 dicembre 2005

Recensione SHANGHAI DREAMS

Recensione shanghai dreams




Regia di Xiaoshuai Wang con Yuanyuan Gao, Anlian Yan, Xueyang Wang, Bin Li

Recensione a cura di stefano76 (voto: 7,0)

Vincitore del premio della giuria al Festival di Cannes 2005, "Shangai Dreams" approda nelle sale italiane, sperando non finisca nel dimenticatoio come spesso accade nel nostro paese per i film orientali che non sono horror.
Il film è diretto da Wang Xiaoshuai che non è nuovo ai festival e che aveva già vinto il Gran Premio della giuria nel 2001 al Festival di Berlino con il film "Le biciclette di Pechino".

La pellicola è ambientata nella Cina del 1983 e racconta le vicende di una famiglia che vive nella periferia del paese. Il padre, in anni passati, era stato costretto dalle nuove normative del governo cinese, che mirava a rafforzare le fabbriche dell?entroterra, a trasferirsi a lavorare da Shangai a una piccola cittadina rurale sperduta nella Cina. Ora, dopo anni di stenti, il suo sogno è quello di riportare la famiglia a Shangai e per farlo si trasforma in un padre padrone frustrato che impedisce alla figlia diciannovenne di vivere la sua vita e i suoi amori, perseguitato dal sogno di ritornare alla sua città natale e di evitare quindi ai figli di rimanere legati a quel piccolo paese.

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martedì 13 dicembre 2005

Recensione NEMMENO IL DESTINO

Recensione nemmeno il destino




Regia di Daniele Gaglianone con Mauro Cordella, Fabrizio Nicastro, Giuseppe Sanna, Lalli, Gino Lana, Stefano Cassetti

Recensione a cura di Susanna!

"Nemmeno il destino", tratto dall'omonimo romanzo di Gianfranco Bettin (Feltrinelli, 1997 e 2004), racconta di tre adolescenti che vivono alla periferia di Torino e affrontano quotidianamente problemi più grandi di loro: una madre affetta da una grave patologia psichica, un padre alcolizzato, un ambiente ostile e incapace di offrire alcuna prospettiva di futuro. Ai tre spetteranno destini diversi, tutti fra loro uniti da un disperato desiderio di fuga.

A differenza di tanto cinema contemporaneo, il primo grande merito del film è di avere degli interpreti che hanno le facce giuste per i loro ruoli. Il regista, Daniele Gaglianone, ha preferito scegliere i suoi attori fra non-professionisti, ottenendo risultati di un'innegabile vitalità espressiva. La freschezza e naturalezza dei tre ragazzi protagonisti sembra quasi un miracolo. Che dire poi del volto vissuto fino alla consunzione del padre di Ferdi? Tra le sue infinite rughe, simili ai solchi che scava l'acqua nella roccia, si legge, senza tanto bisogno di dialoghi, la sofferenza di tutta una vita passata in fabbrica a respirare veleni e la distruzione che porta con sé l'alcol. La bellezza allucinata della madre di Ale è un altro pezzo forte del film: anche a lei sono riservate poche battute e forse non servirebbero neppure gli insistiti flashback per spiegare cosa è stata la sua vita e cosa l'ha portata a questa catatonica follia.
In un mondo di adulti distrutti dalla durezza della vita, si muovono i tre ragazzi, tre adolescenti pieni di vitalità, con desideri semplici e comuni come andarsene da quella periferia squallida e inospitale oppure, ancora più semplicemente, tornarsene a casa e trovare una famiglia normale e una tavola apparecchiata. I genitori (e la scuola, e la società) sono colpevoli sì di non regalare ai loro figli una vita normale, ma colpevoli fino a un certo punto: anche per loro non c'è niente di semplice, nessuno ha diritto a scorciatoie, c'è solo da sperare di trovare dentro di sé il coraggio di ridere delle proprie disgrazie.

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lunedì 12 dicembre 2005

Recensione OGNI COSA E' ILLUMINATA

Recensione ogni cosa e' illuminata




Regia di Liev Schreiber con Elijah Wood, Eugene Hutz, Boris Leskin, Jonathan Safran Foer, Stephen Samudovsky, Zuzana Hodkova

Recensione a cura di GiorgioVillosio

Non è certamente facile fornire un'interpretazione univoca dei contenuti di questa convincente opera prima del giovane attore russo Liev Schreiber, stante la commistione di elementi eterogenei, di forma e di sostanza. Il film mescola infatti la tessitura drammatica, legata al precedente storico della persecuzione nazista contro gli ebrei, alla componente iperreale di una sorta di strano viaggio nello spazio e nel tempo, ad opera di personaggi assai curiosi; scolpiti e caratterizzati a tutto tondo, come nel teatro delle maschere, e legati tra loro da un crescendo affettivo continuo, che li porta dalla primitiva conoscenza a profondi sentimenti di amicizia nel finale. Un processo che non lascia immune nemmeno il simpaticissimo cagnolino "meticcio" del vecchio nonno russo, che passa progressivamente da atteggiamenti ringhiosi ed isterici ad una calorosa "amicizia" col giovane ebreo americano protagonista del racconto.

