sabato 30 dicembre 2006

Recensione THE PRESTIGE

Recensione the prestige




Regia di Christopher Nolan con Christian Bale, Michael Caine, Hugh Jackman, Scarlett Johansson, Andy Serkis, David Bowie

Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli (voto: 8,0)

La scienza come rappresentazione della magia, il gioco di prestigio come rappresentazione della scienza, l'illusione come forma d'arte, l'arte come imitazione della vita e la vita come imitazione dell'arte.

Il trentaseienne regista britannico Chritopher Nolan ritorna a collaborare con suo fratello Jonathan sei anni dopo il successo (a posteriori) di "Memento" (2000), un film eccellente. Ma se questa pellicola, scritta e diretta da Christopher, era l'adattamento di un racconto di suo fratello Jonathan intitolato "Memento mori", "The Prestige" è stato scritto a quattro mani dai fratelli Nolan ispirandosi all'omonimo romanzo di Christopher Priest, interessante autore inglese noto in Italia soprattutto per i libri "Esperienze Estreme" (The Extremes) e "L'Incanto dell'Ombra" (The Glamour). Per ottenere una possibile riduzione cinematografica da un libro così denso, complesso ed arzigogolato, Nolan ha dichiarato di aver lavorato alla scrittura del film per oltre diciotto mesi.

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venerdì 22 dicembre 2006

Recensione UN'OTTIMA ANNATA - A GOOD YEAR

Recensione un'ottima annata - a good year




Regia di Ridley Scott con Russell Crowe, Mitchell Mullen, Marion Cotillard, Albert Finney, Tom Hollander, Didier Bourdon, Valeria Bruni Tedeschi, Giannina Facio

Recensione a cura di kowalsky (voto: 7,0)

"Il vino ti bisbiglierà, con completa e definitiva onestà, ogni volta che ne berrai un sorso"

Uno strano concetto, quello del vino, metafora di un mondo come quello finanziario dove è doverosamente necessario guardarsi le spalle onde evitare possibili fregature: il "carpe diem" di Weiriana memoria potrebbe ambiguamente assumere un ruolo determinante anche nelle direzioni più inconsuete. E' un'indicazione propulsiva anche per un mondo tutt'altro che parallelo alla poesia e alla solarità della comunicazione interiore e letteraria: emblematico a riguardo, un "potenziale lecchino" può farti le scarpe, salvo poi ritrovarsi a sua volta ingannato dalle "dritte" del personaggio che ambiva a imitare, e, di con-seguenza, sostituire (l'effetto "Eva contro Eva" rivisto nel mondo contemporaneo).

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giovedì 21 dicembre 2006

Recensione IL MIO MIGLIORE AMICO

Recensione il mio migliore amico




Regia di Patrice Leconte con Pierre Aussedat, Daniel Auteuil, Dany Boon, Cyril Couton, Henri Garcin, Julie Gayet, Christian Gazio

Recensione a cura di Kater

"Non c'è deserto peggiore che una vita senza amici". E questa semplice verità François, ricco antiquario parigino, continuamente impegnato tra aste, trattative e nuovi affari, sembra ignorarla fino al momento in cui assiste al funerale di un suo cliente al quale sono presenti solo sette persone.
Un pensiero, quello dell'amicizia, lo spinge ad acquistare per 200mila euro un vaso greco con raffigurati Achille e Patroclo (epici amici dell'Iliade) del quale il battitore d'asta dice "fu commissionato da un uomo che, inconsolabile per la perdita del suo miglior amico, lo riempì di lacrime".
Sempre questo pensiero, la sera stessa, lo porta a scommettere proprio quel vaso appena acquistato con la propria socia, che gli fa notare la sua vita piena di impegni ma deserta di amici. Colpito da questa osservazione François scommette che le presenterà il suo miglior amico entro 10 giorni e da lì comincia la sua affannosa, divertente e anche un po' malinconica ricerca.
Cosa è un amico? Quali sono le caratteristiche che lo contraddistinguono? Chi si può chiamare amico e chi no? François non lo sa, e ad aiutarlo troverà Bruno, un taxista dall'animo fanciullesco, che lo guiderà a scoprire il significato di una parola che, scoprirà François, fino ad allora gli era rimasta estranea.

