venerdì 28 novembre 2008

Recensione NESSUNA VERITA'

Recensione nessuna verita'




Regia di Ridley Scott con Leonardo Di Caprio, Russell Crowe, Carice van Houten, Michael Gaston, Vince Colosimo, Alon Abutbul, Clara Khoury, Jamil Khoury, Shredi Jabarin

Recensione a cura di peter-ray (voto: 5,5)

Roger Ferris e Ed Hoffman,i due protagonisti di questo film, sono due Spie americane che, in territorio mediorientale, cercano informazioni per sventare i piani terroristici di Al Qaeda.
Roger è l'uomo d'azione, la pedina o per meglio dire "quello che fa il lavoro sporco". Giovane e determinato, con il vantaggio di conoscere la lingua araba, viene sguinzagliato sul territorio armato di pistola e carta bianca per raggiungere di volta in volta gli obiettivi prefissati. Ed invece è la mente, il coordinatore o per meglio dire "lo stratega"; con il colletto bianco e l'auricolare impartisce gli ordini e tiene sotto controllo la situazione con i falchi dello spazio dall'alto dei cieli.

Il film di Ridley Scott prova a congiungere azione e riflessione in un unico contenitore, assemblando una spy story che ritrae la complessità del mondo moderno.
La sceneggiatura è tratta dal libro "Body of Lies" di David Ignatius, ma ciononostante la rappresentazione cinematografica si presenta molto simile ad altre pellicole che affrontano lo stesso tema; in particolare si può notare la somiglianza dello schema narrativo di "Spy Game" del fratello Tony; è sufficiente fare una trasposizione degli attori protagonisti dei due film (Di Caprio/Brad Pitt e Russell Crowe/Robert Redford).
La descrizione dei personaggi di Hoffman, Ferris e del giordano Hani è molto dettagliata e ritrae efficacemente, nel rispettivo profilo, i diversi punti di vista morali di ciascuno.
Mentre Hani si preoccupa prevalentemente del controllo feudale del suo territorio, Hoffman, aspira al controllo assoluto globale dall'alto dei suoi satelliti e, in contrapposizione, abbiamo Ferris; il "soldato in trincea", l'idealista che approdando direttamente sul territorio nemico tra la verità e la menzogna è in cerca di giustizia.

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Recensione QUATTRO MATRIMONI E UN FUNERALE

Recensione quattro matrimoni e un funerale




Regia di Mike Newell con Hugh Grant, Andie MacDowell, Kristin Scott Thomas, Simon Callow, Anna Chancellor

Recensione a cura di Debora P.

Quattro matrimoni e un funerale è stato giudicato come uno dei film meglio riusciti della produzione britannica e, probabilmente, il merito va alla sua originalissima sceneggiatura. Uscita nel 1994, questa brillante commedia romantica vede come protagonisti l'impacciato ragazzo inglese Charles, il suo "variopinto" gruppo di amici e Carrie, la scaltra americana di cui si innamora. Le vicende si srotolano in contesti ben precisi: quattro cerimonie nuziali ed un rito funebre, come si può palesemente dedurre dal titolo.

Il regista Mike Newell ha saputo donare a ciascun personaggio una propria personalità ben definita; ad esempio gli amici di Charles possiedono tutti un particolare estro che affascina lo spettatore: dalla profonda umanità di un omosessuale alla sincerità sfacciata di un sordomuto, tutti riescono a trovare un posto da "protagonista" nella storia.
Hugh Grant, reso famoso proprio dal personaggio di Charles, dovrebbe essere l'attore centrale, colui al quale tutto accade, ma in realtà rappresenta il punto di osservazione dei continui eventi che si susseguono; la sua infatuazione nei confronti dell'affascinante Carrie, interpretata da Andie MacDowell, fa "solo" da contorno.

