lunedì 28 febbraio 2005

Recensione CUORE SACRO

Recensione cuore sacro




Regia di Ferzan Ozpetek con Barbora Bobulova, Andrea Di Stefano, Lisa Gastoni, Massimo Poggio, Erica Blanc, Camille Dugay Comencini, Caterina Vertova

Recensione a cura di GiorgioVillosio

"Col 2000 inizierà l'epoca dello spirito" diceva Malraux, profetizzando l'avvento di una nuova spiritualità, capace di distaccarci dal materialismo imperante della civiltà capitalistica di occidente, a seguito della rivoluzione industriale, nell'800 e nel '900.
E se, per il primo centenario la corsa alla ricchezza riguardava in primis il grande capitale, con la creazione delle grandi infrastrutture industriali, commerciali e finanziarie, in quello successivo il fenomeno si estendeva a macchia d'olio all'intero mercato, con l'avvento del consumismo esasperato, capace di contagiare l'insieme complessivo dei paesi occidentali: in sostanza una nuova religione pagana, destinata ad infiltrarsi in tutti gli strati sociali, e in prospettiva al mondo globale, come oggi sotto i nostri occhi. Da queste considerazioni parte senza ambagi l'assunto tematico del film di Ozpetec, quando la giovane Irene, erede di una fortuna "sporca", pronuncia un vero "Manifesto del consumismo" nel corso di una seduta plenaria del CDA dell'azienda.
Ma, proprio di qui, la sua "illuminazione", arrecata da una giovinetta-angelo, con la chiara presa di coscienza della disumanità di certe logiche e della conseguente alienazione individuale. Alla faccia delle previsioni di Malraux, comunque, unica vox clamans nel deserto dell'Occidente contro il consumismo perverso, resta oggi solamente quella di Papa Woitila, mentre l'avvento di una nuova spiritualità sembra ben di là da venire; o, quanto meno, dovremmo attenderne l'eventuale arrivo dall'Oriente, con le sue mistiche e le tante pratiche già in uso da noi.

In questo quadro non stupiamoci che un messaggio del genere ci provenga da Ozpetek, che viene da una terra tradizionalmente ponte tra le culture dei due opposti emisferi; ma che, vivendo a Roma, subisce pure l'influsso di certo nostro pensiero morale, come nel Fromm di "Essere e avere".
Dunque con quella sua specialissima tendenza a frammischiare tanti elementi, eccolo presentarci una sorta di parabola edificante, coi toni e coi modi della nostra iconografia ecclesiastica: pediluvi amorevoli, immagini di Pietà Michelangiolesche, figure scavate e sofferenti di poveri, preghiere biascicate a bassa voce dalla Bobulova a mo' di rosario, cortei di bisognosi come nelle Processioni sacre. Mentre l'immagine della giovane ereditiera, immensamente ricca, che si spoglia di tutto, abiti compresi, per donarlo ai poveri, ci ricollega obbligatoriamente al personaggio di S.Francesco.

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giovedì 24 febbraio 2005

Recensione SAW - L'ENIGMISTA

Recensione saw - l'enigmista




Regia di James Wan con Cary Elwes, Danny Glover, Monica Potter, Michael Emerson, Tobin Bell, Ken Leung, Makenzie Vega, Shawnee Smith, Benito Martinez, Dina Meyer, Leigh Whannell

Recensione a cura di cash (voto: 3,0)

Spunto iniziale: una stanza, per la precisione ciò che sembra un bagno di discrete dimensioni. Fatiscente, rovinato, sicuramente abbandonato. Due uomini alle estremità, entrambi incatenati. Nel centro un uomo riverso a terra, con un'evidente pozza di sangue (?) che circonda la sua testa. Qualcuno comunica con i due: ciascuno dovrà tentare di far fuori l'altro, se vorrà salva la vita.

