venerdì 24 agosto 2007

Recensione ZELIG

Recensione zelig




Regia di Woody Allen con Woody Allen, Mia Farrow, John Buckwalter, Marvin Chatinover, Stanley Swerdlow, Paul Nevens

Recensione a cura di Harpo (voto: 10,0)

Se nella cinematografia mondiale esistono realmente dei "geni", Woody Allen è indubbiamente fra questi.

Il "fenomeno Allen" inizia nel 1969 con "Prendi i soldi e scappa", brillante film comico di stampo documentaristico, che strizza l'occhio ai classici marxiani anni '30. La carriera di Allen prosegue nella prima metà degli anni '70 con una serie di eccellenti film, sempre sulla falsariga dei capolavori dei fratelli Marx.
Nella seconda metà degli anni '70 e, più precisamente nel '77, lo stile di Woody evolve, si aggiorna. Con "Annie Hall", Allen inaugura la commedia nevrotica. Gli influssi marxiani sono drasticamente diminuiti, anche se le uscite sarcastiche tipiche dell'umorismo yiddish permangono; ora Woody si rifà soprattutto a Bergman e a Fellini. Nel 1979, con "Manhattan", viene raggiunto uno dei punti più alti della filmografia alleniana: questo capolavoro, all'epoca dell'uscita, viene perfino definito da critici statunitensi come "l'unico grande film americano degli anni '70".
Si giunge così all'inizio degli anni '80. Dopo due pellicole alquanto notevoli ("Stardust memories", 1980, e "Broadway Danny Rose", 1982), Allen firma un nuovo capolavoro e forse il suo miglior film, insieme all'opposto "Manhattan": "Zelig".

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giovedì 23 agosto 2007

Recensione L'ANGELO DEL MALE

Recensione l'angelo del male




Regia di Jean Renoir con Jean Gabin, Simone Simon, Fernand Ledoux, Julien Carette

Recensione a cura di Giordano Biagio (voto: 9,0)

Film capolavoro di Jean Renoir, girato nel 1938 tra Le Havre e Parigi con un bianco e nero di grande efficacia espressiva.

Di grande impatto significativo le cupe atmosfere degli esterni, che avvolgono come una misteriosa entità fantasmagorica buona parte dell'opera.
Le fedeli riprese delle telecamere colorano il film di un triste presentimento. E' il preannuncio fatale dell'arrivo di un'oscurità apocalittica, di una catastrofe bellica senza precedenti, di un'immane tragedia che sconvolgerà a breve gran parte del mondo.
Renoir in questo film si avvale di un linguaggio cinematografico in parte nuovo, in parte già collaudato dai noir americani degli anni '30.
La forte novità di questo film consiste nell'aver proseguito con tenacia una felice sperimentazione intorno alla lingua cinematografica, cercando di tradurre, per lo schermo, aspetti del linguaggio letterario più vicino al naturalismo.

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mercoledì 22 agosto 2007

Recensione NICK MANO FREDDA

Recensione nick mano fredda




Regia di Stuart Rosenberg con Paul Newman, George Kennedy, J.D. Cannon, Harry Dean Stanton

Recensione a cura di The Gaunt (voto: 9,0)

"Violation" è la scritta che compare nei parchimetri di una strada, mentre un uomo, tranquillamente, li sta "decapitando" senza un apparente scopo, senza nemmeno rubare gli spiccioli al loro interno; sembra solo una bravata da ubriacone. Nick Jackson (in originale il suo nome è Luke) viene condannato a scontare due anni di lavori forzati presso una colonia penale e già dal suo arrivo ci accorgiamo che non è l'autore di una semplice goliardata: di fronte a soggetti che hanno nel loro curriculum penale reati come omicidi, rapine o furti, il suo dice che è stato un veterano di guerra (presumibilmente in Corea), perdipiù decorato con medaglie al valore. Stranamente, però, si è congedato come soldato semplice, dopo che era giunto fino al grado di sergente.

