giovedì 31 maggio 2007

Recensione LA CITTA' PROIBITA

Recensione la citta' proibita




Regia di Zhang Yimou con Chow Yun-Fat, Gong Li, Jay Chou, Ye Liu, Qin Junjie, Man Li, Dahong Ni

Recensione a cura di Mimmot

Costruita a partire dal 1406, la Città Proibita è stata per cinque secoli la reggia degli imperatori cinesi, da Yong Le, della dinastia Ming, fino a PuYi, l'ultimo imperatore, deposto nel 1911 a seguito di una rivolta popolare.
Complesso architettonico grandioso, la Città Proibita è una città nella città, con i suoi 720.000 mq di superficie ed un numero straordinario di stanze, corridoi, cortili, al cui interno, l'Imperatore-Dio viveva protetto da alte mura color rosso sangue, circondato da opere d'arte, marmi, stucchi, statue bronzee da favola, che riflettevano il potere assoluto e il ruolo cosmico del "figlio del cielo".

E' in questo complesso di opulenza e segreti che Zangh Yimou ambienta il suo ultimo film, che conclude idealmente la trilogia d'amore e avventura iniziata nel 2003 con "Hero" e proseguita l'anno successivo con "La foresta dei pugnali volanti", e che esplicita inconfutabilmente la nostalgia del regista per una Cina dal passato millenario, nobilitato da una civiltà raffinatissima e crudele che la rivoluzione maoista, prima, e l'economia pseudo-capitalista, poi, hanno distrutto e cancellato.

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Recensione IL GRANDE SILENZIO (1968)

Recensione il grande silenzio (1968)




Regia di Sergio Corbucci con Jean-Louis Trintignant, Klaus Kinski, Frank Wolf, Vonetta McGee

Recensione a cura di peucezia

Sergio Leone con il suo primo film di genere western, in seguito definito "spaghetti" per differenziarlo dal filone a stelle e strisce, inaugura un nuovo modo di fare cinema. Il western classico mostrava infatti generalmente duelli tra eroi senza macchia solitamente sbarbati e con abiti sempre freschi di bucato, o epici combattimenti tra i buoni (alias i bianchi) e i cattivi (alias i pellerossa, dipinti come selvaggi sanguinari) oppure si dedicava all'epopea dei pionieri, gente senza macchia e senza paura, partiti alla volta delle terre occidentali per incentivare il progresso del popolo nordamericano.
Leone invece mostra uomini sporchi, paesaggi squallidi, gente disperata e non ha paura di essere a volte fin troppo spietato e violento.

Il genere "spaghetti western" iniziato con Sergio Leone nel 1964 ebbe per tutto il decennio una serie di imitatori e continuatori; alcuni produssero delle pallide copie destinate a scomparire velocemente, altri hanno realizzato degli autentici capolavori.
Questo è il caso de "Il grande silenzio", basato su una vicenda realmente accaduta nel freddo inverno del 1898 a Snow Hill (città sul confine tra Stati Uniti e Messico), girato nel 1967 da Sergio Corbucci e uscito l'anno seguente sul grande schermo.

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lunedì 28 maggio 2007

Recensione AMERICAN BEAUTY

Recensione american beauty




Regia di Sam Mendes con Kevin Spacey, Annette Bening, Thora Birch, Wes Bentley, Mena Suvari, Chris Cooper, Peter Gallagher, Allison Janney, Scott Bakula, Sam Robards

Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli (voto: 7,0)

"La moda è una forma di bruttezza così intollerabile che siamo costretti a cambiarla ogni sei mesi".
Così ha scritto Oscar Wilde nei suoi Aforismi. E questo vale anche per il cinema.

Vi sono pellicole inossidabili, capaci di resistere al tempo e di sopravvivere alle mode. Altre, invece, possono avere un grande exploit, riscotendo ampi consensi sia di pubblico, sia di critica, ma sono inesorabilmente destinate a tramontare.
A discapito del proprio titolo, una pellicola che resterà per sempre fra i capolavori della storia del cinema è "Sunset Boulevard" diretto dal grande Billy Wilder. È a questa pellicola che Alan Ball sembra strizzare l'occhio scrivendo la sceneggiatura di "American Beauty".
Infatti, proprio come Joe Gills, interpretato da uno straordinario William Holden, nel capolavoro di Wilder ci racconta la propria storia da morto, allo stesso modo Lester Burnham (Kevin Spacey) ci narra gli accadimenti dei suoi ultimi mesi di vita. La sola differenza narrativa consta del fatto che, mentre sappiamo di che cosa sia morto Gills, ignoriamo che cosa sia accaduto a Burnham.