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giovedì 27 novembre 2008

Recensione CHANGELING

Recensione changeling




Regia di Clint Eastwood con Angelina Jolie, John Malkovich, Amy Ryan, Geoff Pierson, Jeffrey Donovan, Jason Butler Harner, Michael Kelly, Gattlin Griffith

Recensione a cura di Giordano Biagio (voto: 8,0)

"Changeling" (traducibile, con buona approssimazione, con "scambio di bambini") è un film tipicamente holliwoodiano, di vecchio stampo, modernizzato dall'applicazione dei grandi mezzi tecnologici di oggi che riescono a dare alla pellicola uno stile di immagine inedito, irripetibile, immettendo nelle scene quasi ogni angolo della realtà ripresa, grazie agli innumerevoli punti di osservazione delle telecamere che sezionano ogni aspetto del mondo reale.
Per questo film è facile prevedere grandi premi, sia in virtù degli ingredienti che caratterizzano la pellicola, sempre ben dosati, sia per la bravura del regista americano.
Clint Eastwood, come sempre originale e ricco di idee, conferma il suo interesse cinematografico per la vita del singolo cittadino americano, ed in particolare per quella parte della sua esistenza che a un certo punto si piega verso il dramma. Quello che Eastwood ama riprendere nei suoi film è un cittadino americano colpito da gravi sfortune, eppure combattivo, che nonostante la pesantezza degli situazioni subite riesce ad avere ancora fiducia nella legge e nelle istituzioni, finendo in alcuni casi per contribuire, insieme ad altri cittadini, alla pulizia dei luoghi sporchi dei dipartimenti di polizia e delle amministrazioni comunali americane.

Il regista statunitense dimostra ancora una volta il suo particolare talento per la narrazione filmica a tensioni estreme, legate ad un accaduto vero, significativo, svelatore di una realtà problematica più ampia. Eastwood racconta con disinvoltura provocatoria storie raccapriccianti che fanno riflettere sull'America democratica di ieri, costringendoci a ripensare anche a quella di oggi; è capace come pochi, e "Changeling" lo dimostra ancora una volta, a comporre insieme spettacolo e contenuti, basandosi su storie di un certo spessore non sempre ben garantite dal mercato; e lo fa suscitando emozioni nuove, mai provate prima, perché il suo modo di narrare è denudato da ogni retorica giornalistica o influenza mediatica.
Il pistolero senza nome di "Per un pugno di dollari" oggi è un conosciutissimo cittadino per bene, incapace di ironia ed umorismo se non nelle cerimonie dei premi, ostinato nel prendersi sempre sul serio in nome dell'etica in cui crede, capace di offrire impegno e sensibilità come pochi altri nella costruzione dei film di denuncia. I suoi film, a differenza delle pellicole europee dello stesso genere, non annoiano, non hanno mai grossi cali di tensione nella narrazione.
Lo stile di Eastwood rimane inconfondibile, la coerenza comunicativa delle sue immagini è frutto di un montaggio sopra le righe, che unito al taglio un po' gesuitico dei dialoghi, rende le sue opere ben contrastate e ricche di messaggi autorevoli, dandoci delle scene forti e credibili che ruotano, prive di giochi di suggestione, intorno ai poteri più oscuri presenti negli ingranaggi della democrazia americana.

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Recensione RIPARO - ANIS TRA DI NOI

Recensione riparo - anis tra di noi




Regia di Marco Simon Puccioni con Maria de Medeiros, Antonia Liskova, Mounir Ouadi, Vitaliano Trevisan, Gisella Burinato

Recensione a cura di peucezia (voto: 7,0)

Nord-est italiano: insolita storia d'amore con terzo incomodo tra due donne ed un giovanissimo extracomunitario.
La pellicola di Puccioni, regista alternativo non nuovo a declinare love story "diverse" potrebbe a prima vista essere sintetizzata in questo modo, tout court, tralasciando le dinamiche che intercorrono tra i tre personaggi e il mondo circostante, dinamiche che cambieranno le loro vite radicalmente.