Con una storia semplice e lineare, giocata completamente sui dialoghi e la recitazione, Leconte ci porta a scavare nel significato della parola amicizia. Infatti François in materia è completamente ignorante.
Esemplare la lista che stila all'inizio del film, dove cerca di fare una graduatoria non cogliendo quale sia la sostanza dell'amicizia, confondendo il dividere interessi lavorativi con il "condividere" delle cose. Insieme a lui noi affrontiamo lo stesso percorso, e percepiamo la difficoltà di Bruno che gli deve spiegare perché non basta sorridere o offrire un caffè per poter definire qualcuno nostro amico, che non basta chiacchierarci, che non basta essere andati a scuola insieme.
Per quanto le carenze di François siano decisamente avvilenti, perché gli è completamente estraneo il mondo affettivo in generale, il film non diviene mai tragico e questo grazie anche alla bravura dei due protagonisti che, pur riuscendo assolutamente credibili, non tendono mai a caricare emotivamente le situazioni.

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Recensione MOSQUITO COAST

Recensione mosquito coast




Regia di Peter Weir con Harrison Ford, Helen Mirren, River Phoenix, Jadrien Steele, Hilary Gordon, Rebecca Gordon, Jason Alexander

Recensione a cura di Pasionaria (voto: 8,0)

Pare strano agli estimatori di Peter Weir che "Mosquito coast" sia generalmente ritenuto l'unico flop del grande regista australiano. Eppure in esso ritornano puntuali e coerenti I temi tanto cari all'autore, già trattati in altri suoi film di successo, qui forse sviluppati in modo più freddo e meno coinvolgente, non per questo meno interessante.

Probabilmente per chi non riconosce le connotazioni insite nel linguaggio cinematografico di Peter Weir risulta difficile digerire la storia narrata da "Mosquito", dove le tematiche weiriane si aggrovigliano ed è facile sentirsi disorientati.
D'altronde il regista stesso ha definito questo suo lavoro "una rivoluzione culturale individuale" volendo esprimere così il desiderio di "estraniarsi dal filone dominante della cinematografia americana con contenuti il più possibile anticonvenzionali". In effetti non si può dire che il film decanti le imprese di una famiglia di pionieri americani nel tipico stile hollywoodiano, forse per questo il prodotto non ha soddisfatto le aspettative del pubblico, sancendo lo scarso successo commerciale.
Oltre a ciò, la delusione la si può imputare alla scelta dell'attore protagonista: un Harrison Ford uscito fresco fresco dal successo di Indiana Jones, eroe positivo, simpatico e soprattutto vincente. Scelta non casuale questa del regista, che ama stravolgere I ruoli canonici degli attori più popolari e che ingaggiò il "personaggio" Ford un anno prima per il fortunato "Witness", senza tuttavia snaturarne del tutto le peculiarità.

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venerdì 15 dicembre 2006

Recensione DEJA' VU - CORSA CONTRO IL TEMPO

Recensione deja' vu - corsa contro il tempo




Regia di Tony Scott con Denzel Washington, James Caviezel, Val Kilmer, J.w. Williams, Adam Goldberg, Ritchie Montgomery, Enrique Castillo, Paula Patton

Recensione a cura di matteoscarface

Quando si parla di Jerry Bruckheimer torna subito alla mente il cinema americano più patinato e ricco di effetti speciali, e per questa occasione al nome di Bruckheimer va associato anche quello di Tony Scott, che stavolta sostituisce il solito Michael Bay. La formula, dunque, rimane la stessa.
La pellicola segna però, strano a credersi, un'eccezione, infatti laddove altri film appartenenti allo stesso genere erano per lo più una baraonda di inseguimenti e sparatorie, questo ha dalla sua il tentativo degli sceneggiatori di creare una storia compiuta e la decisione di usare effetti speciali realizzati dal vero e dosati nei punti giusti, anche se tutto ciò si deve probabilmente a Scott, che nel bene e nel male di cinema d'azione si è sempre nutrito.

