martedì 28 febbraio 2006

Recensione LA CITTA' DI DIO

Recensione la citta' di dio




Regia di Katia Lund, Fernando Meirelles con Alexandre Rodrigues, Matheus Nachtergaele, Seu Jorge, Leandro Firmino da Hora

Recensione a cura di fidelio.78

"City of God" è tratto da un libro di successo (basato su storie vere), scritto da Paulo Lins ed ispirato alla figura Wilson Rodriguez, fotoreporter, nato e cresciuto in una favela denominata "la Città di Dio", sorta alla periferia di Rio de Janeiro.
Buscapè (alias il fotoreporter Wilson Rodriguez) racconta a ritroso la sua storia, che gravita attorno a quella di parenti e amici, dagli anni '60 agli anni '80, tra amori e speranze di cambiamento, spaccio di droga e lotte di quartiere che volgono in vere e proprie guerre civili.
Film duro da digerire, girato con molta, forse troppa enfasi, centra però l'obbiettivo di mostrare una realtà disarmante: il mancato controllo di una ingiustizia sociale che porta alla delinquenza, al delitto, alla vendetta e quindi ad un altro delitto.
E' la classica circolarità descritta da Girard: il sangue che chiama sangue, finendo una spirale di violenza senza fine.

L'idea della vendetta trasuda mansueta per tutto il film avendo poi, nella parte centrale, un ruolo da protagonista.
La povertà e la miseria in una favela di Rio de Janeiro sono lasciate sullo sfondo. Non c'è in primo piano il dramma di povere persone condannate alla povertà, condannate in un ghetto con poche speranze d'uscita. Il regista incentra e si concentra solo sulla violenza scaturita da queste cause, che nella realtà filmica restano però solo concause lasciate intravedere.
Il piglio dello stile veloce, che richiama direttamente a Tarantino, ha il pregio però di conferire al film un ritmo frenetico che non lascia tempo alla noia.
Il difetto (sempre che lo si consideri tale) sta sostanzialmente nel fatto che Meirelles guarda con troppa ostinata insistenza alla ricerca continua dell'inquadratura ad effetto.
Una violenza necessaria, mostrata con divertita esaltazione registica che comunque colpisce e affonda i suoi colpi proprio perché storia vera (anche se romanzata) o molto più semplicemente storia quotidiana per qui luoghi.

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lunedì 27 febbraio 2006

Recensione HOSTEL

Recensione hostel




Regia di Eli Roth con Jay Hernandez, Derek Richardson, Eythor Gudjonsson, Barbara Nedeljakova, Jana Kaderabkova, Jan Vlasák, Jennifer Lim

Recensione a cura di cash (voto: 5,5)

Questa è la premessa: "Non ho voluto fare un film violento fine a se stesso. Volevo che la gente venisse fuori dicendo - sì, è davvero fottutamente malato -, ma doveva comunque avere la R per essere distribuito. Non c'era bisogno di fare un "Ichi the killer 2". Quello è territorio di Miike, è bene lasciarlo a lui. Volevo una cosa influenzata dal cinema orientale, ma che restasse profondamente americana".

Bene; Eli Roth è la dimostrazione vivente di come un uomo sia in grado di fare sparate al di sopra di qualsiasi controllo umano. Tutti i principi contenuti nella dichiarazione che avete appena letto sono stati brillantemente condotti a fallimento con ampio successo, e perdonate la frase ossimorica.
I nomi c'erano tutti; Eli Roth è un regista che con un solo film alle spalle ("Cabin Fever") è riuscito a guadagnarsi un certo rispetto, non si sa bene come. E poi c'è Tarantino alla produzione, nome che sempre di meno è una garanzia. Non solo i nomi, ma anche le cifre c'erano: girato con quasi 5 milioni di dollari (ma nell'horror è un male avere a disposizione tutti quei soldi, e comunque a giudicare dal risultato è certo che Roth se ne sia intascati perlomeno la metà) e con ben 680 litri di sangue da spargere a destra e a sinistra. Gulp, sulla carta le premesse c'eran tutte.
E le prime recensioni erano tutte più che positive; i giudici del Toronto Film Festival avevano detto del film che era "il più terrificante degli ultimi 10 anni", e non è colpa di nessuno se i giudici di codesto festival hanno in casa solo "Notting Hill", "Big Fish" e "Neverland".
Poi il film è uscito, e i toni hanno iniziato a smorzarsi, costringendo vari critici a fare parziali (in qualche caso totali) dietro-front.