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mercoledì 23 maggio 2007

Recensione ZODIAC

Recensione zodiac




Regia di David Fincher con Robert Downey Jr., Anthony Edwards, Jake Gyllenhaal, Pell James, Patrick Scott Lewis, Lee Norris, Bijou Phillips, Peter Quartaroli, Mark Ruffalo

Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli (voto: 7,5)

David Fincher ritorna al grande schermo, dopo aver superato la crisi cagionatagli dalla carneficina prodotta dalla distruzione delle Twin Towers nel corso dell'attacco terroristico del 2001. Durante quel giorno di settembre, egli stava ultimando la lavorazione di "Panic Room", che uscì nelle sale all'inizio del 2002, il solo film che separa "Fight Club" (1999) e "Zodiac". Era stato proprio il finale di "Fight Club" e le sue tristi analogie con la tragedia dell'undici settembre a precipitare l'autore in una profonda inquietudine.
Per il suo rientro, un rientro in grande stile, Fincher ha deciso di dirigere un film, che non si limita semplicemente a narrare una storia realmente accaduta, ma che si dimostra fin da subito una ricostruzione puntale e precisa di alcuni fatti di cronaca, che sconvolsero la baia di San Francisco a partire dalla fine degli anni sessanta.

"Zodiac" è tratto dal libro inchiesta scritto dal vignettista Robert Graysmith (cui è seguito anche un secondo libro intitolato "Zodiac unmasked") e ricostruisce con scrupolosa fedeltà storica e documentale le indagini relative ad alcuni violenti omicidi, che furono tutti attribuiti alla mano di un solo serial killer, che li rivendicò fornendo agli inquirenti dettagli che solo l'assassino poteva conoscere.

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Recensione MR. VENDETTA - SYMPATHY FOR MR. VENGEANCE

Recensione mr. vendetta - sympathy for mr. vengeance




Regia di Chan-wook Park con Bo-bae Han, Ji-Eun Lim, Du-na Bae, Ha-kyun Shin, Kang-ho Song

Recensione a cura di Gabriele Nasisi

Il giovane Ryu, ragazzo sordomuto dalla nascita, progetta il rapimento della figlia di un noto industriale per poter far operare la sorella con i soldi del riscatto. Ma a causa di un incidente la bambina muore, scatenando una serie di eventi che il desiderio di vendetta lega fra loro.

"Sympathy for Mr. Vengeance" apre la trilogia dedicata alla vendetta del regista coreano Chan-wook Park; il film si costruisce proprio su quella spirale di violenza e morte a cui il sentimento di vendetta, sul quale tutte le azioni dei personaggi (soprattutto nella seconda parte del film) si edificano, inevitabilmente conduce. Tale introspezione vede nel personaggio el sordomuto Ryu il suo principale oggetto. La scelta di un protagonista con tali limiti di comunicazione rende il film pieno di silenzi, in cui (come sempre dovrebbe essere in quest'arte) sono le immagini a parlare al posto dei suoni. La progressione narrativa degli eventi è puntata sul rapporto di causa-effetto: ogni vendetta personale apre le porte ad un'altra, creando una catena che si interrompe solamente con la fine del film.
La sua chiave di lettura è contenuta nel titolo stesso: la "comprensione" per la vendetta che il regista cerca di infondere nello spettatore supera quella barriera manicheista tra bene e male, rendendo tutti i suoi personaggi degli incolpevoli burattini che, dopo aver perso tutto, dedicano anima e corpo ai loro desideri iracondi perché sono impossibilitati a perdonare.
Le poche parole che il carnefice di Ryu pronuncia prima di commettere il suo crimine suggellano questa impressione: l'industriale è consapevole delle buone intenzioni che hanno mosso il ragazzo ma non può fare altrimenti. E questa confessione di debolezza non diminuisce l'efferatezza del suo crimine, sicuramente il più sadico fra quelli che il film propone (prima taglia i tendini di Ryu facendolo annegare e poi ne fa a pezzi il corpo).