Ma andiamo con ordine. Bisogna dire innanzitutto che "Dèjà Vu" è un poliziesco fantascientifico, con un inizio dei più classici: l'arrivo del tipico poliziotto solitario sulla scena del crimine. Qui purtroppo si sprecano i luoghi comuni condivisi con molti altri film già visti e rivisti, tant'è che la sensazione di dèjà vu comincia a farsi strada nella mente dello spettatore più preparato. Ma man mano che si prosegue nella visione iniziamo a capire il vero fulcro del film, e cioè l'ipotesi di viaggiare indietro nel tempo per fermare un crimine, ma nella scena in cui tutto ciò viene spiegato Tony & Jerry non volevano evidentemente soffermarsi troppo, e così se la cavano con un giro di parole pronunciato da uno dei personaggi al poliziotto Denzel Washington, che finge di capire e tira avanti la baracca da solo.
Durante il corso della film sono purtroppo più di uno i punti sbrigati alla svelta, come ad esempio la parte centrale, quando il buon Denzel si ritrova a guidare un gigantesco veicolo Hummer con un mini satellite a bordo nel traffico di New Orleans, causando incidenti mortali qua e là.
L'idea è di per sé buona, ma è il suo sviluppo che lascia un po' interdetti, e nulla riesce davvero a catturare l'attenzione fino in fondo, neanche il prevedibile finale, quando ci si aspetta almeno un colpo di scena e invece capita esattamente ciò che chiunque potrebbe prevedere almeno con mezzora di anticipo.
Se però il finale cade banalmente nel baratro del "ehi ma io questo l'ho già visto", con tanto di dito accusatorio puntato contro lo schermo e sbadiglio incombente, i primi minuti sono gradevoli e rappresentano forse la parte più riuscita del film.

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mercoledì 13 dicembre 2006

Recensione THE QUEEN - LA REGINA

Recensione the queen - la regina




Regia di Stephen Frears con Helen Mirren, Michael Sheen, James Cromwell, Sylvia Syms, Paul Barrett, Forbes KB, Alex Jennings, Helen McCrory, Roger Allam, Tim McMullan

Recensione a cura di peucezia

Stephen Frears, a lungo si è occupato con occhio attento e impietoso del proletariato urbano inglese (bellissimo il suo "Piccoli affari sporchi"). Da un po' di tempo la sua attenzione si è spostata verso i ceti più alti e così, dopo la commedia "Lady Henderson presenta" accolta piuttosto tiepidamente, ha puntato i suoi riflettori sulla donna più importante d'Inghilterra: Elisabetta II.

Non si tratta però di una biografia agiografica o di un docufilm, bensì dell'esame in parte cronachistico alternato con filmati del momento, della settimana più critica della monarchia inglese negli ultimi dieci anni, quella cioè tra la morte di lady Diana Spencer (30 agosto 1997) e il suo funerale di stato, fortemente voluto dal popolo, fortemente osteggiato dalla casa reale.
Frears evita l'effetto caricatura in cui spesso si cade quando i protagonisti reali sono troppo vicino a noi (esempio tristemente noto il film italiano sul caso Calvi con gli interpreti di Craxi ed Andreotti grotteschi e fuori luogo), scegliendo attori poco vicini nelle sembianze ai loro originali, così il regista prova a entrare nel loro intimo cercando di rendere il più possibile l'umanità di questi personaggi pubblici.