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Recensione SESSION 9

Recensione session 9




Regia di Brad Anderson con David Caruso, Peter Mullan, Brendan Sexton III, Josh Lucas, Paul Guilfoyle

Recensione a cura di maremare

La vicenda prende le mosse da un appalto per la rimozione dell'amianto da un fatiscente manicomio; lo ottiene un gruppo di operai guidato da Gordon (uno strepitoso Peter Mullan).
Mentre lavorano alacremente per staccar via da pareti e pavimenti una delle più cancerogene sostanze conosciute, uno di loro si fa catturare dalla curiosità, e comincia a raschiare anche le memorie dell'edificio a forma di pipistrello. Facciamo così conoscenza della povera Mary, rinchiusa sin da ragazzina nell'ospedale psichiatrico a causa di un evento orribile sepolto nel suo passato.
Sarà attraverso l'ascolto dei vari nastri rinvenuti in un polveroso archivio che Mike (Steven Gevedon, co-sceneggiatore insieme ad Anderson) conoscerà, gradualmente, la storia di Mary e del Male che portava nascosto con sé, rivelato drammaticamente nell'ultima session di ipnosi, la numero 9, appunto.

È proprio questa doppia faccia del Male a dare efficacia alla narrazione e distinguere questo prodotto dagli altri di genere. Il Male non è uno dei tanti mostri splatter, ciononostante si respira, sono spore che si agitano nell'aria come un pulviscolo invisibile, ma reale. La minaccia è materiale anche se impalpabile, come l'amianto.
Il luogo è il vero protagonista del film, secondo l'assunto arcaico in base al quale fatti profondamente drammatici segnano il posto in cui sono accaduti, vi depositano il loro carico di negatività, che da fisico diventa metafisico, attraversa il tempo, si reitera, consolidandosi.

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venerdì 24 febbraio 2006

Recensione LA CONTESSA BIANCA

Recensione la contessa bianca




Regia di James Ivory con Ralph Fiennes, Natasha Richardson, Vanessa Redgrave, Lynn Redgrave, John Wood, Madeleine Potter, Allan Corduner

Recensione a cura di GiorgioVillosio

Ha un titolo fuorviante questo film di Ivory, che evoca stranamente il romanzo di appendice e il feuilleton ottocentesco, se non addirittura la telenovela. Ed è forse per questo che gli uffici pubblicitari della produzione tendono a spacciarlo per "una grande storia d'amore", calcando i toni sugli aspetti erotico/sentimentali, che vi compaiono, invece, in modo molto sfumato.
Di antiquato, se vogliamo, un po' oleografico, potremmo trovare una certa lentezza e la mancanza di ritmo della narrazione, appesantita da reiterazioni varie. Anche se ciò potrebbe addebitasi non tanto al "bradipismo" della regia, quanto alla matrice orientale, essendo la vicenda derivata da un romanzo giapponese, di Junichiro Tanizaki, autore del "Diario di un vecchio pazzo".