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lunedì 21 maggio 2007

Recensione NOTTURNO BUS

Recensione notturno bus




Regia di Davide Marengo con Valerio Mastandrea, Giovanna Mezzogiorno, Ennio Fantastichini, Roberto Citran, Francesco Pannofino, Marcello Mazzarella, Ivan Franek, Mario Rivera

Recensione a cura di ferro84 (voto: 7,0)

Davide Marengo ha avuto la sua fortuna qualche anno fa con il cortometraggio "Craj - Domani e, dopo acuni videoclip musicali, "Notturno Bus" rappresenta il suo passaggio verso il grande schermo.
Quando un regista emergente riesce ad avere nel cast alcuni fra i migliori attori italiani come Valerio Mastandrea e Giovanna Mezzogiorno, si capisce da subito che dietro la macchina da presa c'è un professionista di grandi potenzialità. Potenzialità che sono facilmente desumibili dalla visione di questo noir che sa però virare in maniera intelligente verso altri generi.

La storia si concentra su uno sfortunato autista di autobus, Franz, che trascorre la sua triste vita tra tavoli di poker e debiti non sadati; fin quando non incontra Leila, ladra di professione che, cercando il suo aiuto, gli stravolgerà la vita.
Sicuramente la trama sa di deja vu; gli elementi di forza di "Notturno bus" vanno ritrovati in gran parte nello stile di regia, che riesce ad ispirarsi al cinema americano, senza per questo mancare di dare spessore e personalità all'opera.
In primo luogo siamo in presenza di un film di genere: niente riflessione sui massimi sistemi, tematiche filosofiche o elucubrazioni mentali di registi in crisi esistenziale; Marengo vuole divertire il suo pubblico senza però mortificarne le doti intellettive, con un plot sicuramente già visto che, nonostante ciò, riesce a coinvolgere ed appassionare.
Il film stenta a decollare: i primi 15 minuti scorrono lentamente, con citazioni del cinema noir classico che, sebbene necessari per creare l'atmosfera che pervade il film, rallentano eccessivamente l'azione.

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Recensione KINSKI - IL MIO NEMICO PIU' CARO

Recensione kinski - il mio nemico piu' caro




Regia di Werner Herzog con Klaus Kinski, Werner Herzog, Eva Mattes, Claudia Cardinale

Recensione a cura di kowalsky (voto: 9,5)

"Prima togli la trave dal tuo occhio, e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dal mio."

Klaus Kinski, l'"uomo che vi piace odiare" (come si diceva ottant'anni fa del celebre Eric Von Stronheim) apparteneva sicuramente a una razza indistinta di attore e di essere umano: un uomo profondamente avverso a tutti i tipi di business e alla mondanità, ma soprattutto ostile all'umanità non tanto come forma individuale ma collettiva di stupidità, di complicità, di impotenza planetaria.
Le sue bizze e i suoi eccessi, venati da una forte forma di egocentrismo, hanno scandalizzato i salotti della gente "perbene", mettendo l'arte come funzione assolutamente primaria della sua esistenza.
Davanti alla sua scomparsa, l'ipocrisia vigente non ha tralasciato proprio nulla della propria dilagante riabilitazione, senza contare che - davanti a simili personaggi - il mondo degli addetti ai lavori avrà respirato un certo sospiro di sollievo. Kinski è un personaggio scomodo e come tale "inopportuno" per un mondo che si vanta di edificare, con sommo integralismo, le redini delle proprie colpe. Ma, del resto, non è così anche oggi? Non sono forse i film più coraggiosi, i percorsi più devianti, i personaggi meno malleabili a trovare spesso ostilità nel mondo contemporaneo?
In realtà personaggi come Kinski sono insostituibili proprio perchè nella loro pregnante vitalità fisica e mentale (una vitalità che assomiglia a un esorcismo dove la vita e la morte non hanno più alcun significato) lasciano un vuoto incolmabile, perchè esistono attori che sanno mettere a nudo, brutalmente e con-sapevolmente, un inferno privato, uno spirito irrazionale e beffardo, fuori e dentro lo schermo, ed è come se Aguirre, Woyzeck o Fitzcarraldo parlassero direttamente a noi.
Ciò che sgomenta è però che quel retaggio di furia incontrollata e iconoclasta porta l'uomo a vivere disperatamente quel malessere con se stesso, gridando la sua rabbia soprattutto a quei pochi che possono e vogliono ascoltarlo, con uno spirito di sacrificio che esprime, invero, le più realiste condizioni della razza umana.