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lunedì 4 dicembre 2006

Recensione L'AMICO DI FAMIGLIA

Recensione l'amico di famiglia




Regia di Paolo Sorrentino con Giacomo Rizzo, Laura Chiatti, Fabrizio Bentivoglio, Gigi Angelillo, Emiliano De Marchi

Recensione a cura di Kater

Presentato a Cannes insieme a "Il Caimano" di Moretti e "Il Regista di matrimoni" di Bellocchio, "l'Amico di Famiglia" è l'ennesima conferma dello straordinario senso cinematografico di Sorrentino, un regista giovane e incredibilmente talentuoso, che supera in bravura molti suoi connazionali più celebri ma decisamente meno meritevoli.

L'amico di famiglia è Geremia de' Geremei, un nome surreale e macchiettistico come il suo personaggio, un sarto-usuraio brutto, sporco ma forse non così cattivo, almeno non più dell'umanità che lo circonda.
Vive in casa con la madre e forse cerca l'amore, purché sia a buon mercato. L'unica persona con la quale sembra ci sia una parvenza di amicizia è Gino, cowboy nostrano dedito alla cultura country. Geremia zompetta attraverso la propria vita fatta di incredibili tirchierie e prestiti a usura con tassi del 100% alle persone del quartiere che si rivolgono a lui per motivi che si rivelano spesso futili, e ama venir definito "cuore d'oro", convinto veramente di essere buono e socialmente utile.
Inaspettatamente però arriva l'amore ed è Rosalba, una ragazza bellissima per la quale il padre Saverio chiede un prestito per far fronte alle spese del matrimonio. L'amore sarà la rovina di Geremia, sempre così accorto e prudente, sempre restio a rischiare alcunché. L'amore lo porterà ad osare...e a fallire.

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venerdì 1 dicembre 2006

Recensione IL LABIRINTO DEL FAUNO

Recensione il labirinto del fauno




Regia di Guillermo del Toro con Ivana Baquero, Doug Jones, Sergi López, Ariadna Gil, Maribel Verdú

Recensione a cura di cash (voto: 8,5)

Che il cinema non sia più in grado di entusiasmare le folle non è un mistero. Ovvio, di giudizio generale si parla; le eccezioni esistono, ma non creano la norma. Piuttosto la eludono, creando i presupposti per nuovi spunti di riflessioni. Il danno principale che ha posto il cinema in lenta e crescente agonia è senza dubbio la coincidenza di produzione e distribuzione, e il figlio illegittimo di questo amplesso incestuoso è lo spostamento del target del cinema stesso: non si soddisfa più lo spettatore ma la casa di distribuzione. Si potrebbe obiettare che si distribuisce ciò che il pubblico chiede, ma è anche vero che la costrizione della visione ad agenda unica lascia ben poco spazio alla scelta. Quando 9 sale su 2 proiettano lo stesso film, relegando a ghetto i cosiddetti film d'essai (che fino a 10 anni fa erano la norma, altro che essai) è ben logico parlare di creazione del consenso di gusto cinematografico che passivamente si subisce. La logica dell'incasso facile e della previsione del successo che arride sempre e comunque (e col minor sforzo possibile) è il fiero vessillo del remake, i cui tempi di latenza fra originale e copia si fan sempre più sottili, tanto da non rendere remota un'epoca in cui il remake uscirà contemporaneamente all'originale.
Chiaro, l'eccezione si fa strada anche in quest'ultima categoria, ormai genere a se stante; si veda "The departed". Ma lì c'è un conclamato autore, non un pischello qualsiasi.

Tornando al centro nevralgico della questione, perché il cinema non appassiona più? A nostro giudizio lo spostamento d'asse verso il gradimento unico delle Major ha privato i cineautori della componente imprescindibile per eccellenza: l'ambizione per il proprio operato, che nasce direttamente dalla passione infusa. Si può immaginare un'opera (in qualunque campo artistico variamente inteso) che trasudi pathos, quando il principio generante è nato all'insegna della totale mancanza di passione verso l'oggetto creato? Eppure qualcuno si fa strada nel conformismo che pialla il consenso e appiattisce il senso critico ed estetico dello spettatore. Qualcuno resiste, ostinandosi con fresca caparbietà a presentare opere che abbiano come interlocutore privilegiato i sentimenti degli spettatori più che le tasche dei produttori.