Situazione decisamente intrigante; il tema è di sicuro interesse, ma lo svolgimento del compitino che James Wan ci propina è quanto di più scialbo e superficiale ci possa essere. Iniziamo a sgombrare il campo da ogni dubbio: il contesto non determina il contenuto. Nella fattispecie, non è condizione sufficiente che un film debba essere proiettato in un cinema per far sì che il film stesso sia appartenente al grande paradigma dei "lavori per il cinema", Già, perché in "Saw" di cinema non c'è manco l'ombra. Si tratta di un lavoro televisivo in tutto e per tutto. Le marche d'enunciazione, i codici filmici di "Saw" appartengono al piccolo schermo: a partire dal montaggio che si vorrebbe frenetico e "sapiente", ma che in realtà non è in grado nemmeno di nascondere un grammo dell'insipienza visiva di Wan; le frequenti e fastidiose accelerazioni, più che richiamare la frenesia del momento, richiamano alla memoria le meravigliose macchiette del cinema anni venti. La fastidiosa frenesia del montaggio - che essendo non fatto estemporaneo ma norma fissa si configura ad unica cifra stilistica del film - è in fin dei conti la filosofia stessa a cui può essere ricondotto il discorso "Saw"; frenesia che trasuda da un prodotto fatto per essere cotto e mangiato in tutta fretta, sperando che la digestione sia immediata, prima del prossimo prodotto da consumarsi altrettanto velocemente. Un film come "Saw" non può chiaramente fare affidamento ad una memoria cinematografica a lungo termine; sua unica speranza di sopravvivenza è la celere distribuzione in dvd con annesso passaggio televisivo, magari satellitare.

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martedì 22 febbraio 2005

Recensione UNA LUNGA DOMENICA DI PASSIONI

Recensione una lunga domenica di passioni




Regia di Jean-Pierre Jeunet con Audrey Tautou, Gaspard Ulliel, Jean-Pierre Becker, Dominique Bettenfeld, Julie Depardieu

Recensione a cura di GiorgioVillosio

E' risaputo che, nell'esalare l'ultimo respiro, il pensiero di un soldato in guerra vada alla madre, non alla moglie o alle amanti: spirando, la sua ultima parola è "mamma". A lei l'estremo ricordo, quasi per ricongiungersi, con estremo suggello, al miracolo della nascita.
Donna, dunque, come madre -nutrice - salvatrice, immagine essenziale del femminile nella psicologia maschile di sempre, ma che in realtà la donna emancipata dei nostri tempi tende a rimuovere (e su questo punto non insistiamo perché porterebbe troppo lontano).
A questa concezione simbolica della funzione salvifica della donna, è ispirato nella sostanza il complesso film di Jean Pierre Jeunet, con la storia di una giovane ragazza che non si arrende alla perdita del fidanzato, dato per disperso nella prima guerra mondiale. Tanto prova e tanto fa, ricercandolo, che alla fine la poverina riuscirà davvero a ritrovarlo vivo, ancora privo di memoria.
Ma la storia non va considerata per la vicenda in sé, che la ricondurrebbe inevitabilmente a un filone romantico-sentimentale, come alcuni hanno detto. Ma per il respiro decisamente più elevato di tratteggio universale della condizione umana, col fronteggiarsi archetipico di maschile e femminile: donna-madre-nutrice-salvifica-portatrice di vita, a cospetto dell'uomo, aggressivo-violento-cinico-distruttivo-portatore di morte.

Opera complessa, dicevamo in apertura, perché sull'asse portante qui delineato, vanno ad aggiungersi una miriade di altri elementi, in effetti... tutti quelli dell'umano: il contesto familiare dei genitori adottivi della giovane, le reminescenze infantili della malattia che l'avrebbe minorata, il tratteggio dei caratteri socio-psicologici dei vari personaggi maschili, le ministorie individuali dei poveri disertori condannati a morte, il racconto dell'amore infantile col compagno di giochi, tradottosi nel tempo in una passione fatale. In aggiunta, poi, l'intreccio complesso delle storie dei compagni di sventura della trincea..., quasi tutti morti nel corso della battaglia, ma ancora drammaticamente vivi nella memoria dei parenti superstiti.
Quanto narrato, poi, trova una chiave di lettura simbolica più ampia, come sempre avviene nella grande letteratura, e nell'arte in genere: la "terra di nessuno" a cavallo tra le linee difensive degli eserciti nemici, può essere vista come il limbo della nostra coscienza (o del conscio), l'azione vindice della moglie còrsa, contro gli assassini del marito, suona di anatema biblico e legge del taglione, l'incendio fatale di un dirigibile nell'ospedale dei soldati feriti, ha il taglio della tragedia greca, dove tutti pagano ineluttabilmente, per cecità del destino. Mentre molti personaggi emblematizzano "maschere" caratteristiche dell'umano: l'intrigante che commercia anche nelle trincee, il bilioso che uccide un compagno legittimato dal cinismo delle istituzioni, il crapulone superficiale, che occulta la grazia del Presidente Poincaré, come l'astuto investigatore, sembrano i personaggi tipici di quella grande "commedia dell'arte" che è la vita.
Il tutto inscenato e presentato come in un maestoso affresco, dove c'è spazio per scene di ogni genere, e dove ogni centimetro di tela rappresenta un racconto a sé : proprio come nella Cappella Sistina, o, meglio, come nel grande romanzo ottocentesco europeo, dove va in scena a tutto tondo l'universo intero.

