venerdì 30 giugno 2006

Recensione LE MANI SULLA CITTA'

Recensione le mani sulla citta'




Regia di Francesco Rosi con Rod Steiger, Salvo Randone, Guido Alberti, Angelo D'Alessandro

Recensione a cura di peucezia

Film del 1963, vincitore al festival di Venezia, "Le mani della città", diretto dal bravo Francesco Rosi, all'epoca particolarmente fecondo, appartiene alla cosiddetta cinematografia di denuncia, genere che può essere considerato gemmazione del neorealismo. Infatti con il neorealismo il cinema esce dai salotti per andare per strada e seguire la gente, quella semplice che vive nei bassifondi e che tribola per guadagnarsi il diritto all'esistenza. Dopo l'osservazione della vita di tutti i giorni viene di pari passo la denuncia delle brutture, degli imbrogli, della "mala vita" intesa letteralmente come vita condotta in maniera cattiva.
Rosi è appunto uno dei registi che maggiormente sceglie questa impostazione e per farlo dal punto di vista tecnico, almeno per quanto riguarda questa pellicola, sceglie un taglio a metà strada tra il cronachistico e il documentaristico, abolendo deliberatamente ogni commento musicale (quasi a precorrere i dettami del DOGMA seguito al giorno d'oggi da Lars von Trier) e tentando di mettersi come dice Flaubert in riferimento allo scrittore e alle sue opere "al balcone a rimirare con distacco la sua creatura" in quanto, all'apparenza, gli attori sono lasciati liberi e la telecamera si limita ad osservare le loro azioni con distacco come un reportage di un telegiornale. A parte Rod Steiger, attore statiunitense e quindi doppiato con perizia da Aldo Giuffrè e Salvo Randone, grande attore di teatro spesso prestato al cinema, gli altri interpreti sono poco noti mentre la folla (con attori deliberatamente non professionisti presi dalla strada) ha un ruolo importante come un coro greco che giudica, osserva, condanna, distrugge.

Le scene sono poche e si alternano tra interni ed esterni, grande spazio è riservato alle sedute del consiglio comunale dove si sceglie di inquadrare volta per volta la persona che parla per permettere allo spettatore di inquadrare il suo pensiero ma anche come retaggio teatrale però (essendo la pellicola quasi un documentario filmato), si da' grande importanza alla parola ma se ne da' altrettanta all'immagine).
La storia è dura, aspra, anche se l'epoca del film è quella del boom economico e anche edilizio con tutte le sue conseguenze attualmente pagate dai contemporanei, per certi aspetti lo squallido inghippo descritto potrebbe viversi anche ai nostri giorni (basta sfogliare i giornali per vedere quanto marciume ci ammorba l'aria).
Le quattro figure chiave che si muovono sullo schermo simboleggiano quattro tipologie: il faccendiere senza scrupoli, pronto a tutto pur di riuscire a galleggiare e a ottenere; il politico machiavellico per il quale il fine giustifica ampiamente i mezzi, capace di grande dialettica e di altrettanto cinismo, l'ingenuo, fiducioso e convinto dell'intrinseca bontà o buona fede altrui e il cavaliere senza macchia e senza paura quasi un don Chisciotte pronto a combattere senza tema ma quasi altrettanto destinato a sconfitta o ad oblìo.

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giovedì 29 giugno 2006

Recensione IL SUO NOME E' TSOTSI

Recensione il suo nome e' tsotsi




Regia di Gavin Hood con Presley Chweneyagae, Terry Pheto, Kenneth Nkosi, Mothusi Magano, Zenzo Ngqobe, Zola

Recensione a cura di Gabriela

Tsotsi è un giovane teppista e fa parte di una delle bande che controllano i ghetti di Johannesburg, accetta la violenza che lo circonda come qualcosa di naturale. Un giorno però incontrerà l'opportunità di salvarsi e redimersi nelle spoglie di un bambino che vede sul sedile posteriore dell'auto che ha rubato.
E' la storia della povertà, della disillusione e della sofferenza ma una storia in cui attraverso la speranza e la ricerca di un motivo per vivere è possibile avere un futuro migliore.
Possiamo paragonare questo film al "Cidade de Deus" di Meirelles per la sua tematica: difatti ci porta in una delle zone più povere e miserabili della città sudafricana, popolata da bande prive di coscienza e gremite di crudeltà.