La "coppia" di giovani donne prima dell'arrivo dell'altro vive un ménage apparentemente tranquillo. La prima, Anna, è comproprietaria insieme al resto della famiglia di una azienda calzaturiera; appartiene quindi alla parte agiata dell'Italia nord-orientale, quella che si è fatta da sola e che vuole mantenere i privilegi acquisiti con fatica e sudore; l'altra, Mara, è invece una sua operaia, nevrotica e proletaria, con alla spalle una storia matrimoniale fallita fatta di violenze e con un padre gravemente ammalato che rifiuta pesantemente la sua nuova scelta di vita; Anis, l'extracomunitario, è un adolescente cresciuto in una cultura diversa, in cui l'uomo è dominante; vorrebbe lavorare, vorrebbe cambiare la strana situazione in cui si è venuto a trovare suo malgrado e di fatto è lui che scalfisce l'apparente equilibrio tra le due donne.

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martedì 25 novembre 2008

Recensione ORDET

Recensione ordet




Regia di Carl Theodor Dreyer con Ann Elisabeth Rud, Birgitte Federspiel, Henrik Malberg, Preben Lendorff Rye

Recensione a cura di Gabriele Nasisi

Nell'arco di una intera giornata, nella fattoria dei Borgen si intrecciano le vite di vari personaggi che discutono soprattutto di religione. Ma su uno di loro viene pronunciata una profezia di morte.

Ordet di Kaj Munk

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venerdì 21 novembre 2008

Recensione GRAZIE, SIGNORA THATCHER

Recensione grazie, signora thatcher




Regia di Mark Herman con Ewan McGregor, Tara Fitzgerald, Ronnie Stevens

Recensione a cura di Mimmot

Una delle principali attività economiche inglesi è stata per secoli l'estrazione del carbone, che ha dato lavoro a intere generazioni di lavoratori ed è stata, tra la fine del 700 e l'inizio dell'800, insieme alla macchina a vapore, uno dei principali fattori che hanno contribuito allo sviluppo industriale del paese, provocando cambiamenti in tutti gli aspetti della vita umana e la nascita dell'industria moderna.
Una rivoluzione tecnologica che ha comportato trasformazioni sociali ed economiche profonde, sempre più rapide ed in continua evoluzione, facendo dell'Inghilterra una potenza mercantile, marittima, coloniale e militare solida e temuta in tutto il mondo.
Tutto questo fino a quando, nel 1985, la politica economica, liberista ed antisindacale, attuata dal governo conservatore del primo ministro, signora Margareth Thatcher, non ha avviato un processo di smantellamento dell'industra carbonifera, provocando la chiusura selvaggia di oltre 140 miniere e, conseguentemente, la perdita del posto di lavoro per oltre 250.000 minatori.

Il piccolo capolavoro di Mark Herman narra, appunto, la storia (o un campionario di storie) di un gruppo di questi "umiliati ed offesi" che persero il posto e la dignità, con conseguenze devastanti per le persone e le loro famiglie.
Siamo nel 1989 nel villaggio di Grimley, nello Yorkshire, (una cittadina inesistente, immaginata da Herman come emblema e simbolo di tutte le cittadine del Nord dell'Inghilterra e del Galles che subirono le "cure" della Lady di ferro), in cui, dopo decenni di modesto benessere, dovuto allo sfruttamento della locale miniera di carbone, improvvisamente, sconsideratamente e cinicamente, intere famiglie si ritrovano gettate sul lastrico dalla dissennata politica governativa (da qui l'ironico titolo italiano "Grazie, signora Thatcher"; mentre il titolo originale inglese, "Brassed Off", significa letteralmente "cacciati via", ma allude anche agli ottoni, lo strumento principe della banda musicale di Grimley).
Lo sciopero dei minatori del 1984 è solo un brutto ricordo, ma non per gli abitanti di Grimley, che vivono sulla loro pelle le conseguenze della politica della signora Thatcher e si aggrappano a quelle miniera che, per quanto ancora produttiva, è considerata obsoleta ed antieconomica e, quindi, destinata a scomparire.
Per gli uomini le giornate a Grimley trascorrono tra il lavoro in miniera e le serate al pub con gli amici a bere una birra, ma sono le prove della banda musicale che determinano le maggiori soddisfazioni per quegli uomini; perchè per loro, alle soglie del licenziamento, la musica rimane lo spirito che sostiene il gruppo e l'unico antitoda alla depressione e allo sconforto.
Accanto alle lotte delle donne per evitare la chiusura della miniera, la Grimley Colliery Band rappresenta l'ultimo baluardo di una smarrita autostima, ma anche la forza dell'intero gruppo e l'espressione più autentica tra la dimensione lavorativa e la dimensione ludica dell'intera comunità che, nonostante tutto, ha ancora la forza di un sogno di riscatto che li porterà a farsi "sentire" a Londra, non solo con la forza degli ottoni ma anche con la forza della parola che dà corpo e voce ai drammi della disoccupazione, simili ai molti drammi che, ancora oggi, si consumano ogni giorno.