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lunedì 21 febbraio 2005

Recensione MILLION DOLLAR BABY

Recensione million dollar baby




Regia di Clint Eastwood con Clint Eastwood, Hilary Swank, Morgan Freeman, Jay Baruchel, Mike Colter, Lucia Rijker, Anthony Mackie, Brian F. O'Byrne, Margo Martindale, Riki Lindhome, Michael Pena, Benito Martinez, Bruce MacVittie, David Powledge, Marcus Chait, Joe D'Angerio

Recensione a cura di GiorgioVillosio

"Ognuno porta il suo Anchise sulle spalle" diceva sempre un caro amico, che mi leggerà lusingandosi per la espressa citazione (ciao, Angelo!).
In effetti non è facile liberarsi dai vincoli delle nostre origini, cui dobbiamo sì certe nostre fortune, ma pure un pesante fardello per l'intera esistenza. E questo vale non solo per i destini degli individui, ma pure a livello di paesi, nazioni, popoli, società e culture, vastamente intese. Da cui l'imprescindibile connotazione "originaria" anche dell'opera d'arte, che vive bensì all'interno di un autore come identità aliena, "altra da lui", (come avviene nelle psicosi), ma che non può non risentire dei condizionamenti culturali di base.

La premessa per introdurci all'esame non solo e non tanto di "Million Dollar Baby", quanto invece al personaggio Clint Eastwood nel suo complesso, che amo da sempre, per due motivi antitetici: da un canto l'aria maschia e fiera del cow-boy del western amato nell'infanzia, novello Gary Cooper, duro ma buono. Dall'altro, per il fatto di aver saputo riscattarsi da questo personaggio di maniera passando personalmente alla regia con vicende reali, e storie drammatiche, fortemente introspettive: meno inseguimenti in auto... e più psicologia! Tali meriti vanno indubbiamente riconosciuti anche al film in oggetto, Million Dollar Baby, osannato da tutta la critica come un vero capolavoro. E in effetti il delineare crudamente il destino di individui vessati dal caso, eternamente perdenti, rende la storia drammaticamente credibile, come pure l'amicizia tra Clint e il nero semicieco, cementata dalla pluriennale frequentazione e costellata di tragici eventi. Lo stesso, ancor più, va detto del personaggio femminile, astro nascente della box muliebre, novella Diana del mito, che cerca attraverso uno sport disumano il riscatto improbabile da tristi destini personali.

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venerdì 18 febbraio 2005

Recensione LA MORTE SOSPESA

Recensione la morte sospesa




Regia di Kevin Macdonald con Nicholas Aaron, Brendan Mackey, Joe Simpson

Recensione a cura di stefano76 (voto: 7,0)

Simon e Joe, due giovani ma esperti alpinisti inglesi decidono, nel 1985, di tentare la scalata della Siula Grande, nelle Ande peruviane, impresa mai tentata prima di allora. Riescono, dopo molte difficoltà, a raggiungere la cima, ma, durante la ridiscesa, Joe commette un errore e scivola, rompendosi una gamba. Sono completamente da soli, a migliaia di metri di altezza, in mezzo a tormente di neve e appesi a pareti ripidissime. La situazione è drammatica: Simon tenta di portare in salvo l'amico calandolo con una corda ogni novanta metri e raggiungendolo di volta in volta e continuando in questo modo la discesa, ma durante una di queste manovre, confuso anche da una tormenta di neve, non si accorge di aver calato il compagno ferito oltre un burrone. Joe rimane appeso, senza la possibilità di raggiungere la parete né di riarrampicarsi sulla corda: sopra di lui, Simon non capisce cosa stia succedendo, Joe non gli alleggerisce il peso attaccandosi alla parete e lui sta scivolando. Non riesce più a tenerlo. Dopo un'ora e mezza di straziante attesa, Simon fa l'unica cosa che gli impedirà di cadere nel vuoto: taglia la corda che lo lega all'amico. Convinto che Joe sia morto finisce la discesa e torna al campo base, distrutto dal senso di colpa, ma Joe, in realtà, è miracolosamente sopravvissuto alla caduta e riuscirà, dopo un viaggio infernale, a portarsi in salvo da solo e a ridiscendere il resto della montagna e del ghiacciaio con una gamba spezzata.