Tsotsi (che significa gangster nello slang dei ghetti), interpretato da un bravissimo esordiente Presley Chweneyagae, è cresciuto da solo dopo essere scappato da casa lasciando una madre malata ed un padre crudele per entrare a far parte del gruppo di bambini senzatetto e senza regole che crescono nelle strade, bambini nascosti agli occhi del mondo, bambini senza legami con il passato o piani per il futuro.
Il protagonista diventa un leader marcato dall'istinto, non sente compassione per nessuno; è un giovane criminale simile ad una bomba pronta a scoppiare alla minima provocazione.
La sua vita cambierà completamente quando una notte, dopo aver rubato un'auto e sparato ad una donna, sequestra senza volere un bambino, abbandona l'auto e senza sapere cosa fare del neonato lo porta a casa sua e lo nasconde.
Confuso inizialmente e senza sapere cosa fare, Tsotsi inizia a sviluppare un affetto per il piccolo che lo fa sentire al tempo stesso felice e vulnerabile, cosa non ben vista nel suo ambiente delittuoso.
Cerca di prendersi cura, nel limite del possibile, del bimbo e obbliga una ragazza madre ad allattarlo, e sarà lei che gli insegnerà che essere padre è più complicato che rimanere semplicemente con un bambino.

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martedì 27 giugno 2006

Recensione LA SOTTILE LINEA ROSSA

Recensione la sottile linea rossa




Regia di Terrence Malick con Sean Penn, Nick Nolte, James Caviezel, John Cusack, Ben Chaplin, Elias Koteas, Woody Harrelson, Adrien Brody, John Travolta, George Clooney, Mark Boone Junior, John C. Reilly, Jared Leto, John Savage, Miranda Otto, Nick Stahl, Thomas Jane

Recensione a cura di Giordano Biagio

Un film di guerra insolito in cui i combattimenti non sono quasi mai motivo di spettacolo ma spesso occasione per comunicare tra i soldati alcuni pensieri etici e filosofici. Protagonisti del film sono i pensieri indicibili dei componenti del reparto, riflessioni soffocate dallo stridore cupo della lunga battaglia. Pensieri udibili nella loro associazione con un visivo della natura disposto al dialogo proprio in occasione della morte: quando tutto sembra così inutile tra gli umani.
La maggior parte delle emozioni che il film suscita nascono dalla comunicativa magistrale del dialogo interiore dei combattenti con se stessi, la natura e la vita che sta per fuggire. Un'introspezione dal tono religioso. Solenne. In un contesto di combattimento colorato di orrori, percepito dai soldati sempre più come qualcosa di paradossale e straniante.

Il film evidenzia alcuni aspetti fondamentali della conquista nel 1942 dell'isola di Guadalcanal nel pacifico da parte degli americani, lungo una scacchiera di guerra mondiale che dopo il trionfo americano sui giapponesi nella battaglia di Midway vede gli Stati Uniti imporsi come protagonisti nella lotta per la liberazione dal nazismo e dai suoi alleati imperiali.
Nell'isola le motivazioni di guerra dei soldati americani appaiono psicologicamente un po' logore. Aleggia negli sguardi il terrore per un imminente scontro con i giapponesi. Si prevedono perdite ingenti di vite umane. In questa situazione la psicologia dei ruoli di alcuni ufficiali si incrina mentre in altri il desiderio omicida si esalta perché si coniuga con i privilegi che la vittoria dà.
Nascono da una parte riflessioni introspettive e critiche sempre più incontenibili e dall'altra, forti dell'alibi della discolpa che dà la guerra, si manifestano spinte all'annullamento di ogni pensiero umanista. In alcuni soldati morte e poesia si abbracciano in un ultimo e disperato dialogo etico con il mondo, in altri la paranoia dell'istinto di sopravvivenza denudato di ogni elemento di razionalità prende il sopravvento. La lentezza delle sequenze visive (70 minuti la scena di guerra) e l'irrompere visivo e significante di una natura viva ferita anch'essa dalla guerra consente una narrazione a tre istanze soggettive che dà, in modo particolare, efficacia e profondità al dialogo. Narrazione priva di quella forma comune di spettacolo verbale tendente all'insinuazione enigmatica del male o al dettaglio evocativo forzato che caratterizza il film classico di guerra. I dialoghi interiori sono ricchi di un vero indicibile che può essere solo pensato. Acquistano proprio per questo significazione poetica e psicologica mettendosi in contrasto con tutte le linee di condotta del film tipico di guerra. Lontano quindi da quelle sceneggiature fondate su intrecci di racconto sempre più prevedibili perché prelevati da una gamma di modelli precostituiti basati sul lieto fine.