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giovedì 17 maggio 2007

Recensione 4 MINUTI

Recensione 4 minuti




Regia di Chris Kraus con Monica Bleibtreu, Hannah Herzsprung, Sven Pippig, Richy Müller, Amber Bongard, Vadim Glowna, Christian Koerner, Stefan Kurt

Recensione a cura di amterme63 (voto: 8,0)

"Vier Minuten (tradotto letteralmente in "4 Minuti")", del giovane regista quasi esordiente Chris Kraus, è una riflessione sul valore che si può dare alle persone dotate di "genio"; ciò che le rende speciali, uniche, sublimi può giustificare altre parti della loro personalità sgradevoli, repellenti o criminali? Si può ammirare e favorire una persona eccezionale anche se è un elemento pericoloso per la società?
Viene poi toccato il tema, sempre dibattuto da Dostoevskij in poi, della personalità criminale estrema e se sia giusto permetterne l'inserimento sociale; tematica peraltro di scottante attualità anche In Italia, in un momento storico in cui si sta discutendo circa il problema del reinserimento nella società degli ex-terroristi.
Nel film le questioni però sono solo esposte senza voler dare un giudizio preventivo; sta allo spettatore prendere posizione, anche se sembra quasi che le simpatie del regista vadano tutte al criminale-genio.
In ogni caso si celebra il potere dell'arte di "nobilitare" qualsiasi persona, anche il peggior rifiuto della società.

Il film si richiama in parte al passato nazista della Germania; è infatti ambientato nel carcere femminile di Lickau, che in passato è stato anche un campo di prigionia nazista. Sembra quasi si voglia fare un parallelo fra gli orrori e le limitazioni alla libertà del passato con quelli del presente. Tra l'altro alcuni flashback sono ambientati in quel triste periodo.
Anche il tema del "genio" abbinato alla violenza richiama in parte l'esaltazione nazista della persona con doti superiori a quelle della massa, libera di esprimersi con ogni mezzo a sua disposizione senza impedimenti morali; questo va in parte a giustificare le paure e i timori delle autorità carcerarie a lasciare in giro persone instabili anche se dotate artisticamente.

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lunedì 14 maggio 2007

Recensione IL GRANDE CAPO

Recensione il grande capo




Regia di Lars von Trier con Benedikt Erlingsson, Iben Hjejle, Anders Hove, Jens Albinus, Jean-Marc Barr, Casper Christensen, Peter Gantzler

Recensione a cura di maremare (voto: 7,5)

"Il Grande Capo" inizia con l'immagine riflessa di Lars Von Trier, che dietro una finestra dello stabile dove verrà quasi interamente girato il film, gioca con le parole: "Voi vedete il mio riflesso ma questo non vuol farvi riflettere". Anzi, insiste, non ha altro significato che quel che si vede.
Fin dall'inizio, quindi, lo spettatore si disporrà a non perdersi in riflessioni. Poco importa che, più tardi, l'attore che recita il ruolo del Grande Capo (magnificamente interpretato da Jens Albinus), costretto a studiare due scarne e banali righe per la sua parte, affermi: "Il testo dice molto di più di quello che dice", e che uno dei personaggi provi a farci desistere: "La vita è come un film Dogma", gli fa dire Von Trier, "il fatto che sia faticosa non significa che non dica delle verità".

Che cosa accade, ne "Il Grande Capo"?
Immediatamente a spiccare è un continuo "saltellare" delle immagini: ogni tanto, nel fluire delle inquadrature viene tolto qualche fotogramma. Anche non volendo rifletterci, a noi pare che un senso ci sia nell'espediente e pensiamo ai due protagonista del film, fra loro speculari. L'uno capo finto ma Attore vero, l'altro attore finto e Capo vero, non sopportano di non essere al centro dell'attenzione. E per esserlo sono disposti a qualsiasi bassezza. Insomma, se fossero un regista cinematografico, il loro narcisismo non avrebbe remore a tagliare fotogrammi un po' qua e un po' là, giusto perché gli spettatori non dimenticassero chi comanda.