Complessa la sostanza, il film è pure multiforme negli aspetti formali, coniugando elementi lirici, cromatismi inediti, paesaggi simbolici fiabeschi, in un'atmosfera onirica e surreale che ricorda non poco il cinema e, soprattutto, il teatro orientale, principalmente giapponese. Quel tipo di racconto dove si confondono sempre realtà e sogno, verità e finzione; come era, se vogliamo, tutto il teatro dei tempi più antichi. Come sia riuscita un'operazione del genere al giovane autore americano del testo, anch'egli all'opera prima, non è facile dire; forse perché ebreo lui stesso, e dunque fortemente stimolato dal suo soggetto. O più probabilmente grazie alla reinterpretazione fattane dal giovane attore neo regista Schreiber, che sembra essersi preso grandi licenze poetiche, soprattutto nelle parti conclusive. Per saperlo bisognerebbe aver letto il libro del giovane esordiente, Jonathan Safran Foer, acclamato dalla critica letteraria non meno dello stesso film. Singolare che il nome vero dell'autore sia pure quello del protagonista del film, il giovane collezionista ebreo che parte per l'Ucraina in cerca delle sue radici; in pratica del personaggio femminile che tanti anni prima aveva sottratto il nonno alla repressione nazista, salvandogli la vita. Il tutto in un paese apparentemente scomparso, che pare mai esistito, nella memoria dei contemporanei, uno dei tanti villaggetti cancellati dalla storia nell'ultima guerra, dal criptico nome di Trachimbord.

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mercoledì 7 dicembre 2005

Recensione MAI PIU' COME PRIMA

Recensione mai piu' come prima




Regia di Giacomo Campiotti con Laura Chiatti, Natalia Piatti, Federico Battilocchio, Nicola Cipolla, Marco Velluti, Marco Casu, Francesco Salvi, Pino Quartullo

Recensione a cura di Antonio Merola

Il passaggio dalla fase adolescenziale all'età matura, la presa di coscienza della durezza della vita, la sensazione di perdita della purezza (mentale e fisica), la paura di crescere e di assumersi responsabilità, gli amori e l'amicizia, la scoperta dell'eros, la consapevolezza dell'esistenza della sofferenza e della morte, il dialogo interiore con Dio.
Sono tutti argomenti che il cinema ha affrontato nel corso della sua ultracentenaria storia, con esiti spesso contraddittori. Anche Giacomo Campiotti è entrato a far parte della schiera di autori che si sono occupati di questi "pericolosi" materiali narrativi e cinematografici. Si, perché il più delle volte si rischia, maneggiando simili tematiche, di realizzare opere ovvie, banali e superficiali.

Nel caso di "Mai più come prima", il problema principale riguarda l'impostazione della sceneggiatura, scritta dal regista in collaborazione con Alexander Adabachian. La vicenda, oltre che prevedibile, è contraddistinta da un susseguirsi di eventi che culminano in un evento tragico, definitivo. Sembrerebbe la fine del film e invece parte una seconda (inutile) storia durante la quale i protagonisti "crescono", diventano adulti, si separano e si ritrovano senza però che tale processo comporti sconvolgimenti ed evoluzioni veramente importanti.

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martedì 6 dicembre 2005

Recensione IL PADRINO PARTE III

Recensione il padrino parte iii




Regia di Francis Ford Coppola con Al Pacino, Diane Keaton, Talia Shire, Andy Garcia, Eli Wallach, Joe Mantegna, George Hamilton, Bridget Fonda, Sofia Coppola, Raf Vallone, Franc D'Ambrosio, Donal Donnelly, Richard Bright, Helmut Berger, Don Novello

Recensione a cura di Matteo Bordiga

Il più introspettivo e, certamente, il più drammatico dei tre. Gli intrighi mafiosi, gli agguati e le sparatorie, pur presenti, fanno ora da sfondo al motivo, sempre più dominante, dell'invecchiamento fisico e mentale di Don Michael Corleone. Come l'ultimo Vito Corleone, l'ormai rugoso "Padrino" non sembra più in grado di sostenere il peso del suo impero criminale: diventa più prudente, esitante. Indebolisce progressivamente la sua immagine di lucidissimo capo mafioso, sostituendola con quella di un uomo stanco, fiaccato.