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lunedì 26 giugno 2006

Recensione ANNI RUGGENTI

Recensione anni ruggenti




Regia di Luigi Zampa con Nino Manfredi, Linda Sini, Gino Cervi, Michèlle Mercier, Gastone Moschin, Angela Luce, Carla Calò, Salvo Randone, Dolores Palumbo, Linda Sini

Recensione a cura di peucezia

Il film, uscito nel 1962, potrebbe essere idealmente collegato a una trilogia precedentemente realizzata da Luigi Zampa ("Anni difficili", "Anni facili", "L'arte di arrangiarsi") in cui il regista coadiuvato da Vitaliano Brancati si occupava della storia del nostro Paese a cavallo tra il XIX e il XX secolo con pungente satira.
Questa pellicola può essere una appendice al precedente progetto ma non ha un soggetto originale in quanto la trama è il riadattamento in tempi moderni di una celebre commedia del russo Gogol "L'ispettore generale" già portata sul grande schermo in versione musical dal popolare comico americano Danny Kaye circa dieci anni prima.

Se l'ispirazione è lontana - considerando che il soggetto originale risale a cento anni prima della realizzazione del film - la satira sociale e di denuncia è invece drammaticamente attuale anche se il regista sceglie di spostare l'azione alla metà degli anni Trenta, alla vigilia della guerra di Spagna, in piena epoca fascista quindi.
Il film, oscilla per tutta la sua durata, tra la denuncia sociale sia pur fatta in toni lievi da "castigat ridendo mores" e la pochade (ne sono un esempio i dialoghi in camera tra i notabili del paese e le loro consorti). Non manca uno strascico di neorealismo poiché ci sono anche interpreti non professionisti che usano il loro dialetto e le molte scene in esterno vogliono focalizzare lo stato di abbandono e di miseria di certe sconosciute realtà.

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venerdì 23 giugno 2006

Recensione AMEN.

Recensione amen.




Regia di Costa-Gavras con Ulrich Tukur, Mathieu Kassovitz, Ulrich Mühe, Michel Duchaussoy

Recensione a cura di Simone Bracci

Il termine "Amen" indica la perentorietà della Chiesa di fronte all'Olocausto e il tacito monito del pontefice Pio XII. "Amen" è un film che già dalla locandina con cui è pubblicizzato fa intuire la sua intenzione provocatoria. Riproduce una croce e una svastica sovrapposte a formare un unico simbolo, un disegno blasfemo che ruota attorno al terribile piano di sterminio messo in atto dai nazisti e il silenzio di chi sapeva.
Dalla mancata presa di posizione, al non voler vedere questi crimini, fino ad arrivare all'amministrazione del Vaticano, resasi complice con la sua passività delle atrocità compiute dal terzo Reich.

Un'opera, questa di Costa-Gavras, carica di silenzi e di accuse nei confronti di chi era a conoscenza di cosa accadeva nella Germania nazista, ma ha taciuto: la Chiesa in primis, che nonostante le numerose prove non ha mai apertamente condannato i crimini nazisti, e i vari alleati poi.
"Amen" è la storia di due vite, due mondi che si incontrano e che sono destinati a far sapere al mondo cosa realmente accadeva agli ebrei, non solo allontanati dalla vita pubblica e costretti ai lavori forzati, ma sterminati in massa nei campi di concentramento. Kurt Gerstein (Ulrich Tukur) è un ufficiale delle SS che lavora nel settore chimico e che ignaramente si occupa della fornitura ai campi di concentramento dello Zyklon-B usato nelle camere a gas, soprattutto nella Polonia dell'est.
Dall'altra parte c'è un giovane prete, Riccardo Fontana (Mathieu Kassovitz), che si batte (inutilmente) affinché la Chiesa e soprattutto il Papa intervengano per salvare milioni di deportati. Le loro vite si intrecciano quando l'ufficiale tedesco vede con i propri occhi gli effetti del gas; insieme al giovane prete decidono di agire da soli, approfittando della loro posizione e cercando di ostacolare e rallentare l'operazione di sterminio, nella speranza che la notizia si diffonda e qualcuno intervenga.