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venerdì 11 maggio 2007

Recensione CASABLANCA

Recensione casablanca




Regia di Michael Curtiz con Humphrey Bogart, Ingrid Bergman, Paul Henreid, Claude Rains, Conrad Veidt, Sydney Greenstreet, Peter Lorre, S.Z. Sakall, Madeleine LeBeau, Dooley Wilson, Joy Page

Recensione a cura di Mrs. Black (voto: 9,0)

"Casablanca" è stato l'archetipo di tutti i film d'amore che hanno fatto la loro comparsa sugli schermi dal 1942 in poi. Come disse qualcuno circa l'opera lirica, anche "Casablanca" non può lasciare indifferenti: o si ama o si odia.

Nel 1941 migliaia di disperati fuggono dall'Europa e dalla minaccia tedesca, rifugiandosi a Casablanca nel Marocco francese. Qui i più fortunati ottengono dei visti che equivalgono alla fuga in America e quindi alla libertà, ma la maggior parte deve prepararsi ad una lunga permanenza a Casablanca, dove si sviluppa l'intera vicenda.
C'è chi da Casablanca non vuole andarsene, perché nasconde segreti e dolori che si trascina da dove arriva; Rick Blaine (Humphrey Bogart), ad esempio, un solitario, schivo e piuttosto scorbutico americano che ha aperto un locale notturno dove tutti si incontrano ("Everybody comes to Rick's"), bevono, litigano, giocano e tramano. Quando Rick viene fortuitamente in possesso di due lettere di transito, che equivalgono ad un lasciapassare per il Nuovo Mondo importante ed ambito, iniziano i problemi. A chi le darà Rick? A chi gli offrirà il prezzo più alto? O le userà per se stesso? Le cose si complicano ulteriormente quando nel suo locale mette piede Ilsa Lund (Ingrid Bergman), con il marito cecoslovacco, il leader della Resistenza Victor Laszlo (Paul Henreid).
Il rude americano e la bellissima svedese si conoscevano già. Inizialmente non si sa quando, dove, perché la loro storia sia iniziata o sia finita. Quello che è certo è che l'amore reciproco non è mai scomparso. Il film si sviluppa poi attorno a tutti questi ed altri avvenimenti, animati da battaglie politiche, ricordi fumosi, minacce naziste, doppi giochi pericolosi. Il tutto a Casablanca, vero e proprio "bosco narrativo", per dirla con Umberto Eco ("Sei Passeggiate nei Boschi Narrativi", Bompiani, 1992, p.157).

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giovedì 10 maggio 2007

Recensione FUDOH: THE NEW GENERATION

Recensione fudoh: the new generation




Regia di Takashi Miike con Kenji Takano, Shosuke Tanihara, Tamaki Kenmochi, Marie Jinno

Recensione a cura di quadruplo (voto: 8,0)

Non è semplice descrivere o classificare le peculiarità del cinema di Takashi Miike, eclettico regista giapponese, così come non lo è inserire "Fudoh: the new generation" e gli altri suoi film in un unico genere. Probabilmente è proprio questa una delle sue principali caratteristiche: integrare generi, tematiche e stili a volte completamente diversi in un unico film. Dire "integrare" è diverso rispetto a "mescolare": ogni singolo elemento ha difatti una propria funzione specifica e svolge un'azione sinergica per il risultato finale.

Nella sterminata produzione del cineasta orientale spiccano per notorietà le pellicole "Ichi the killer", "Audition", "Visitor Q" e "Dead or Alive"; se però si vuole comprendere appieno il Miike-pensiero è necessario andare oltre questi quattro capolavori, rivolgendosi ad una più che prolifica filmografia, costituita da una settantina di film fino ad oggi in quindici anni di carriera.
Cercare di vederli tutti è comunque una sfida persa in partenza.
Alcuni esistono solo in VHS, altri non sono mai stati né importati né sottotitolati in inglese (sorvoliamo sull'italiano): probabilmente è possibile per lo sperduto cinefilo occidentale vederne solo la metà (a tale proposito, per chi volesse approfondire la storia, le tematiche e la filmografia di Miike è consigliata la lettura di "Agitator", di Tom Mes).