Il film non mostra alcun flashback della vita passata di Nick, limitandosi soltanto ad una scarna cronistoria letta dal direttore del carcere (soprannominato "Il Capitano"); ma è forse proprio durante il periodo passato sotto le armi che nasce e si sviluppa in Nick una spiccata insofferenza ed una ribellione verso i modelli della società attuale, a suo modo di vedere profondamente ingiusta, chiusa in se stessa e repressiva verso tutti coloro che non sono allineati ad essa. L'atteggiamento ribelle verso le autorità costituite si manifesta immediatamente appena entrato in contatto con la realtà carceraria.
Qui non solo vige il regolamento "ufficiale", a cui tutti i detenuti devono attenersi, snocciolato dal direttore all'arrivo nella colonia, ma impera l'accondiscendenza degli stessi ristretti, pronti a collaborare con remissività verso le autorità carcerarie pur di non avere noie.

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lunedì 20 agosto 2007

Recensione OGNI MALEDETTA DOMENICA

Recensione ogni maledetta domenica




Regia di Oliver Stone con Al Pacino, Cameron Diaz, Dennis Quaid, James Woods, Jamie Foxx, LL Cool J, Matthew Modine, Jim Brown, Lauren Holly, Ann-Margret, Aaron Eckhart, Elizabeth Berkley, Charlton Heston, John C. McGinley

Recensione a cura di foxycleo

"Ogni maledetta domenica o si vince o si perde" sa di luogo comune ed è un luogo comune che puzza di birra e sudore, che fa girare soldi ed anche teste a milioni di esseri umani: il film datato 1999 di Oliver Stone è retorico, rumoroso e formalmente corretto.
Racconta la storia della squadra di football Miami Sharks allenata dallo stanco ma ancora capace di mordere Tony D'amato (Al Pacino) e di proprietà dell'ambiziosa ed affascinante Christina Pagniacci (Cameron Diaz).

Componenti che rendono il gioco del football qualcosa che trascende dallo sport o dalla sana competizione sono il conflitto generazionale, l'ossessione di volere essere sempre al passo coi tempi, l'onnipresenza dei media, il "dio" denaro, che oltre a far perdere la testa spesso è in grado di far perdere la salute.
L'allenatore Tony D'Amato, appartenente alla storica scuola in cui i campioni erano veri uomini fuori e dentro al campo, sostiene che il degrado morale ed etico degli atleti contemporanei sia causato dalla cara vecchia televisione, questa sarebbe la causa per cui gli atleti non giocano più per la squadra ma per il proprio tornaconto ed anche del fatto che, sebbene fisicamente più preparati questi giovani nerboruti siano molto più fragili dei loro predecessori.

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venerdì 17 agosto 2007

Recensione CANE DI PAGLIA

Recensione cane di paglia




Regia di Sam Peckinpah con David Warner, Dustin Hoffman, Susan George, T.P. McKenna

Recensione a cura di kowalsky

1971, ovvero: quando Dustin Hoffman era (già) il miglior attore americano del mondo, e Sam Peckinpah il più grande autore americano del suo tempo.