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giovedì 22 giugno 2006

Recensione A BEAUTIFUL MIND

Recensione a beautiful mind




Regia di Ron Howard con Russell Crowe, Jennifer Connelly, Ed Harris, Adam Goldberg, Christopher Plummer, Paul Bettany, Josh Lucas

Recensione a cura di antoniuccio

Protagonista assoluta di questo film è la "mente" umana, in tutte le possibili sfaccettature del termine. A cosa conduce, quali risultati può produrre, come determina l'andamento della vita di un uomo e come condiziona l'esistenza delle persone che accanto a quell'uomo vivono.
La "bella mente" in questione è quella di John Nash, ma costui è solo un tramite nel messaggio di fondo che vuole trasmettere Ron Howard, finalmente alla sua consacrazione da regista, per l'Oscar che vinse.
Perché tramite? La storia di Nash è una storia vera per quanto romanzesca possa apparire, ed è una storia che non può non assumere significato generale.

Nash nasce accademicamente in un rinomato College americano, in un periodo storico che attraversa la guerra fredda. Durante tale periodo, gli studi sono condotti e stimolati nella direzione di controllare il nemico, di sorvegliarlo, di ingannarlo. Il messaggio che parte dai vertici accademici alle "belle menti" di cui fa parte Nash è quello di "stupire" con invenzioni, codici e quant'altro possa battere l'altro fronte. Inizia così una sfida tra se stessi, gli altri e le altre Università, a creare, ideare, tirar fuori dalle menti tutto ciò che possa essere nuovo, creativo, stupefacente.
La posta in gioco non è solo il contratto presso qualche facoltà di élite, ma la dimostrazione che di fronte al mondo accademico si possa essere i migliori. Non è solo una questione economica, ma di affermazione sull'altro. Le "belle menti" combattono con le idee, con le teorie, con la ricerca pura, la ricerca che ricerca se stessa.
Ma una "bella mente" non si può comandare e può anzi essere tanto fertile, tanto feconda, da offrire una creatività inaspettata. John Nash è la "mente più bella di tutte" e non lo sa.
Non sa che ogni mente ha un'infinità di varianti, un'infinità di lati che possono arricchire la personalità e dimostrarne la complessità. L'infinito rappresentato dall'otto longitudinale, che John Nash disegna con la bicicletta durante le sue elucubrazioni, in realtà è dentro il suo cervello e gli dimostrerà che esistono almeno tre persone in lui. Lo studioso pratico, l'intrigante senza scrupoli e l'innocente. Tre soggetti estremamente diversi, ma che nella "bella mente" si trovano perfettamente affiatati, anzi, sono parte di una quarta persona che è lo stesso Nash.

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mercoledì 21 giugno 2006

Recensione NEL NOME DEL PADRE

Recensione nel nome del padre




Regia di Jim Sheridan con Daniel Day-Lewis, Emma Thompson, Pete Postlethwaite, Anthony Brophy, Beatie Edney, John Lynch, Frankie McCafferty

Recensione a cura di GiorgioVillosio

Più volte mi è successo di non condividere la scelta di Produzioni e Distribuzioni in merito al titolo dei film di origine letteraria; per rispetto basilare della volontà degli Autori dei testi, ma pure per non ingenerare equivoci sui temi trattati.
Mi succede di nuovo con il meraviglioso film-denuncia anglo irlandese del '93, superpremiato al Festival di Berlino del '94, ove il titolo originario di "Proved innocent", veniva sostituito da un altro di difficile comprensione come "In the name of the father", per noi "Nel Nome del Padre".
La cosa si presta a due facili equivoci, di identità, in primis, ma pure di sostanza concettuale. Di identità, perché porta il nome di un film, relativamente recente, di Bellocchio, che nel '71 contava ben altra storia, volendo di segno opposto; di concetto, poi, perché nel film di Sheridan si muovono in parallelo due diverse tematiche, una di denuncia etico-politica, l'altra di natura psicologico-ancestrale, unica, quest'ultima, a rispecchiarsi nel titolo prescelto.
Ciò detto devo proprio all'equivoco del nome se ho potuto scoprire un film di questo calibro in TV, inopinatamente sfuggitomi ai tempi della sua uscita (fortunatamente in televisione non ci sono solo stupidaggini come "grandi fratelli e isole famose!!!").
Come anticipato, il film anglo-irlandese tocca due corde fondamentali dell'esistenza umana: la vita civile e sociale, con il drammatico racconto di un clamoroso e perverso errore giudiziario, e la psicologia dell'individuo, coi suoi riflessi emotivi, in gran parte riconducibili all'estrazione familiare ed ai rapporti edipici. Tratteremo separatamente le due componenti del film, preannunciando che entrambe risultano assolutamente convincenti per profondità di pensiero, vis drammatica, pathos psicologico e credibilità narrativa.