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mercoledì 19 novembre 2008

Recensione VIALE DEL TRAMONTO

Recensione viale del tramonto




Regia di Billy Wilder con William Holden, Gloria Swanson, Erich von Stroheim, Nancy Olson, Fred Clark, Lloyd Gough, Jack Webb, Cecil B. DeMille

Recensione a cura di Giordano Biagio

"Viale del tramonto", uscito nel 1950, è uno splendido film dalle venature noir in bianco e nero, scritto e diretto dal grande e indimenticabile regista austriaco Billy Wilder; sicuramente è l'opera cinematografica che con più potenza nella storia del cinema è riuscita a rappresentare il dramma e la tragedia di alcune star del muto degli anni '20, protagoniste e vittime nello stesso tempo di un successo mondiale esaltante, unico, che all'improvviso, per l'irruzione di nuove tecnologie, si dissolveva nel nulla, lasciando solo ossessioni, ricordi e dorate immagini di vita prigioniere di un passato fragile, barrato dal tempo, incapace di ricomporsi con il presente.

Negli anni '20 e '30, con il passaggio dal muto al sonoro, l'industria del cinema costringeva molti suoi interpreti a lunghe riqualificazioni professionali che non sempre erano accolte positivamente dagli attori, che si vedevano costretti ad apprendere velocemente modi di recitazione del tutto nuovi, rivoluzionari, a causa dei quali i risultati ottenuti dalle vecchie star potevano essere inferiori a quelli conseguiti da attori sconosciuti.
Le attrici di successo, orgogliose per la notorietà acquisita con i metodi tradizionali, si sentivano mortificate dal dover intraprendere un percorso formativo pieno di incognite, che portava lontano da quanto già appreso prima nell'arte cinematografica. Alcune, forse le più sensibili, decidevano di abbandonare definitivamente il cinema, scivolando inevitabilmente nel dimenticatoio o in gravi forme di paranoia.
L'anonimato in cui precipitavano certi illustri personaggi della celluloide diveniva col passare del tempo fonte di frustrazione e di patologie psichiche anche gravi, costringendo gli attori a comportamenti non del tutto razionali, a volte addirittura controproducenti perché segnati da una oscura violenza verso se stessi.
Frequenti e rumorose erano le loro uscite pubbliche sotto il segno del protagonismo, con al centro vistosi scenari, eclatanti affermazioni, scene trasgressive e scandalose, capaci in qualche modo di richiamare l'attenzione dei media e dei giornalisti su di sé, facilitando il ritorno alla notorietà.

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venerdì 14 novembre 2008

Recensione AWAKE - ANESTESIA COSCIENTE

Recensione awake - anestesia cosciente




Regia di Joby Harold con Hayden Christensen, Jessica Alba, Terrence Howard, Lena Olin

Recensione a cura di peter-ray (voto: 4,5)