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mercoledì 29 novembre 2006

Recensione THE LOST CITY

Recensione the lost city




Regia di Andy Garcia con Andy Garcia, Inés Sastre, Dustin Hoffman, Bill Murray, Tomas Milian, Richard Bradford

Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli

"The Lost City" è l'interessante esordio alla regia dell'attore cubano Andy Garcia (Andrés Arturo García Menéndez), che non si presenta soltanto nella duplice veste di attore e di regista, ma è anche produttore del film ed autore delle musiche originali.

Il film è il risultato di un progetto che Garcia coltivava fin dai primi anni ottanta. In un'intervista egli ha dichiarato che dopo aver cercato di scrivere alcuni abbozzi di sceneggiatura, che non lo soddisfacevano, un suo amico gli suggerì la lettura di un libro di Guillermo Cabrera Infante intitolato "Tre Tigri Tristi". L'incontro con Infante fu la chiave di volta del progetto. Ispirandosi al libro, i due autori hanno scritto insieme la sceneggiatura di "The Lost City" (lo script elaborato da Garcia era un lavoro di ben 306 pagine, ma dopo la collaborazione con Infante fu ridotto a 120).
A quel punto mancavano soltanto i soldi per realizzare il sogno dell'attore cubano. Per un periodo di ben sedici anni, Andy Garcia ha cercato i finanziamenti presso le case di produzione del cosiddetto cinema indipendente. Intanto la sua notorietà stava crescendo e il suo curriculum di attore si arricchiva di interpretazioni sempre più importanti. Dopo una non troppo lunga gavetta televisiva che comincia nel 1978 ed arriva al 1986, gli furono assegnati ruoli di rilievo in produzioni "importanti". Nel 1986 lo vediamo comparire al fianco di Jeff Bridges in "Otto Milioni di Modi per Morire". Il 1987 fu l'anno de "Gli Intoccabili", che, essendo diretto da uno dei migliori registi viventi ed interpretato da mostri sacri come Robert de Niro e Sean Connery, lo presentò al grande pubblico affiancando il suo nome ed il suo volto a quello dei grandi. Il primo ruolo da protagonista arriva finalmente nel 1990 con "Affari Sporchi". Nonostante che il suo astro fosse in rapida ascesa, i fondi per realizzare il suo progetto ancora non si trovavano. Questo gli ha lasciato il tempo per approfondire le letture sulla Cuba della sua infanzia continuando a coltivare e a rielaborare il proprio sogno.
Una volta trovati i fondi necessari alla realizzazione del film Garcia ha radunato un cast internazionale di alto livello, lasciando molto spazio agli attori di origine latina ai quali ha assegnato i ruoli principali, ad eccezione di quello dello scrittore senza nome interpretato da Bill Murray, di quello del fratello di don Federico interpretato dall'attore texano Richard Bradford (conosciuto da Garcia sul set de "Gli Intoccabili" dove interpretava il ruolo del corrotto capo della polizia di Chicago) e del cammeo del malavitoso Meyer Lansky interpretato da Dustin Hoffman. Troviamo la splendida attrice spagnola Inés Sastre, un redivivo Steven Bauer, che, benché abbia sempre lavorato tantissimo, in Europa non lo si vedeva in un film di rilievo dai tempi di "Traffic" (2000), il caratterista Juan Fernàndez che qui interpreta il presidente Batista, un eccellente Tomas Milian.