Orientaleggiante è anche il calligrafismo del protagonista, che ambisce a costruire all'interno del suo locale un mondo utopico di perfezione virtuale; non morale, ma maniacalmente estetizzante, come nella dimensione di sogno in cui la cecità lo ha relegato, quasi a volersene affrancare.
Per raggiungere il suo intento, però, stante la grave infermità, ha bisogno di una presenza a fianco, di un alter ego mentore e amoroso che lo affianchi nel difficile compito. Come arrivi ad identificare tale figura nella Contessa russa decaduta al ruolo di entraineuse, non risulta ben chiaro.
Quasi per una folgorazione medianica, o per transfert, il giovane diplomatico, divenuto cieco per attentati costati la vita a moglie e figlia, individua nell'aristocratica "belle de jour" la carta vincente del suo nuovo destino, facendone la stella del suo locale. Del quale bisogna parlare, ovviamente, in chiave puramente simbolica, non potendosi riconoscere all'ambiguo, frivolo e vizioso bistrot "La Contessa Bianca" una patente di vera nobiltà.
Mentre, in effetti, costituisce l'evidente metafora di un microcosmo solipsistico, dove l'individuo, sprovvisto di strumenti idonei e necessari a comunicare e a gestire un potere, si rifugia al chiuso di quattro mura, sicuro e protetto come nella sacca amniotica natale. Non a caso, sotto le ali protettive di una madre amorosa, nutrice e rassicurante.

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giovedì 23 febbraio 2006

Recensione TRUMAN CAPOTE: A SANGUE FREDDO

Recensione truman capote: a sangue freddo




Regia di Bennett Miller con Philip Seymour Hoffman, Chris Cooper, Catherine Keener, Clifton Collins Jr., Bruce Greenwood, Bob Balaban, Mark Pellegrino, Amy Ryan

Recensione a cura di maremare

Per la sobria regia di Bennett Miller e con la "mostruosa" interpretazione di Philip Seymour Hoffman (indebolita per l'Italia da un doppiaggio troppo caricaturale rispetto alla voce originale), "Truman Capote: a sangue freddo" appare essere un'operazione interessante.
Tratto dalla biografia di Gerald Clark (già alla prova con la vita di Mae West, Elizabeth Taylor e Joseph Campbell), il regista ambisce ad imitare lo stile del romanziere, creando un film-documento sulla nascita di un libro che fonderà un genere (il romanzo-documento) e rivoluzionerà il mondo della letteratura.

Truman Capote, penna raffinata della rivista The New Yorker, vuole mettere in atto una sua vecchia teoria: in mano a un bravo scrittore qualsiasi fatto di cronaca può diventare un grande romanzo. L'occasione arriva quando legge dell'eccidio di una famiglia in una fattoria del Kansas.
Per sei anni Capote segue il fatto di cronaca nera, prima recandosi a Holcomb con l'amica Nelle Harper Lee (che di lì a poco vincerà il Pulitzer con "Il buio oltre la siepe"), poi andando a trovare gli assassini in penitenziario, per raccogliere le loro confidenze, infine assistendo alla loro esecuzione.
Un film dallo stile rigoroso quello del debuttante Miller, documentarista e regista pubblicitario al suo esordio nel lungometraggio, che privilegia i lunghi dialoghi e tratteggia con sobrietà uomini e ambienti.

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mercoledì 22 febbraio 2006

Recensione JARHEAD

Recensione jarhead




Regia di Sam Mendes con Jake Gyllenhaal, Jamie Foxx, Peter Sarsgaard, Jacob Vargas, Skyler Stone, Wade Williams, Katherine Randolph, Chris Cooper

Recensione a cura di Simone Bracci

"Jarhead" è uno di quei film nato per far discutere. Partendo dal fatto che innalza il concetto guerrafondaio di invasione bellica, per arrivare alla decostruzione del mito cinematografico di opere quali "Full Metal Jacket", "Platoon" ed "Apocalypse Now".

Sam Mendes (compagno della sorella del protagonista), alla sua terza regia, ci regala un film difficile, attraversato da quell'ironia nerissima che spesso fa parte delle pellicole contro corrente. Jarhead, infatti, parte subito come un provocatorio omaggio al capolavoro di Kubrick, citando "Il Cacciatore" di Cimino (nel film divenuto un hard) e proiettando la suggestiva sequenza della Cavalcata delle Valchirie del film di Coppola, per poi sterzare bruscamente sul paradossale, mettendo in scena tutti quegli elementi tipici dei film di guerra, che ormai hanno assunto lo stereotipo nelle produzioni hollywoodiane di questo genere.