"I Quattro di Guilford", come li conosceva l'opinione pubblica, erano quattro hippies irlandesi, che, proprio in quanto tali, venivano ingiustamente e proditoriamente incarcerati, per quindici anni, come responsabili di un attentato in una birreria di Londra; il bisogno di un capro espiatorio per tacitare la paura dei benpensanti sudditi della Regina, metteva le autorità di Polizia in condizione di falsificare le carte, nascondendo addirittura le prove della loro innocenza.
Niente di mai visto, se vogliamo, pensando all'Italia delle BR, come ai carcerati di Guantanamo, all'America di Sacco e Vanzetti come alle storie più recenti dall'Iraq! Ma davvero unici, e straordinariamente convincenti sono i modi narrativi del film, dove l'asciuttezza del racconto, l'essenzialità della regia e la tragicità delle vicende riconducono non solo "l'occhio estetico", ma ancor più la coscienza morale dello spettatore ai principi istituzionali del diritto di tutti i paesi, che predica da sempre "in dubio pro reo" (pensiamo alla pena di morte!)!
La vita del carcere e la violenza ivi stagnante sui due fronti, sono qui rappresentati con lucidissima sintesi, senza indulgere all'effetto facile come negli analoghi film yankee. Mentre il possibile residuo barlume di umanità dei carcerati emerge in modo commovente nella scena simbolica di commemorazione del padre appena morto, con il lancio dei fazzolettini accesi dalle finestre, quali virtuali colombe di pace. A ciò concorre in modo determinante la superlativa interpretazione di tutti gli attori (eh... la grande scuola inglese... dove tutti sanno recitare... non come qui da noi... dove emergono anodini personaggi osannati da un pubblico frivolo solo perché carini, fotogenici... e tanto femminili...!).

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martedì 20 giugno 2006

Recensione PROFONDO ROSSO

Recensione profondo rosso




Regia di Dario Argento con David Hemmings, Daria Nicolodi, Gabriele Lavia, Macha Méril, Clara Calamai, Eros Pagni, Giuliana Calandra, Glauco Mauri, Nicoletta Elmi, Geraldine Hooper

Recensione a cura di Matteo Bordiga

Il trionfo dello stile, il dominio della forma. Il linguaggio della cinepresa, in questa pellicola, diviene esso stesso la cifra poetica del film, ancora prima della vicenda narrata. E molto prima dell'interpretazione degli attori.
"Profondo Rosso" ha il fascino dell'horror artigianale che si compiace di sé stesso e del proprio manierismo. Dario Argento punta soprattutto sulle sue trovate registiche, sul suo potere visionario per restituire all'immagine il primato assoluto.

La vicenda del musicista borghesotto che rimane coinvolto, suo malgrado, nell'assassinio di una parapsicologa e si trova trascinato in una serie di avventurose indagini per smascherare il killer, senza dubbio appassiona e tiene ben incollati allo schermo. Eppure, la magia di "Profondo Rosso", come in tutte le migliori opere d'arte, nasce dall'alchimia che l'artista riesce a generare sublimando i contenuti con la bellezza e l'estro della forma. L'horror viene elevato a poesia, la tensione e la suspense sono esasperate da lunghe soggettive, violente carrellate e contrappunti musicali che sembrano fondersi in un abbraccio con le immagini grondanti di sangue e di perversione.

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lunedì 19 giugno 2006

Recensione I TUOI, I MIEI E I NOSTRI

Recensione i tuoi, i miei e i nostri




Regia di Raja Gosnell con Dennis Quaid, Rene Russo, Sean Faris, Katija Pevec, Dean Collins, Tyler Patrick Jones

Recensione a cura di peucezia

Il film, uscito abbastanza recentemente sugli schermi, è il remake adattato ai tempi moderni di un film del 1968 con Henry Fonda e Lucille Ball distribuito in Italia con il controverso titolo "Appuntamento sotto il letto".
I tempi cambiano e così se il precedente film voleva essere un inno alla famiglia (sia pur un po' fuori canone) in un'epoca di forti cambiamenti e di liberazione sessuale, la nuova storia ripropone la medesima vicenda adattandosi ai nuovi gusti del 2006.