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martedì 28 novembre 2006

Recensione LITTLE MISS SUNSHINE

Recensione little miss sunshine




Regia di Jonathan Dayton, Valerie Faris con Steve Carell, Toni Collette, Greg Kinnear, Alissa Anderegg, Alan Arkin, Cassandra Ashe, Abigail Breslin, Paul Dano

Recensione a cura di GiorgioVillosio

E' di questi giorni la notizia che è stato finalmente arrestato in Thailandia il pedofilo assassino di un'americana babydiva in erba.
La piccola era nota per la sua partecipazione ai concorsi di bellezza per bambine, fortemente voluta e pilotata dalla madre; in tale occasione veniva conosciuta dal losco figuro, avviandosi alla sua tragica fine.

La cosa fa rabbrividire, ovviamente, ma al contempo riflettere a fondo: sul sistema divistico/commerciale americano che alimenta questi miti; sulla frivolezza assurda delle madri, che approfittano delle figlie per dare sfogo al loro transfert narcisistico. E infine sulla pochezza del mondo maschile che, invece di limitare tanta leggerezza femminile, la subisce e addirittura la asseconda.
Ricordiamo che nell'analoga situazione del "Bellissima" viscontiano, il padre della piccola era fortemente contrario alla ricerca di notorietà, e la madre, Anna Magnani, ci provava di nascosto da lui! Ma... correva l'anno 1951, e l'autorevolezza dell'uomo di casa era ben altra!!! Peraltro la madre stessa, infine, prendeva coscienza dell'assurdità di assoggettare l'innocenza di una figlia ad un mondo senza codici morali.
La storia di "Little Miss Sunshine" è simile per molti aspetti; c'era già dunque molta materia per trarne un film di notevole rilievo (tipo "Bellissima" per l'appunto).

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Recensione SEVEN

Recensione seven




Regia di David Fincher con Morgan Freeman, Brad Pitt, Kevin Spacey, Daniel Zacapa, Gwyneth Paltrow, John Cassini, Bob Mack, Peter Crombie

Recensione a cura di Matteo Sonego

Il tenente di polizia William Somerset (Morgan Freeman), sta per andare in pensione. Nella sua ultima settimana di lavoro gli viene affiancato il neo arrivato David Mills (Brad Pitt), detective giovane ed ambizioso, desideroso di far carriera. I due vengono costretti a lavorare insieme nel tentativo di catturare un terribile serial killer, John Doe (Kevin Spacey), il quale sta commettendo una serie di terribili omicidi. Tutte le vittime condividono colpe riconducibili ai sette peccati capitali.

Eccezion fatta per "Il silenzio degli innocenti", questo film non ha eguali nell'ambito del proprio genere. Angosciante, spietato, geniale, sono i primi aggettivi che vengono in mente già alla prima visione di questa pellicola eccezionale.
David Fincher non lascia nulla al caso, a partire dai titoli di testa, intervallati da immagini che si riferiscono alla preparazione degli omicidi, fino all'ultima scena, chiusa con una citazione da Hemingway. Lo svolgersi della trama è piuttosto fluido, mentre il ritmo, costante per tutti i 121 minuti, ha un picco unicamente nella scena dell'inseguimento. Il finale chiude il cerchio e fa in modo che ci si renda davvero conto di quale sia il piano effettivamente architettato da un serial killer "divino" per la storia del cinema: John Doe.
Il film ruota attorno a lui: un grande Kevin Spacey, monumentale nel recitare la parte del predicatore killer, calmo e freddo come nessun altro, paziente, costante, coerente e tremendamente determinato. Impossibile dimenticare alcune scene che lo vedono protagonista e il suo sorrisino ironico nel momento in cui esclama "Oh.... Non lo sapeva!".

