Regia di
Joshua Oppenheimer con -
Recensione a cura di The Gaunt (voto: 8,5)
Indonesia 1965: un colpo di stato militare rovescia il governo di Sukarno e pone al comando il tenente-Generale Suharto. Un colpo di stato favorito dalle potenze occidentali, Stati Uniti in primis, timorosi di una deriva comunista del governo in carica, visto gli approcci verso nazioni come Unione Sovietica e Cina. Nelle fasi successive, come in tanti colpi stato, ci fu un repulisti generale, purghe che colpirono svariati apparati dello stato in funzione anticomunista e soprattutto fra la popolazione civile con la soppressione di partiti e sindacati.
Questo è un resoconto scarno ed essenziale degli avvenimenti accaduti in Indonesia tra il 1965 ed il 1966, non dissimili da altri. Le dinamiche dei colpi di Stato prevedono sempre delle fasi standard e, agli occhi della gente comune, si tende a non fare eccessive distinzioni. Fino a pochi decenni fa notizie di questo tipo erano talmente all'ordine del giorno che non ci si faceva più caso. Nazioni africane soprattutto, asiatiche o sudamericane erano spesso coinvolte in avvenimenti di questo genere. Comunicati e qualche servizio di telegiornale che cadevano nel dimenticatoio nel giro di pochi giorni e avanti con il prossimo golpe.
Se ci scusate una piccola digressione personale, le nostre conoscenze sugli avvenimenti dell'Indonesia durante quei giorni si limitano a poco più di questo. A livello cinematografico inoltre l'immediato "prima e dopo colpo di Stato" fornirono lo sfondo per il bel film di Peter Weir, "Un anno vissuto pericolosamente", storia di un giornalista inviato nel paese asiatico proprio a ridosso di tali avvenimenti.
Conoscenza appunto superficiale, fino a quando un documentarista texano, trapiantato in Danimarca, Joshua Oppenheimer, non decide di recarsi in Indonesia per descrivere le condizioni di lavoro ai limiti della schiavitù dei braccianti che raccolgono olio di palma per conto di una compagnia belga. Da questo punto in poi Oppenheimer ci porta dentro un tremendo dietro le quinte di quegli avvenimenti. Ci ridesta da quell'indolente torpore con una forza tale da lasciare senza parole.
Perché "The Act of Killing", prima parte di questo dittico sull'Indonesia, che comprende appunto "The Look of Silence", fa vivere quell'orrore nella maniera probabilmente peggiore da digerire: raccontato direttamente dagli assassini e torturatori, pedine di quel regime che in nome dell'anticomunismo misero nel calderone ogni opposizione al nuovo ordine costituito, comunista e non. Il risultato finale è una cifra non ancora definita, ma verosimilmente intorno al milione di persone, che vennero massacrate e giustiziate senza pietà e senza processo, portatori - sempre secondo il regime - di valori privi di morale e dunque elementi pericolosi per il bene della nazione. Male impersonificato che doveva essere eliminato e che questi assassini e torturatori hanno compiuto con incredibile solerzia. Nessuna ombra di pentimento o rimorso in queste persone che, anzi, vivono una vita agiata nell'impunità e nel rispetto di quello che hanno fatto, perché dopotutto la storia viene scritta dai vincitori di quella che fu una guerra civile. Sono celebrati come eroi e come tale si comportano, nella piena convinzione di aver fatto il proprio dovere.
The "Act of killing", uno dei migliori documentari degli ultimi vent'anni almeno, tra i suoi aspetti scioccanti ha proprio questa capacità di racconto senza alcun tipo di filtro, di convivere una terribile e forzata empatia con queste persone. Inoltre, altro grande merito, è quello di essere in grado di travalicare lo stesso genere documentaristico, di farsi metafilmico attraverso finzione e realtà. Innumerevoli sono gli spunti e le riflessioni di un capolavoro di questa portata, utili anche per leggere alcuni aspetti di "The Look of Silence", seconda parte di questo documentario storico sull'Indonesia di quegli anni.
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