Clayton, giovane manager con una promettente carriera all'orizzonte già avviata, è malato di cuore ed è in attesa di un organo sano che lo possa guarire. Da sei mesi circa ha una relazione con la bellissima Sam, che per motivi familiari e professionali decide di mantenere segreta. Si affida quindi al suo medico di fiducia per tentare un trapianto di cuore; questi gli spiegherà i rischi che dovrà correre con l'intervento e, da buon amico, gli consiglierà di vivere al meglio il suo tempo suggerendogli addirittura di rivelare la sua relazione alla madre e di sposare Sam.
Finalmente una buona notizia; il tanto atteso organo vitale è disponibile e si può procedere al trapianto. In sala operatoria Clay viene addormentato, ma inaspettatamente si ritrova in uno stato di consapevolezza anestetica. Disteso sul tavolo operatorio e immobilizzato, assisterà impotente all'intero intervento e cercherà di trovare, attraverso i meandri della sua mente, un modo per sfuggire al dolore fisico, ma, nel limbo, andrà incontro ad altre scoperte più dolorose.

I fratelli Weinstein, dopo l'esperienza di "Pulse" hanno deciso ancora una volta con "Awake - Anestesia Cosciente" di affidare una produzione cinematografica a un giovane regista alle prime armi per poter controllare ogni aspetto del progetto. Il risultato è un ennesimo prodotto destinato ad una breve vita in sala per poi prendere l'anticamera del dimenticatoio presso i videonoleggi. Il neoregista, in un epoca in cui va di moda la frenesia caratterizzata da inquadrature e carrellate traballanti, offre in controtendenza uno stile registico "televisivo", ed essendo anche lui stesso lo sceneggiatore, sviluppa una trama vagamente new age proponendo aspetti alterni tra lo psicologico e il metafisico; ma non è questo il punto. Il problema di fondo di questo film è nell'idea di base che, pur essendo di per sé interessante, viene quasi interamente plasmata da un banale e scontato intreccio drammatico tessendo la tela di un ennesimo complotto di famiglia che, per lo stile registico proposto, neutralizza quasi interamente l'effetto thriller per dare spazio all'effetto soap opera, offuscando così altri aspetti interessanti che la pellicola inizialmente tentava di offrire.

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giovedì 13 novembre 2008

Recensione IL PROCESSO

Recensione il processo




Regia di Orson Welles con Anthony Perkins, Jeanne Moreau, Romy Schneider, Orson Welles

Recensione a cura di ULTRAVIOLENCE78 (voto: 8,5)

Quando Orson Welles decide di intraprendere la ambiziosa lavorazione de "Il processo" è già da tempo fuori dal sistema hollywoodiano della produzione, considerato da lui troppo mediocre per sostenere progetti di un notevole peso artistico e culturale; dopo il fallimento commerciale di "Macbeth" nessun produttore americano, infatti, è disposto ad investire un soldo nelle sue opere.

È il 1962 quando il regista di Kenosha inizia a lavorare sulla ardita e improba traduzione cinematografica di uno dei più cruciali e complessi romanzi del novecento: "Il processo" di Franz Kafka. Il film viene girato soprattutto in Francia ed in Iugoslavia, ma alcune sequenze sono ambientate al Palazzo di giustizia di Roma - noto col nome di "Palazzaccio" - che si prestava alla "mise-en-scene" per la sua imponente struttura. Il budget della produzione è esiguo, ma nonostante la scarsità di risorse finanziarie, Welles ha la possibilità di godere di quella necessaria libertà artistica, che invece le restrizioni della RKO - una delle major americane, tra gli anni '30 e '50, nel campo della industria cinematografica - gli impedivano di avere.

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lunedì 10 novembre 2008

Recensione LA BANDA BAADER MEINHOF

Recensione la banda baader meinhof




Regia di Uli Edel con Martina Gedeck, Moritz Bleibtreu, Bruno Ganz, Johanna Wokalek, Alexandra Maria Lara, Jan Josef Liefers, Heino Ferch, Nadja Uhl, Hannah Herzsprung, Niels Bruno Schmidt, Stipe Erceg, Hans-Werner Meyer

Recensione a cura di The Gaunt (voto: 7,0)