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martedì 21 febbraio 2006

Recensione PRIVATE

Recensione private




Regia di Saverio Costanzo con Mohamed Bacri, Lior Miller, Areen Mashrawi, Tomer Rouso, Hend Ayoub

Recensione a cura di peucezia

Opera prima di Saverio Costanzo, figlio di Maurizio e documentarista, il film ha vinto il pardo d'oro all'ultimo festival del cinema di Locarno.
La pellicola è stata realizzata con un budget alquanto risicato: location in Calabria, tra gli attori anche due ragazzi di origine napoletana (così recita la leggenda), girato in digitale. Il tutto seguendo le teorie espresse dal Dogma: telecamera a spalla, l'occhio della camera che segue, si sposta, rende partecipe lo spettatore, proprio come un documentario.

La storia è di quelle dure, che trafiggono: una famiglia come tante, padre insegnante, mamma casalinga e figli di varie età alle prese con le problematiche dei loro anni: difficoltà negli studi, ribellioni, odio-amore nei confronti dei genitori. A prima vista potrebbe sembrare una storia minimalista come tante, se non fosse per un piccolo particolare: la famiglia in questione è palestinese e vive lungo la striscia di Gaza, da sempre oggetto di conflitto tra due popoli tanto vicini quanto distanti: gli ebrei e i palestinesi.
Un giorno come tanti arrivano gli ebrei, il regista sceglie di fare delle inquadrature a scatti per rendere l'azione concitata, confusa e per meglio rendere lo stato di confusione e di angoscia che coglie la famiglia. La casa è occupata, prassi consolidata per l'esercito israeliano. D'un tratto ci si trova prigionieri in casa propria, a condurre una vita normale nella situazione più anormale, a coabitare con i propri nemici con i quali si comunica in inglese.
Da questo punto il film continua a mostrare le reazioni degli abitanti della casa, la famiglia e i soldati "spiati" dalla figlia più grande e sorpresi nella loro vita di tutti i giorni, l'amore per la musica e lo sport. Ragazzi come tanti, ma che parlano una lingua diversa.

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lunedì 20 febbraio 2006

Recensione VITA DI O-HARU, DONNA GALANTE

Recensione vita di o-haru, donna galante




Regia di Kenji Mizoguchi con Kinuyo Tanaka, Toshiro Mifune, Masao Shimizu, Ichiro Sugai

Recensione a cura di bungle77 (voto: 10,0)

Tratta dal romanzo "La vita di una mondana" (1686) di Ihara Saikaku, sceneggiata da Yoshikata Yoda, questa toccante e triste pellicola è uno sguardo senza misericordia alla dura e cruda realtà del rigido mondo feudale giapponese del 17mo secolo, una veemente denuncia della condizione femminile nella società patriarcale, una commossa apologia dell'animo femminile. Mizoguchi, solito alla compassione, questa volta non si tira indietro nel ritrarre l'ineluttabile decadenza e la totale disperazione di una donna, vittima delle norme sociali, della gelosia, della sfortuna e degli eventi ostili. Definire il film come una tragedia sarebbe errato. E' molto più deprimente di una tragedia: non c'è eroismo, non c'è ottimismo, non c'è redenzione.
Comprensivi ritratti di donne in una società dominata da uomini sono uno dei temi ricorrenti nel cinema del regista giapponese, ma "Vita di Oharu" non si limita ad una semplice critica al genere maschile, che rende la protagonista un giocattolo nelle loro mani, poiché a causare il suo più profondo dolore sono l'astio e lo scherno delle donne.