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lunedì 27 novembre 2006

Recensione FLAGS OF OUR FATHERS

Recensione flags of our fathers




Regia di Clint Eastwood con Ryan Phillippe, Jesse Bradford, Adam Beach, Barry Pepper, John Benjamin Hickey, John Slattery, Paul Walker, Jamie Bell, Robert Patrick

Recensione a cura di Harpo (voto: 7,5)

Clint Eastwood è uno statunitense che ama la sua patria; è fiero di essere americano, ma allo stesso tempo non risparmia le critiche a certi comportamenti che vengono intrapresi dalla sua nazione per il "bene comune".
L'ultima opera del famoso regista/attore racconta lo sbarco americano sull'isola giapponese di Iwo Jima, analizzando in particolar modo le conseguenze che tale evento ha portato all'interno degli USA.
Al fine dell'analisi del film, è bene riportare un paio di nozioni storiche utili a capire in quale contesto si va a collocare questo scontro. Il periodo è quello della guerra del Pacifico. Questo conflitto esordisce in tempi precedenti rispetto alla Seconda guerra mondiale pur vedendo protagonisti gli americani solamente a partire dal 1941 (con il noto attacco giapponese alla base americana di Pearl Harbor). "Flags of our fathers" parla di uno dei più sanguinosi capitoli di questo conflitto: l'attacco americano all'isola di Iwo Jima, roccaforte giapponese situata a sud dell'arcipelago nipponico. Iniziato il 19 dicembre del 1945, questo fu uno degli scontri cruciali della Seconda guerra mondiale, nonché una delle pagine più sanguinose del conflitto stesso: in poco più di un mese i caduti statunitensi furono settemila, quelli giapponesi circa tre volte tanto; infatti la maggioranza dei militari nipponici preferirono il suicidio alla cattura.
Da questo momento in poi saranno svelate delle parti sostanziali della trama e, di conseguenza se ne sconsiglia la lettura a chi non ha ancora visto il film, caldeggiandone comunque la visione.
"Flags of our fathers" racconta le vicende di un gruppo di marines, composto da sei uomini, impegnati in questa violenta battaglia. I protagonisti, dopo la conquista di parte dell'isola, piantano nel suolo giapponese la bandiera americana e, dopo essere stati immortalati in una fotografia, verranno consacrati come eroi. Tre di loro moriranno, la restante metà verrà idolatrata in patria. La foto in questione diverrà poi il filo conduttore di tutta la storia.