Il 2 giugno 1967 il movimento studentesco organizza una manifestazione pacifica contro lo Scià di Persia ed il suo regime in Iran, mentre si trova in visita di Stato nella Germania Federale. A fianco di questa manifestazione un gruppo di provocatori inneggia al monarca iraniano ma, al momento del suo passaggio, si scaglia duramente contro la folla di manifestanti armato di bastoni, sotto gli occhi della polizia che non reagisce minimamente, ma caricando essa stessa i dimostranti a manganellate e getti d'acqua dagli idranti. Durante gli scontri uno studente, Benno Ohnesorg, viene ucciso da un colpo di pistola di un poliziotto. Tale episodio rappresenta la molla per Andreas Baader e la sua compagna Gudrun Ensslin ad intraprendere la lotta armata fondando il Movimento 2 Giugno, primo gruppo terroristico della storia tedesco-occidentale e, successivamente, con l'ingresso di Ulrike Meinhoff, ribattezzato definitivamente RAF ("Rote Armee Fraktion" ? "Frazione dell'Armata Rossa").
Tratto dal libro di Stefan Aust (anche co-sceneggiatore della pellicola) intitolato Der Baader Meinhof Komplex, il film di Uli Edel, noto in Italia soprattutto per "Christiane F.- Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino", ne ripercorre le gesta per i successivi dieci anni fino al 1977, anno del rapimento e dell'uccisione del presidente dell'associazione industriali tedesca, Hans Martin Schleyer.
Il film è una scansione temporale degli avvenimenti che insanguinarono la Germania Federale per tutto il decennio degli anni '70, anni in cui il riflusso delle proteste operate dal movimento studentesco alla fine degli anni sessanta, crearono la coltura per la radicalizzazione dello scontro sociale e politico da parte di "cellule" impazzite (come la RAF) ormai dominate da un'ideologia che, seppur basandosi su temi oggettivamente più che condivisibili da una parte, dall'altra vengono penalizzati dalla scelta univoca della lotta armata come unico rimedio di contrasto verso lo Stato e le sue istituzioni.

Ulrike Meinhof (interpretata da Martina Gedeck) è il personaggio su cui si sofferma maggiormente il regista: dentro di lei ci sono tutte le frustrazioni dei sogni infranti, delle speranze deluse di un cambiamento della società tedesca, combattuta in un primo tempo con la penna sulle pagine del giornale Konkret e sugli schermi televisivi dei dibattiti dell'epoca. Era una giornalista affermata e rispettata prima di entrare in clandestinità e di intraprendere la lotta armata, divenendo ben presto l'ideologa della RAF.
Una scelta così radicale però, comporta un prezzo troppo alto da pagare ed il regista lo fa vedere chiaramente nei disagi dovuti alla vita clandestina, dal vivere costantemente braccati unita al dolore della perdita di ogni contatto familiare con le sue due figlie. Inoltre il curioso rapporto amore-odio con Gudrun Ensslin è per lei un continuo pungolo per lasciarsi dietro quella patina di "combattente da salotto" che quest'ultima le rimprovera in continuazione.
Ben presto l'ideologia diventerà una prigione da cui non potrà più liberarsi; il fardello sarà sempre più pesante e allo stesso tempo un calice amaro da bere sino in fondo, fino alle estreme conseguenze del suicidio. Il regista sposa in maniera apparente la verità ufficiale del governo: la Meinhof fu trovata impiccata con un paio di calze nella sua cella del carcere di massima sicurezza di Stammheim, a Stoccarda, nel quale si svolgeva il processo ai capi della Banda Badeer-Meinhof, ma come parte della opinione pubblica tedesca di allora, lascia spazio in maniera sottintesa anche all'ipotesi che lo Stato abbia "suicidato" la mente ideologica della RAF. Una scelta o forse una licenza che il regista si è concesso per una rappresentazione più coerente dei personaggi, uomini e donne votati ad un idealismo radicale senza ormai controllo.
Proprio questa centralità del personaggio della Meinhof fa da contraltare ad una rappresentazione abbastanza didascalica degli altri due membri del nucleo storico della RAF, Andreas Baader e Gudrun Ensslin. Il primo (interpretato da Moritz Bleibtreu) viene rappresentato in una veste di puro uomo d'azione, dall'atteggiamento piuttosto guascone, capace però di scatenarsi in gesti di violenza insensata come si conviene ad un vero "braccio armato". Poco si sa del suo passato, l'unica cosa che il film ci rivela è che ha una figlia. Anche Gudrun Elssin (Johanna Wokalek) ci appare come un personaggio contradditorio: ragazza sfrontata, apparentemente sicura di sé, proclama di odiare il capitalismo e il cosiddetto "Stato maiale", ma ne subisce in fondo una certa fascinazione, considerate le circostanze del suo arresto all'interno di una boutique alla moda.
Anch'essi seguirono la stessa tragica sorte della Meinhof.