I protagonisti Dennis Quaid e Rene Russo, cinquantenni in splendida forma, accettano non si sa se di buon grado di riproporsi in un ruolo adeguato all'età ma con una buona dose di humour (almeno per quello che riguarda Quaid, aspetto da duro e disavventure decisamente comiche), inoltre si propongono in maniera diversa rispetto ai loro due predecessori, più attempati e più classici nei loro ruoli di genitori di improponibili nidiate.
Gli elementi diversi rispetto al film precedente sono, oltre a una tendenza a privilegiare l'aspetto comico a quello didattico, l'introduzione dell'internazionalità (la protagonista infatti ha adottato dei figli appartenenti a diverse etnìe, tutti ben coesi nel gruppo famiglia come simbolo del meltin' pot americano) e anche il diverso modo di intendere la vita dei due protagonisti.

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Recensione E LA NAVE VA

Recensione e la nave va




Regia di Federico Fellini con Freddie Jones, Barbara Jefford, Peter Cellier, Norma West

Recensione a cura di Giordano Biagio

Il film è del 1983. Narra le vicende di un gruppo di artisti, prevalentemente dedicati al canto lirico e alla musica, che si ritrovano in un viaggio per mare. Lo scopo della crociera è di compiere la cerimonia funebre di una famosa cantante lirica. Durante il viaggio la cantante defunta rimane protagonista incontrastata nei discorsi dei personaggi del piroscafo.
Coloro che l'hanno conosciuta, amata e frequentata, provano a definirne alcune particolarità. Parlando di lei tradiscono anche aspetti delle proprie personalità che appaiono sensibili ai problemi umani ma animate anche da forti passioni professionali e desideri inconfessabili.

Fellini costruisce aspetti filmici di queste personalità portandole su un piano dal tono brillante e giocando sui processi di identificazione che una figura di genio come la defunta cantante poteva attivare. Sullo schermo immaginifico della nobile cantante lirica scomparsa i personaggi della nave tracciano pensieri, riflessioni, ricordi ricchi di enigmi e curiosità biografiche che daranno alla narrazione un andamento a tratti grave ma spesso anche gioioso e sorprendente.
Quando la nave Gloria N. arriva nei pressi dell'isola Greca di Erimo le ceneri della cantante scomparsa, Edmea Tetua, vengono posate su un cuscino, sistemato con cura sul bordo delle ringhiera del ponte, lasciando che il vento a lei familiare potesse disperdere gli ultimi segni tangibili della sua esistenza. Erimo era il luogo nativo della famosa cantante lirica.

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venerdì 16 giugno 2006

Recensione PIANO 17

Recensione piano 17




Regia di Marco Manetti, Antonio Manetti con Giampaolo Morelli, Elisabetta Rocchetti, Enrico Silvestrin, Antonio Iuorio, Massimo Ghini, Giuseppe Soleri

Recensione a cura di Mr Black

Dopo il colossale fiasco di "Zora la vampira", i Manetti Bros ci riprovano con una pellicola a basso budget (alcuni critici hanno giustamente coniato il termine "low cost") e con alcune idee piuttosto interessanti.

Innanzitutto, come abbiamo già detto, il "piano" dei due fratelli è stato quello di utilizzare soltanto 63.000 euro e dunque liberarsi degli obblighi con i vari finanziatori, girare in digitale e riversare il tutto su pellicola, utilizzare delle location piuttosto semplici (un ascensore, un bar, una macchina, un appartamento, un edificio, una banca da rapinare), costruire una trama ridotta all'osso e caratterizzare i personaggi tramite brevi ma significativi flashback capaci di spiegare allo spettatore gli indispensabili antefatti.

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giovedì 15 giugno 2006

Recensione PANE, AMORE E FANTASIA

Recensione pane, amore e fantasia




Regia di Luigi Comencini con Vittorio De Sica, Gina Lollobrigida, Marisa Merlini, Virgilio Riento, Tina Pica

Recensione a cura di peucezia

Il film, uscito nel 1953, segna la fortuna di molti dei protagonisti coinvolti a cominciare da Luigi Comencini, il suo regista, che gli deve il suo primo grande successo, per andare poi a Gina Lollobrigida consacrata diva grazie a questa pellicola e a Vittorio De Sica che dopo un periodo incolore come interprete seppe riciclarsi in grande stile come caratterista leggero.
I nomi destinati a rimanere nella memoria collettiva sono comunque diversi: come non ricordare la caratterista napoletana di razza Tina Pica, allora settantenne, la bella attrice romana Marisa Merlini e Gigi Reder (in seguito diventato l'indimenticabile Filini nel ciclo di film di Fantozzi)? Un film dalla trama esile, realizzato senza grossi spiegamenti di mezzi diventa così un vero e proprio cult nella storia del cinema italiano.