Il film si apre con una scena al di fuori del tempo, un'attempata prostituta cammina lentamente lungo una strada povera, incapace di attirare un cliente e insicura di ciò che vuole. Quando una delle statue in un tempio le ricorda il suo amore perduto, la sua immagine innesca il turbinio dei ricordi. Nel finale il film riprende la stessa scena della camminata prima di giungere ad una conclusione decisamente sconfortante, senza speranza e senza alcuna possibilità di salvezza.

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Recensione MUNICH

Recensione munich




Regia di Steven Spielberg con Eric Bana, Daniel Craig, Geoffrey Rush, Mathieu Kassovitz, Hanns Zischler, Ciarán Hinds

Recensione a cura di Gabriele Nasisi

Olimpiadi di Monaco, 5 Settembre 1972. Un commando di terroristi palestinesi prende in ostaggio gli undici membri della nazionale olimpica israeliana. La loro richiesta è il rilascio di duecento palestinesi incarcerati durante il conflitto con Israele. Una volta raggiunto l'aeroporto di Furstenfeldbruck le teste di cuoio tedesche intervengono. Durante la sparatoria tutti gli ostaggi vengono freddati dai sequestratori.
L'antefatto,riproposto con un'attenzione quasi pedante ai fatti realmente accaduti durante il giorno che darà origine al "Settembre Nero", immerge sin da subito la narrazione nel contesto storico-causale del film. Un sapiente montaggio alterna le fasi del sequestro ai contributi televisivi, preferendo tuttavia, non mostrare ancora il suo epilogo ma raccontandolo solamente,per mezzo dei numerosi telegiornali che si alternano nelle televisioni di tutto il mondo (più di 900 milioni di persone assistettero in diretta all'evento). L'improvvisa fame di aggiornamenti è attesa sia dai familiari delle vittime che da quelli dei carnefici. La reazione dei servizi segreti israeliani non si fa attendere: l'ebreo Avner, ex-agente del Mossad, è messo a capo di un gruppo costituito da altri 4 agenti speciali il cui compito è quello di stanare in giro per l'Europa undici palestinesi accusati di essere i mandatari dell'attentato.

Indovinando l'importanza dei mezzi di comunicazione di massa (le bombe fanno "più rumore" delle pallottole) in una guerra che si gioca proprio sull'eco che ogni azione violenta suscita, il gruppo di Avner ricorre all'arma esplosiva per neutralizzare i sospettati. Avner non rientra nello stereotipo hollywoodiano dell'eroe glaciale poiché non riesce a essere "spietato". Ma soprattutto, Avner ha una famiglia, e diventerà padre di una bimba mentre le sue azioni insanguinano l'Europa (e non solo). Allo stesso modo è un'atmosfera tipicamente familiare che avvolge il gruppo, in netto contrasto con quello che sono i suoi scopi. Preparando continuamente lauti pranzi che oltrepassano sovente l'eccesso, Avner si impegna in prima persona a ricreare quel clima di cui non può godere considerata la distanza che lo separa dal suo "nido". Non casualmente si ferma spesso ad osservare una vetrina che espone una cucina, sintesi perfetta dei suoi desideri, allegoricamente interrotti dal suo contatto in Francia che lo richiama al lavoro. Ogni omicidio che traccia il cammino del capo ebreo mostra in lui un volto umano in continua evoluzione.

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venerdì 17 febbraio 2006

Recensione COME INGUAIAMMO IL CINEMA ITALIANO - LA VERA STORIA DI FRANCO E CICCIO

Recensione come inguaiammo il cinema italiano - la vera storia di franco e ciccio




Regia di Daniele Ciprì, Franco Maresco con Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Lando Buzzanca, Pino Caruso