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Recensione DRACULA CERCA SANGUE DI VERGINE... E MORI' DI SETE

Recensione dracula cerca sangue di vergine... e mori' di sete




Regia di Paul Morrissey, Anthony M. Dawson (Antonio Margheriti) con Joe Dallesandro, Udo Kier, Arno Juerging, Vittorio De Sica

Recensione a cura di kowalsky (voto: 8,0)

Morrissey non è l'ex-leader degli Smiths, una delle band fondamentali degli anni '80, nonché uno dei più amati musicisti inglesi, anche se un legame con l'ononimo cineasta della Factory c'è: fu proprio il volto di Joe Dallesandro nel suo "Flesh" (1968) ad essere immortalato nella copertina dell'album d'esordio della band.
L'esilio italiano del regista (sua, appunto, la memorabile trilogia con il già citato "Flesh" e, a seguìre, "Trash" - 1970 - e "Heat", 1971) coincide ironicamente con la trama di questo film, per motivazioni ben diverse da quelle che invogliano il conte Dracula a trasferirsi nel nostro Paese.
Si trattò, allora, di un accordo produttivo con Carlo Ponti, che permise alla Factory di Andy Warhol di trasferirsi in Italia per realizzare due opere dedicate alle più famose icone horror del cinema: Frankenstein ("Il mostro è in tavola...Barone Frankenstein", 1973) e Dracula.
È come se Morrissey, ormai lontano dalle sperimentazioni degli esordi, avesse trovato una nuova strada artistica proprio nei sottogeneri del cinema italiano, nei b-movies horror, e anche nell'estetica glamour del cinema erotico europeo (di cui il film trasuda una certa patina sexy), in definitiva nel grand-guignol e negli eccessi dei film di genere: in un certo senso egli ha attinto non propriamente dal sangue come l'assetato conte, ma dal torbido kitsch del nostro cinema, quello che - volenti o nolenti - consentirà alla ditta Warholiana di esprimere compiutamente e in piena libertà il proprio linguaggio cinematografico.
Il risultato è esaltante e difettoso allo stesso tempo, perchè mai come in questi film è concesso esprimere se stessi sia davanti a geniali trovate visive e tecniche sia attraverso incombenti cadute di tono.
È questo il segreto, forse, per cui il film di genere conosce oggi, tardivamente, una rivalutazione generale.
Lo sforzo produttivo vede alla regia Paul Morrissey, ma nella versione italiana è accreditato il celebre Antonio Margheriti (certe intuizioni formali, come il finale del film, fanno pensare che ci sia la sua mano, ma non è detto che sia la verità). E lo stesso Warhol è "quasi" un terzo regista, lontano dalla macchina da presa per evidenti timori personali (in riferimento all'attentato alla sua vita ad opera di Valerie Solanas) eppure capace di marchiare a fondo con la sua presenza/assenza lo svolgimento del film (in particolare certi dialoghi eccentrici).

"Blood for Dracula" (o anche "Andy Warhol's Dracula", o "Andy Warhol's young Dracula" e "Dracula ha sete: cerca sangue di vergine", fino al definitivo titolo italiano "Dracula cerca sangue di vergine e... morì di sete") è in realtà un film che incanta e stupisce per la sua incomprensibile bellezza: originariamente e frettolosamente inserito come "parodia horror" rivela a poco a poco una capacità di "fusione" (di generi o di immagini sul tenebroso conte rumeno) che lascia interdetti.