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mercoledì 9 maggio 2007

Recensione SPIDER-MAN 3

Recensione spider-man 3




Regia di Sam Raimi con Tobey Maguire, Kirsten Dunst, James Franco, Thomas Haden Church, Topher Grace, Bryce Dallas Howard, Rosemary Harris, J.K. Simmons, James Cromwell, Theresa Russell, Dylan Baker, Bill Nunn, Bruce Campbell, Elizabeth Banks, Cliff Robertson

Recensione a cura di ferro84 (voto: 6,5)

Preceduto da un'imponente campagna promozionale e da una distribuzione in ben novecento sale solo in Italia, "Spider-man 3 appartiene a quel genere di film che non possono passare inosservati: solo considerando il budget di 300 milioni di dollari che, tanto per fare una proporzione, equivale a quello impiegato dalla New Line per produrre l'intera trilogia de "Il Signore degli anelli", si capisce come "Spider-man 3" meriti perlomeno di essere visto al cinema. Aspettare l'uscita in dvd potrebbe infatti essere un "peccato mortale", levando il gusto di una visione spettacolare che solo sul grande schermo può esprimere in pieno tutte le sue potenzialità.
Quando un film ha un budget così spropositato è necessario che vadano a vederlo in tanti: grandi e piccini, appassionati di fumetti e adolescenti, genitori e figli, cosicchè opere di questo tipo risultano difficilmente identificarli in un genere data la pluralità di "target" cui sono rivolti. "Spider-man 3" può essere infatti visto sia come film fantastico che fantascientifico, sia drammatico che d'amore.
Per recuperare le immense spese di produzione e per poterne ricavare un legittimo profitto la Columbia-Tristar dovrà assicurarsi un incasso totale non inferiore al miliardo di dollari. Considerando il successo dei precedenti episodi si potrebbe pensare che la casa di produzione vada a colpo sicuro ma le incognite sono molte; in primo luogo la struttura della trilogia stessa.

Con "Spider-man 3" non siamo infatti in presenza di una serie strutturata narrativamente in modo unitaro, simile a trilogie come quella di "Matrix"; gli episodi sono slegati fra loro e l'unico anello di congiunzione fra le varie puntate è rappresentato dalla storia d'amore fra Peter Parker e Mary Jane.
Il rischio più grande incontrato dagli sceneggiatori è stato quello di confezionare un film ripetitivo tale da deludere il pubblico e non riscontrare il successo dei precedenti episodi; ecco che si è quindi cercato di creare una megastoria in cui citare tutti i personaggi della serie, concentrarsi sulla storia d'amore e nello stesso tempo continuare a parlare della rivalità tra l'Uomo Ragno e Goblin junior.
Possibile riuscire a fare tutto questo in un unico film? La risposta è ovviamente no ma "Spider-man 3" ci prova con risultati alquanto discutibili.

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martedì 8 maggio 2007

Recensione LA GUERRA DEI FIORI ROSSI

Recensione la guerra dei fiori rossi




Regia di Zhang Yuan con Dong Bowen, Ning Yuanyuan, Chen Manyuan, Zhao Rui, Li Xiaofeng

Recensione a cura di peucezia

Zhang Yuan, regista cinese, scomodo perché solito dedicarsi a temi poco felici per il regime, dopo aver esplorato i turbamenti adolescenziali con "Diciassette anni", affronta una fascia d'età poco trattata dal cinema anche perché decisamente poco gestibile, vale a dire la prima infanzia.

Il film è ambientato per tutta la sua durata (ben un'ora e mezza!) in un asilo a tempo pieno e ci mostra attimo per attimo la vita dei piccoli convittori. Gestire più di cento bambini quando si è solo in quattro non è facile ed è qui che entrano in campo le varie letture della storia: è indispensabile il pugno di ferro, l'organizzazione ferrea e soprattutto la disciplina.
Ecco che l'asilo diventa quindi la parafrasi della grande Cina, un po' squallida e senza fantasia, con cittadini a volte curiosi ma ingenui come bambini, che necessitano di essere presi per mano e condotti verso la retta via da quell'oligarchia che conosce il bene e il male, pronta a dare una tremenda punizione o un piccolo premio a seconda del comportamento di ognuno dei suoi "protetti".

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