Per analizzare meglio la storia occorre dire che l'Italia dei primi anni Cinquanta usciva faticosamente dal dopoguerra (nel film ci sono ancora tracce dei recenti bombardamenti) mentre il grande schermo conosceva i trionfali successi del Neorealismo. Questa pellicola può essere considerata a metà strada tra il Neorealismo e la commedia all'italiana ancora "in nuce".
Neorealismo perché si privilegia l'uso della presa diretta, ci sono prevalentemente delle scene in esterni e l'ambientazione è misera: i protagonisti sono persone semplici, di bassa cultura e bassissimo censo, inoltre accanto agli attori professionisti figurano in piccoli ruoli degli attori presi dalla strada come era pratica comune per molte pellicole realizzate in quel periodo.
Un'altra caratteristica fondamentale di questa scuola di pensiero privilegia l'uso del dialetto o dell'italiano con forte cadenza dialettale, proprio a marcare fortemente il contrasto tra finzione (in questo caso rappresentata dalla dizione neutra tipica della cinematografia precedente con storie ambientate nell'alta borghesia, secondo i canoni dei "telefoni bianchi" anni Trenta) e lingua parlata dalla gente, in particolare dal popolino.

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mercoledì 14 giugno 2006

Recensione VIA DA LAS VEGAS

Recensione via da las vegas




Regia di Mike Figgis con Nicolas Cage, Elisabeth Shue, Julian Sands, Richard Lewis, Steven Weber, Carey Lowell, Kim Adams, Emily Procter, Stuart Regen, Valeria Golino

Recensione a cura di fidelio.78

M. Figgis, regista prolifico (già autore tra gli altri del buon "Affari sporchi"), qui anche sceneggiatore e autore delle musiche, realizza con questo film la sua opera migliore con uno stile visivo intenso e una storia struggente.
Il film è tratto dal romanzo dell'inglese John O'Brien che, come il personaggio del suo libro, da qualche tempo faceva abuso di alcol e si uccise a trentaquattro anni (lasciando due romanzi più uno incompiuto), appena due settimane dopo aver ceduto i diritti cinematografici del romanzo.
La storia, che potrebbe essere definita quindi quasi autobiografica, parla di Ben, sceneggiatore per un importante network, che dopo essere stato licenziato e aver ricevuto una sostanziosa buona uscita, decide di recarsi a Las Vegas, una città continuamente illuminata da neon le cui strade e i cui casinò brulicano di gente, per distruggersi con l'alcol.
Quali drammi bruciano nel turbato animo di Ben non è rivelato. S'intuisce una separazione dolorosa, ma neanche lui ormai sa più se ha iniziato a bere perché la moglie è andata via o se è andata via perché lui beveva.

Un film raro, perché definibile non-trama: il personaggio principale prende la sua decisione critica all'inizio del film essendo la stessa anche l'evento dinamico. Si configura così un film con un personaggio totalmente passivo. La difficoltà nello scrivere una sceneggiatura con un personaggio simile è enorme perché il rischio che si corre (e nel quale molti autori europei incorrono) è quello di annoiare tremendamente lo spettatore. Figgis trova invece le giuste progressioni senza appesantire la storia con boriose spiegazioni o con una tediosa voce fuoricampo. Il film è pervaso da una disperazione quasi palpabile e la mostra senza esorcizzarla.
Figgis gioca continuamente con i nostri sentimenti, illudendoci che il gioco allo sfascio finisca per grazia dell'angelo incontrato da Ben (la prostituta che s'innamora di lui).
La sottotrama di E. Shue fa da contrappunto al buio della trama principale. Lei si nutre del dolore dell'uomo, lo circonda d'affetto perché ha un disperato bisogno di amare qualcuno che al tempo stesso abbia bisogno di lei. La luce donata da questa sottotrama è destinata inevitabilmente a soccombere, e noi lo sappiamo.

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