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giovedì 6 novembre 2008

Recensione VICKY CRISTINA BARCELONA

Recensione vicky cristina barcelona




Regia di Woody Allen con Scarlett Johansson, Javier Bardem, Penelope Cruz, Patricia Clarkson, Kevin Dunn, Rebecca Hall, Pablo Schreiber, Carrie Preston

Recensione a cura di GiorgioVillosio

Due amiche americane, in vacanza a Barcellona, si contendono un amante spagnolo, alla scoperta dell'amore; lo contendono però anche alla ex moglie separata, che l'uomo non riesce a rimuovere.
Il tutto finirà per rientrare nella più assoluta normalità.

È davvero sorprendente la capacità del grande Woody Allen di sopravvivere a se stesso, rinnovandosi di continuo, anche a parità di tematiche: nessuno potrà terminare la visione di questo film rimproverandogli di raccontare sempre le stesse storie, sull'amore e sulle donne. Né si potrà rimprovare ad Allen di essersi annoiati, stante la brillantezza, l'ironia e l'estemporaneità delle vicende e dei personaggi, solo in apparenza sempre uguali a se stessi ma, in realtà approfonditi in ogni sfaccettatura, sotto angoli di visuale sempre diversi. Il risultato è quello di una percezione del profondo e di una speculazione sull'umano che è proprio solo della psicologia pura, o del grande pensiero filosofico.
Tanto acume deriva certamente al magistrale Woody Allen dalle sue origini ebraiche, ma pure forse da un dato anagrafico: dall'esperienza umana di chi abbia circumnavigato l'orbe terracqueo, e, a chiusura del suo ciclo, tiri certe somme in modo definitivo, lasciando una traccia del passaggio terreno con la sua interpretazione del mondo.

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Recensione C'E' POSTA PER TE

Recensione c'e' posta per te




Regia di Nora Ephron con Meg Ryan, Tom Hanks, Parker Posey, Greg Kinnear, Jean Stapleton

Recensione a cura di vally80

Ci si può innamorare via etere?
La risposta, oggi, non può che essere affermativa, ed è infatti quello che succede a Joe (Tom Hanks) e Kathleen (Meg Ryan) in questa commedia frizzante e romantica tipica di Nora Ephron, che già aveva diretto i due attori nella altrettanto romantica commedia "Insonnia d'amore".

A fare da sfondo a questa storia è l'immensa città di New York durante il periodo natalizio; una città che attende la notte di Natale con mille luci, addobbi luccicanti ed immensi alberi scintillanti che si intravedono dalle finestre delle case e dei negozi. Dietro l'angolo di un palazzo c'è una piccola libreria per bambini appartenuta alla madre di Kathleen, dove i bimbi si recano per ascoltare fantastiche storie di fate, di draghi, di principi e di principesse. C'è un piccolo problema però, perchè di fronte alla piccola libreria dietro l'angolo sta per aprire un bookstore immenso che appartiene alla grande catena della Fox, la famiglia di Joe.
I nostri protagonisti non si sono mai visti ma si odiano cordialmente: hanno due vite completamente diverse, hanno rispettivamente un fidanzato e una fidanzata, ma ad un certo punto la loro vita cambia: navigando nel cyberspazio e con un semplice click s'incontrano, e nasce tra i due un intenso scambio di e-mail, pur essendo ciascuno dei due all'oscuro circa l'identità dell'altro.
Ha quindi inizio un susseguirsi di episodi esilaranti ma anche di fallimenti, come quello che investirà la piccola libreria che Kathleen purtroppo dovrà chiudere.
Alla fine i due decidono di darsi un appuntamento al quale però Joe non si presenta.
A causa di un piccolo equivoco, Joe scoprirà la vera identità della sua corrispondente e farà di tutto per risollevare la sua situazione, capendo di essersene innamorato.

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