A due anni dal capolavoro "Il Mucchio Selvaggio" e dopo lo spartiacque tra gli anni Sessanta e Settanta inaugurato con il bellissimo "La ballata di Cable Hogue", il regista si apprestava a riprendere i suoi temi più cari in un contesto decisamente diverso dai western.
"Cane di Paglia" ("Straw Dogs") è tratto da una novella di Gordon M. Williams, "The Siege of Trencher's Farm", ed è tuttora considerato uno dei più controversi e brutali film sulla violenza umana di sempre.
Anche in questo caso, Peckinpah rielabora la storia facendone una Rappresentazione di un Malessere Sociale che trae origine dagli istinti bestiali della Razza Umana.
Acclamato come un film fortemente innovativo, e al tempo stesso aspramente criticato per il suo spirito apparentemente "reazionario", il film parte come una metafora e finisce per diventare un'aspra requisitoria contro una Modernità che faticosamente desiste ai suoi istinti Primordiali, rappresentando una parabola ben diversa da quella di un Burgess per "L'arancia a orologeria" e dal libero addattamento cinematografico di Kubrick.
Il "branco" che rappresenta il cinema di Peckinpah è inquietante, in quanto irrazionale nel suo dualismo, fortemente repressivo e violento ma altrettanto "debole" nella sua iconoclasta forma di violenza e follia.
Ciò che ancora colpisce del film, filtrato attraverso i parametri tipici di tanti sottogeneri del cinema Americano, è verificare quanto ogni azione porti con sè il "mezzo", sia esso l'uso indistinto delle armi sia il bisogno di stordirsi con degli alcolici, come in una sequenza emblematica e un pò paradossale girata nel bar locale.
Altrettanto paradossalmente, l'azione non si svolge negli Usa, ma in un'Inghilterra sperduta e ostile, al suono delle cornamuse scozzesi.
"Cane di Paglia" è un film che parte da una concezione classica, ma stilisticamente va ben oltre ogni collocazione "di genere": il villaggio della Campagna Inglese sembra per diversi aspetti un nuovo Far West, dove a un solo uomo è affidato il compìto di far rispettare le leggi, come la figura di uno sceriffo texano. Ma per certi versi rilegge la Fantascienza, con quella figura di Straniero (l'Americano) approdato in una comunità ostile dove le sue idee "democratiche" vengono viste come una sorta di Alienante rifugio di un Mondo che non conosce Regole (in questo caso, il professore interpretato da Hoffman si rivela il vero Alieno della vicenda).

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lunedì 13 agosto 2007

Recensione LE ROSE DEL DESERTO

Recensione le rose del deserto




Regia di Mario Monicelli con Michele Placido, Giorgio Pasotti, Alessandro Haber, Fulvio Falzarano, Moran Atias

Recensione a cura di peucezia

A novant'anni suonati Mario Monicelli, uno dei padri della commedia all'italiana (suoi, tra gli altri, "I soliti ignoti"e "L'armata Brancaleone"), torna alla regia riportando sul grande schermo i ricordi della sua generazione impegnata nella guerra, ispirandosi al libro di Mario Tobino "Il deserto della Libia".
Girato quasi completamente nei luoghi originali, "Le rose del deserto" vuol essere un omaggio malinconico alla gioventù lontana del regista ed una denuncia vergata con il solito piglio ironico.

Coadiuvato da uno stuolo di discreti caratteristi, da Alessandro Haber, il cui ruolo risulta qui cruciale ai fini della storia anche se non altrettanto incisivo, al giovane Giorgio Pasotti a Michele Placido, l'intreccio scorre via in maniera non sempre limpidissima però, generando a tratti noia nello spettatore.
La vicenda in sé è interessante: un drappello di soldati di stanza nel deserto descritti con le classiche tipologie (il romano "caciarone", l'intellettuale, il romantico, l'indolente, il veneto lavoratore, il sardo un po' cocciuto), in una sorta di remake de "La grande guerra", in cui al centro della trama era l'umanità dei soldati e di straforo gli episodi bellici; manca però purtroppo ai protagonisti lo spessore scenico e recitativo degli interpreti del precedente film bellico firmato quasi quaranta anni prima sempre da Monicelli. Gli episodi hanno poco mordente, la recitazione è superficiale, televisiva o da sit-com e non basta Placido con la sua verve a salvare la barca.

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venerdì 10 agosto 2007

Recensione IL GATTOPARDO

Recensione il gattopardo




Regia di Luchino Visconti con Burt Lancaster, Alain Delon, Claudia Cardinale, Rina Morelli, Paolo Stoppa

Recensione a cura di kowalsky (voto: 8,0)

"Il Gattopardo" venne scritto da Giuseppe Tomasi Di Lampedusa a cavallo tra il 1954 e il 1957, e successivamente distribuito, dopo la morte dell'autore, grazie all'aiuto di Giorgio Bassani che ne editò un'appassionata prefazione.
Ancor oggi è un'autorevole testo su cui si confrontano i rigidi schemi letterari scolastici, probabilmente per predisporre i giovani all'attualità del tema trattato.
E' un grande affresco storico, scritto attraverso una meditata e scrupolosa documentazione sulle origini familiari dello stesso autore, di cui il Principe protagonista della vicenda fu un illustre ascendente. Lo stesso titolo, "Il Gattopardo" riguarda lo stemma che rappresenta la famiglia dei Tomasi, anche se involontariamente, e in seguìto anche alla popolarità del film, qualcuno ne trasse interpretazioni più metaforiche e politiche. Nel 1963, Luchino Visconti decise di trarre un film dal celebre romanzo.