Recensione a cura di Weezer

Ciprì e Maresco dopo il finto documentario il ritorno di Cagliostro (2003), questa volta ritornano con un nuovo esilarante documentario e si soffermano su due figure indimenticabili della risata siciliana: Francesco Benenato e Francesco Ingrassia in arte Franco e Ciccio.
Si parla del loro incontro, dei primi passi in teatro, dell'esordio cinematografico grazie alla partecipazione al film "Appuntamento a Ischia" al fianco di Modugno, continuando verso i grandi successi negli anni sessanta, quando giravano anche diciassette film l'anno e spesso i copioni che la coppia si ritrovava per le mani erano più che altro dei canovacci, così che a conti fatti i film da loro girati si basavano sulla loro grande capacità di improvvisazione, su gag surreali e sulla loro straordinaria capacità mimica.
Moltissimi i titoli che li hanno visti protagonisti, per lo più parodie delle pellicole di "serie A" in voga in quegli anni: si va da "I due vigili" a "I brutti di notte" (con riferimento a "Bella di giorno" del maestro Bunuel), a parodie più sfacciate come "Indovina chi viene a merenda? " o "Il bello, il brutto e il cretino" e "Ciccio perdona io No".

Il film continua narrando le continue separazioni e riconciliazioni in cui intrapresero anche attività da solisti, fino ad arrivare agli sketch televisivi degli anni ottanta e all'accusa della magistratura verso Franco di associazione mafiosa per i suoi contatti con Michele Greco (che finanziò il film "Crema cioccolata e paprika", a cui partecipò addirittura il figlio); naturalmente Ciccio venne prosciolto, ma che non si riprese mai più dall'accaduto.
Geni indiscussi della comicità italiana furono massacrati dalla critica in vita e poi riscoperti con il cinema d'autore: "Che cosa sono le nuvole?" di Pasolini, il "Pinocchio" di Luigi Comencini e "Amarcord" diretto da Fellini.

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giovedì 16 febbraio 2006

Recensione EROS

Recensione eros




Regia di Wong Kar-Wai, Steven Soderbergh, Michelangelo Antonioni con Gong Li, Chang Chen, Tin Fung, Auntie Luk, Zhou Jianjun, Sheung Wing Tong, Wong Kim Tak, Ting Siu Man, Yim Lai Fu, Shih Cheng You, Siu Wing Kong, Lee Kar Fai, Un Chi Keong, Robert Downey Jr., Alan Arkin, Ele Keats, Christopher Buchholz, Regina Nemni, Luis

Recensione a cura di maremare

In questo film ad episodi si sono trovati insieme tre registi lontanissimi per cultura, generazione e stile: Michelangelo Antonioni, Steven Soderbergh, Wong Kar Wai, autori di Eros, presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2004.

II primo episodio, dal titolo "La mano" porta la firma del regista cinese Wong Kar Wai e vede protagonisti l'icona cinematografica Gong Li e il giovane attore Chen Chang.
Argomento il tatto, senso fondamentale nell'eros. La mano al centro della storia è quella di un apprendista sarto, sedotto dalle misure del corpo di Miss Hua, avvenente cortigiana: la rudezza del loro primo incontro si trasforma progressivamente in dolcezza.
«Girare "La mano" è stata un'esperienza molto intensa - ha raccontato Wong Kar Wai - Abbiamo iniziato nel 2003, durante l'epidemia di Sars. Il nostro piano di girare a Shangai è stato quindi annullato. Gli unici luoghi in cui potevamo fare le riprese erano Hong Kong e Macao. Abbiamo cercato di girare il più in fretta possibile. Ogni giorno cominciavamo il nostro rituale di pulirci a fondo le mani e metterci le maschere. Questa situazione mi ha ispirato l'idea di fare un film sul tatto».

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martedì 14 febbraio 2006

Recensione UNDERWORLD: EVOLUTION

Recensione underworld: evolution




Regia di Len Wiseman con Kate Beckinsale, Scott Speedman, Bill Nighy, Shane Brolly, Michael Sheen, Kurt Carley, Julius Chapple