Ciò che più colpisce nel film di Eastwood è il sentimento con cui il regista narra la vicenda. Come già scritto in precedenza, Clint ama l'America e nella pellicola questo affetto è ampiamente riscontrabile. Il suo rispetto è rintracciabile nell'immagine che egli ci fornisce dei marines: sono persone "normali" che moriranno per servire la patria. I sopravvissuti non sono eroi: sono solo individui che hanno un alto principio etico e morale della vita e, soprattutto, del loro servizio.
Però la sua visione dei fatti non è unilaterale: Eastwood non si dimentica del vero lato sporco della medaglia, evitando così di fare di tutta l'erba un fascio. Il suo film è radicalmente diverso da "Salvate il soldato Ryan" di Spielberg (qui nelle vesti di produttore). Nella pellicola di Steven è ravvisabile un enfatizzazione dell'esercito americano: ogni militare statunitense in "Saving Private Ryan" è rappresentato come un eroe. In "Flags of our fathers", invece, la parola "eroe" non è contemplata.
A dire il vero è lo stesso Eastwood che, alla fine della pellicola ci ricorda: "Sono le persone comuni che hanno bisogno di credere, di inventare gli eroi. I veri eroi sono quelli morti per salvare la vita a chi stava di fianco a loro e i loro nomi noi neppure li conosciamo" (cfr. James Bradley).
"Flags of our fathers" è un film che si prepone una demistificazione degli eroi: in quest'opera i marine vengono rappresentati senza quell'aura d invincibilità tanto cara agli americani, che non perdono mai occasione di eliminare ogni parvenza di "debolezza" nei propri miti. Eastwood "vuole bene" ai soldati, ma proprio per questo li ritrae come uomini normali, rendendoli quindi ancor più vicini a noi.
Clint, quindi, oltre a non mitizzare i marines, critica aspramente la classe dirigente americana. Questo pensiero è distinguibile già nella prima parte del film. Il valore e la moralità dei soldati sono inversamente proporzionali a quelli di taluni politici. Se i primi saranno devoti alla patria e pronti a servirla anche nelle situazioni più drammatiche, i secondi saranno impegnati solo a vedere il lato più superficiale della vittoria. A loro avviso la conquista di Iwo Jima non è il trionfo dell'impegno di tantissimi marines morti per aiutare l'America: è piuttosto interpretata come un trionfo finanziario, atto solamente a convincere il popolo che questa guerra non è stata poi così assurda. Per Gerber, importante funzionario del ministero del Tesoro, e personaggio chiave della pellicola, l'immagine che ritrae i marines sul monte Suribachi non è il frutto del sacrificio, ma "una foto, che poi non ne è neanche così bella (non fa vedere neanche le facce!) e che sembra aver fatto capire agli americani di aver vinto la guerra". Questa, ovviamente, è una tesi fortemente superficiale.
Ma il primo riscontro palpabile delle menzogne raccontate dagli americani è intuibile in alcune scene precedenti. Una, in particolare, è molto indicativa. I marines hanno appena terminato una campagna di addestramento e si stanno recando a Iwo Jima in nave. I caccia alleati decidono di dar spettacolo, prodigandosi in gagliarde manovre volanti; i militari sono al settimo cielo. Uno dei tanti, sporgendosi dalla nave, cade e i suoi compagni, inizialmente, sono divertiti.
La scena appare in un primo momento ridicola e, forse, perfino comica; i marines cercano di passargli una cima, ma lo sprovveduto non riesce ad afferrarla. Non verrà calata nessuna scialuppa e il soldato sarà destinato a morire annegato. A questo punto il motto dell'esercito "non ti lasciamo mai solo" citato da un commilitone non appare solo grottesco: la valenza di queste parole assume un significato insolente, denotando nello Stato Maggiore una certa spudoratezza nel mentire.

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mercoledì 22 novembre 2006

Recensione IL GIRO DEL MONDO IN 80 GIORNI (2005)

Recensione il giro del mondo in 80 giorni (2005)




Regia di Frank Coraci con Jackie Chan, Steve Coogan, Jim Broadbent, Cécile De France, Arnold Schwarzenegger, Kathy Bates, Owen Wilson, Luke Wilson, Rob Schneider

Recensione a cura di peucezia

Classico della letteratura fantasy e della narrativa per ragazzi, il romanzo di Jules Verne "Il giro del mondo in Ottanta giorni" è noto a generazioni di lettori ed ha colpito per la sua struttura anche l'immaginazione dei cineasti, infatti fin già nel 1919 esce una prima versione muta e in bianco e nero del romanzo realizzata in Germania.
Anche se la versione più nota e forse meglio riuscita è quela del 1956 con David Niven protagonista e la partecipazione di numerose star internazionali in camei di gran classe, la storia continua ad affascinare e tra parodie, versioni per la tv (con Pierce Brosnan nel ruolo principale) e cartoni animati si giunge al 2004; anno in cui la Disney decide di scommettere ancora su questo romanzo.

Il nuovo film con Jackie Chan come Passepartout lascia senza dubbio perplessi chi conosce la storia dell'eccentrico gentleman inglese Phileas Fogg e disorienta ulteriormente chi invece non ne ha mai sentito parlare. Anziché essere inserito in un circolo di membri dell'alta borghesia, Fogg (interpretato da un incolore Steve Coogan) è invece un buffo inventore incompreso e il suo fedele domestico a dispetto del nome d'oltralpe è invece un ladro cinese.
La storia si trasforma totalmente al servizio di Chan che pur avendo ormai passato la cinquantina si trova sempre a suo agio nelle abituali scene comico-acrobatiche che strappano qualche risata ai più giovani e fanno storcere il naso a chi si aspetta da lui una prova un po' più matura e lontana dai suoi soliti clichés.

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