Non a caso, il film inizia con la voce di Al Pacino che ci legge il contenuto di una lettera emozionata scritta da Michael ai figli, Anthony e Mary, avuti da Kay. Figli che, cresciuti lontano dal padre, sono stati educati dalla madre, a sua volta risposatasi. La voce di Michael, nel leggere poche e sentite righe, è cupa e addolorata: segno che i suoi dolori di uomo iniziano ad emergere prepotenti, soffocati nello sfarzo e nell'allegria di una grottesca cerimonia che festeggia il conferimento a Don Michael Corleone di una... onorificenza papale!
Ebbene sì, un titolo di grande prestigio ecclesiastico, assegnato al Padrino per la sua decisione di devolvere parte consistente del "patrimonio" di famiglia in beneficenza!

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lunedì 5 dicembre 2005

Recensione IL PADRINO PARTE II

Recensione il padrino parte ii




Regia di Francis Ford Coppola con Al Pacino, Robert De Niro, Diane Keaton, John Cazale, Robert Duvall, Talia Shire, Gastone Moschin, Sofia Coppola

Recensione a cura di Matteo Bordiga

Il più avvincente dei tre. Il "Padrino" più carico di azione, di avvenimenti che si rincorrono, di colpi di scena. Imperniato su una struttura a "montaggio alternato" (non nel senso "griffithiano" del termine, però), saltella continuamente fra la contemporaneità dell'ascesa al potere del maturo Michael Corleone, nuovo Padrino dopo la morte di Vito, e il passato remoto rappresentato dalla gioventù insanguinata dello stesso Vito Corleone, fuggito dalla Sicilia (destinazione Stati Uniti) dopo il massacro del padre, della madre e del fratello. I salti temporali, che ci consentono di seguire parallelamente le due vicende, permettono di apprezzare le analogie e le (poche) diversità riscontrabili nelle complesse personalità di Vito e di Michael Corleone. Padre e figlio, accomunati dalla ricerca di prestigio e denaro, inseguono il successo in due epoche diverse ma con identica "cattiveria". Tuttavia, sia nel caso di Vito che in quello di Michael il cinismo e la freddezza da gangster vengono "suggeriti", anzi in un certo senso imposti, da un evento traumatico che segna le loro esistenze: Vito, ancora picciotto, aveva dovuto sopportare l'assassinio del padre e del fratello, freddati per ordine del boss siciliano Don "Ciccio", e addirittura assistere all'esecuzione della madre, decisa a difendere a ogni costo il suo figlioletto. Michael, timido ed equilibrato, era stato invece sconvolto dal tentato omicidio del padre, molla in grado di scatenare in lui una reazione distruttiva (forse non sufficientemente approfondita dal punto di vista psicologico nel primo episodio) che trasformerà il suo distacco dagli affari di famiglia in ritrovata consapevolezza delle proprie origini e del proprio scopo: prima proteggere, poi vendicare il padre e, in seguito, raccoglierne degnamente l'eredità nella gestione del "Corleone enterprise".

In effetti, sia nell'epopea di Vito che (soprattutto ne "Il Padrino III") in quella di Michael lo spettatore "percepisce" il carattere sì spigoloso, ma non semplicisticamente malvagio, dei due. Mario Puzo, e con lui F. F. Coppola, non intendevano rappresentare una manichea dicotomia Bene vs. Male, ma piuttosto creare personaggi ambigui, capaci di confondere brutalità e tenerezza, di alternare comportamenti gelidamente assassini ad altri che lasciano intuire spiragli di umanità. Già nel primo episodio il vecchio Vito Corleone, nella riunione con i capi delle famiglie mafiose di New York e poi nell'intimo colloquio padre-figlio con Michael, appariva smussato, edulcorato, perfino stanco di una vita giocoforza trascorsa adifendersi (e a difendere la propria famiglia) dalle minacce del grilletto. Ne "Il Padrino II", il giovane Vito uccide il capo-quartiere Fanucci (magistrale e "colorata" l'interpretazione di Gastone Moschin) perché da lui ricattato, e il sospirato assassinio di Don "Ciccio" ha il sapore dolcissimo della tarda vendetta a sangue freddo. Non è dunque un personaggio banalmente spietato: non casuale, ovviamente, è la scena in cui si ritrova ad assistere impotente, con le lacrime agli occhi, al pianto disperato del piccolissimo figlio Fredo, disteso sul lettino e sofferente per una brutta polmonite.

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