Recensione a cura di elfavy

A distanza di due anni, Len Wiseman ritorna nel mondo dei vampiri e dei licantropi, anzi per meglio dire degli ibrido. Nel 2003 il neoregista aveva scritto e girato a basso budget il film "Underworld" e nel finale aveva lasciato intendere un probabile seguito, anche se Wiseman in realtà era indeciso tra prequel e sequel!
Finalmente la decisione arriva, il budget anche e Wiseman propone l?evoluzione di "Underworld" ovvero il sequel, e per non staccarsi dalle radici passate decide di inserirci numerose scene che riguarderebbero in realtà un prequel.
Per rinfrescare un po? la memoria ricordiamo cosa è avvenuto nel primo film: nel V secolo l?Ungherese Alexander Corvinus salì al potere proprio quando una peste stava devastando il paese. Lui fu l?unico che sopravvisse poiché il virus nel suo sangue si mutò rendendolo immortale, anche i suoi figli, William e Marcus, ereditarono da lui questa peculiarità solo che il primo fu morso da un lupo e il secondo da un pipistrello: il virus mutò nuovamente rendendoli uno licantropo l?altro vampiro. Con il passare dei secoli Marcus, Vicktor e Amalia divennero i tre vampiri più anziani con la facoltà di regnare nel loro mondo.

Il primo film non accenna alla sorte di William o di Alexander perché la storia si incentra sulle vicende della vampira Selene e di Michael Corvins il diretto discendente di Alexander.
I Lycan cercavano un discendente puro allo scopo di iniettargli i due virus e trasformarlo in un ibrido talmente potente da sconfiggere i vampiri, una creatura diversa più forte di entrambi. Nessun vampiro e nessun lycan poteva essere contagiato dall?altro virus altrimenti sarebbero morti, a differenza di Michael che aveva il sangue puro. Selene scoprì le menzogne che circondavano il mondo dei Vampiri ed insieme a Michael uccise Vicktor. Il film termina con il sangue che cola nella tomba di Marcus e quest?ultimo, essendo il figlio di Alexander, invece di perire muta nuovamente il virus trasformandosi anch?esso in un potente ibrido.

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Recensione QUANDO SEI NATO NON PUOI PIU' NASCONDERTI

Recensione quando sei nato non puoi piu' nasconderti




Regia di Marco Tullio Giordana con Alessio Boni, Michela Cescon, Rodolfo Corsato, Matteo Gadola, Andrea Tidona, Adriana Tasti

Recensione a cura di GiorgioVillosio

"Eppur si muove", "civis romanus sum", "alea iacta est", "divide et impera": ci sono frasi fatidiche, del genere di queste, che sembrano segnare il destino delle genti e degli individui. Ne è piena la storia, e ben lo sanno le religioni e i grandi poteri politici fondati sulle ideologie, che le usano per asservire i loro sottomessi (fedeli, sudditi, o cittadini che siano) con la forza della suggestione. Lo sanno pure i predicatori delle sette diaboliche, quando iniziano le loro liturgie con frasi minatorie del tipo: "Nel nome di Satana.".

Ebar Soraya iti dogon, che in mandingo significa "Quando sei nato non puoi più nasconderti", suona probabilmente come una di quelle frasi: una maledizione, o un anatema, di fronte al quale l'uomo, nella sua pochezza, si sente soccombere di fronte allo strapotere del fato, senza via di fuga; in quello stato di annullamento di fronte alla grandezza del divino che Feuerbach battezzava per sempre come "alienazione". La cosa sta a dimostrare, se ce ne fosse bisogno, che l'uomo è identico a qualsiasi latitudine sotto la luce del sole; e che riti, miti e insegnamenti non hanno bandiere, nel primo e nel terzo mondo; se è vero che anche qui la sapienza ancestrale dell'inconscio collettivo passa attraverso frasi "fatidiche " come quella sopra citata.
La quale poi assurge addirittura a nome di battesimo, prefigurando il destino di chi lo porta in chiave onomantica! Nomen est omen... nel tuo nome il tuo destino, come succede col nome Giovanni: Javeh ahnan... e cioè, Dono del signore... Dio è stato misericordioso! Nel film Ebar soraya... è il nome di un povero immigrato di colore conosciuto in maniera fortuita, che rimane impresso nella mente del giovane protagonista.

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