La storia si svolge in Sicilia tra il 1860, anno della spedizione dei Mille di Garibaldi, e il 1910.
Don Fabrizio Corbera, Principe di Casa Salina (Burt Lancaster nel film), uomo affascinato dall'astronomia e della matematica, sposato e padre di sette figli, assiste alle brusche mutazioni sociali e, quando Garibaldini e Piemontesi assaltano Palermo, alla fine del suo Regno. Molti si appropriano indebitamente di questo clima Rivoluzionario, a cominciare dall'amato nipote Tancredi, che cerca di convincere lo zio ad appoggiare la sua causa, ma i moti rivoluzionari di Palermo, con le truppe che assediano la città fino a ridurla in cenere, costringono la famiglia Salina a temporeggiare nella dimora estiva, a Donnafugata, nel Ragusano. Nella cittadina Don Fabrizio scopre che un uomo "del popolo", rozzo e poco istruito, ma soprattutto poco affidabile, Don Calogero (Paolo Stoppa), è diventato Sindaco della città.
L'uomo presenta al Principe la bellissima figlia Angelica (Claudia Cardinale), che viene ben presto attratta dal bel Tancredi il quale - già promesso sposo di Mafalda - si invanghisce a sua volta di lei.
Se Don Calogero è un uomo losco per il quale Don Fabrizio non prova alcuna simpatia, l'occasione di far sposare il nipote con la figlia dell'uomo si rivela invitante: venuto a conoscenza degli averi del rivale da parte del servitore Ciccio (Serge Reggiani) e innamorato segretamente di Angelica, Don Fabrizio decide di intercedere presso il padre di lei per combinare un matrimonio storicamente rilevante tra il nobile neo-rivoluzionario Tancredi e la figlia di un neo-borghese.
Del resto lo stesso Tancredi, fedele alla trasformazione culturale e politica in atto, diventa ufficiale e mette in discussione i suoi princìpi tardo-.rivoluzionari arrivando a compiacersi dell'esecuzione di alcuni disertori ("Una volta non avresti mai parlato così" lo sconfessa la delusa e disperata Mafalda in lacrime).
A detta del Principe, benchè titubante e confuso ("Un cavallo tra due pugni, e a disagio in tutti e due") questo "compromesso" s'ha da fare, cercando di riabilitare questa falsa certezza con la speranza illusoria e l'amarezza di una Resa alla Modernità vigente.
Don Fabrizio dimostra poca fiducia nel futuro della "sua" Terra ("Non vorranno mai migliorare perchè si considerano perfetti. La loro viltà prevale sulla miseria"), e poco propenso a partecipare al radicale Cambiamento all'indomani dell'Unità d'Italia.
Deluso dalla moglie e dal Presente storico e politico della Sicilia, ciononostante egli si adatta, ma arriva a rifiutare orgogliosamente il ruolo di Senatore del Regno d'Italia propostogli da un funzionario Piemontese, il Cavaliere Chevalley. Al suo posto, guardacaso, viene chiamato proprio il sempre più ambizioso e incoerente nipote Tancredi.
Il giorno del fidanzamento annunciato si prepara un fastoso Ricevimento, che ha il suo clou in un'interminabile e fastoso ballo collettivo: nel Rituale, che Visconti ricostruisce con assoluta precisione e rigore estetico, Don Fabrizio è diviso tra il desiderio di festeggiare come gli altri, e una certa, profonda, amarezza esistenziale.
Quando Angelica chiede allo "zio" il permesso di ballare un waltzer con lui, l'uomo si dimostra chiaramente commosso e accetta volentieri. Poco dopo, davanti al nipote Tancredi visibilmente geloso, non nasconde di amarla veramente. Quindi, nuovamente illuso, cerca di estraniarsi dalla folla e dal clima festoso, comprendendo che "proprio quello che ci voleva per la Sicilia" - secondo le parole di Don Calogero - non è esattamente il suo pensiero.

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giovedì 9 agosto 2007

Recensione THE ADDICTION

Recensione the addiction




Regia di Abel Ferrara con Christopher Walken, Paul Calderon, Lilli Taylor, Annabella Sciorra, Edie Falco, Kathryn Erbe, Michael Imperioli

Recensione a cura di fidelio.78 (voto: 8,5)

Abel Ferrara fin dai primi anni '90 aveva affrontato la poetica della disperazione e del male con due ottimi film, "King of NY" e "Il cattivo tenente"; se nel secondo di questi il lato autodistruttivo passava direttamente per l'iconografia cattolica, nel primo il lato vampiresco della realtà umana aveva già fatto una, seppur rapida, apparizione. Il protagonista Cristopher Walken aveva una natura spettrale, un pallore vampiresco, e tale aspetto era sottolineato anche dalla scena in cui un boss cinese guardava incantato il "Nosferatu" di Murnau.
Quella che poteva sembrare una semplice citazione si rivelò, a distanza di quasi cinque anni, un preludio per questo "The addiction", in cui il genere vampiresco viene elevato inserendo un significato sociale e politico dietro i "mostri", allontanandosi così dalla moda degli horror truculenti di quegli anni per tornare verso lo stile di Romero, inchinandosi più di una volta al suo grande film "La notte dei morti viventi".

Kathleen Conklin è una giovane studentessa di filosofia che si interroga sui problemi morali del genere umano. Una sera, mentre torna a casa, viene aggredita da una strana creatura che le succhia il sangue. Da questo evento dinamico il morbo del vampirismo si fa strada dentro di lei costringendola a fare i conti con la sua natura più nascosta.

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lunedì 6 agosto 2007

Recensione CONCORRENZA SLEALE

Recensione concorrenza sleale




Regia di Ettore Scola con Diego Abatantuono, Sergio Castellitto, Sabrina Impacciatore, Gioia Spaziani, Paola Giannetti, Augusto Fornari, Giorgio Colangeli, Walter Dragonetti, Simone Ascani, Elio Germano

Recensione a cura di peucezia

Uscito nel 2001, il film, regia di Ettore Scola ("Una giornata particolare", "La famiglia", "C'eravamo tanto amati"), si ricollega al discorso di denuncia sociale e di rivisitazione storica da sempre caro al regista.

La storia è ambientata in una strada del centro di Roma, interamente ricostruita negli studi di posa e nelle abitazioni prospicienti, ed analizza con un occhio attento ma forse troppo benevolo le conseguenze del patto stretto tra Hitler e Mussolini nel 1938.
Voce narrante dell'intreccio è quella di un bambino che con occhi innocenti e totalmente inconsapevoli descrive gli eventi senza darne eccessivo risalto; ma il vero nucleo della vicenda è dato dai continui battibecchi tra Diego Abatantuono e Sergio Castellitto, ariano il primo, ebreo l'altro, commercianti rivali. I loro litigi da nemici-amici fanno rivivere i contrasti alla Fabrizi-Totò, a cui i due attori somigliano per stazza. Gli altri attori sono tutti ottimi caratteristi: da Bigagli, commissario di polizia dal fraseggio magniloquente, alla servetta veneta Collodel alla commessa bruttina Impacciatore, tutti fanno il proprio dovere in maniera impeccabile nonostante il taglio un po' troppo televisivo dell'intera storia.
Scola fa del suo meglio e la pellicola è senza dubbio dignitosa, scorrevole e senza sbavature, però purtroppo duole dire che è nel pieno stile dell'attuale cinematografia italiana, troppo piegata ad un'impostazione televisiva nelle riprese e nella recitazione degli attori.

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