Il film è tratto da una storia realmente accaduta ed è basato sul libro autobiografico omonimo che Joe Simpson ha scritto per narrare la vicenda accadutagli e per scagionare l'amico Simon Yates, accusato e criticato dalla comunità degli alpinisti per aver tagliato la corda e averlo fatto precipitare.
Girato dal documentarista Kevin Macdonald (vincitore del premio Oscar nel 2000 per il documentario One day in september), è un interessante esperimento che unisce uno stile asciutto e documentaristico con quello della fiction. Il film è infatti totalmente narrato dalle voci fuori campo dei due protagonisti che raccontano la vicenda, dunque senza dialoghi, lasciando spazio totalmente alle immagini, ma senza rinunciare, comunque, a passaggi che hanno sicuramente il sapore della narrazione cinematografica. La pellicola ha infatti una sua sceneggiatura (scritta dallo stesso Joe Simpson), ha un'evoluzione narrativa ben precisa e, a mio parere, centra in pieno il tentativo, appunto, di miscelare i due generi. Lo spettatore non può che immedesimarsi nel personaggio di Joe e, tra paesaggi e immagini di rara bellezza, vive insieme a lui il senzo di abbandono, la sofferenza e l' immane forza (sia fisica che, soprattutto, psicologica) che lo spingono a trarsi in salvo ad ogni costo, nonostante apparentemente senza speranza.

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giovedì 17 febbraio 2005

Recensione LA VITA E' UN MIRACOLO

Recensione la vita e' un miracolo




Regia di Emir Kusturica con Slavko Stimac, Vesna Trivalic, Natasa Solak, Vuc Kostic, Aleksandar Bercek, Davor Janjic, Mirjana Karanovic, Nikola Kojo

Recensione a cura di Pietro Salvatori

Kusturica è un animale da festival. Un paio di palme d'oro per miglior film, una per la miglior regia, un orso e un leone d'argento.
La vita è un miracolo, presentato anche questo all'ultimo festival di Cannes, non ha convinto e, strano a dirsi, è tornato a casa a mani vuote.
L'eclettismo e la vitalità di Kusturica ben si fondono con i suoi personaggi, gente lunatica dei balcani, piena di gioia, di fervore, ma anche pronta a buttarsi giù alla prima difficoltà.
Kusturica sulla sua terra, sulla sua gente, ha fondato un cinema quasi di maniera, prendendo idealtipi e modificandoli di volta in volta, a seconda delle loro tendenze.
La vita è un miracolo rispetta in pieno i canoni del regista serbo.

I primi venti minuti di film sono un susseguirsi di piani ambientazione e di veloci presentazioni di personaggi.
Ci mettiamo una buona mezz'ora per focalizzare su chi, e perché, il regista vuole incentrare la storia, di chi ci vuol parlare.
Luka è l'addetto ad un piccolo snodo ferroviario, al confine tra Bosnia e Serbia.
La moglie Jadranka, imbranata e nevrotica cantante lirica, fuggirà di lì a poco con un sedicente e strampalato artista ungherese. Il figlio, Milos, partito militare, verrà fatto prigioniero. Luka riscoprirà l'amore con Sabaha, giovane infermiera musulmana, che però sarà anche il cardine della liberazione del figlio.

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mercoledì 16 febbraio 2005

Recensione PROVINCIA MECCANICA

Recensione provincia meccanica




Regia di Stefano Mordini con Stefano Accorsi, Valentina Cervi

Recensione a cura di GiorgioVillosio

Sappiamo tutti bene che cos'è una coperta patchwork: un insieme di pezzi e pezzetti vari di tutte le stoffe, colori e formati; una cosa che possiamo apprezzare, perché calda, e sicuramente curiosa e divertente. Cioè a dire: comunque coerente e funzionale al suo uso proprio, quello di riscaldare. Ma un racconto, letterario come cinematografico, è ben altra cosa, e deve rispondere a vari requisiti: fare riflettere, suggestionare, stimolare emozioni, agire per transfert con il fruitore, oltre che, ove possibile, divertire. Il tutto, possibilmente, con una certa coerenza, di stile e di modi.
Dunque il collage degli elementi più diversi non conferisce in se attestato di valore, inducendo al contrario un doveroso scetticismo sulla chiarezza di idee e sulla improbabile vocazione espressiva dell'autore. E, per fare un facile esempio, provate a pensare ad un concerto dove si miscelassero insieme, senza ordine né intenzionalità, respiri sinfonici, improvvisazioni jazzistiche, cori popolari di montagna, melodie bi-folk all'italiana e gorgheggi alla Orietta Berti!
Proprio questo ci è venuto da pensare, dopo aver visto "Provincia meccanica", dove, se vogliamo, già il titolo avrebbe dovuto insospettirci. Che c'entra infatti l'assonanza col famoso film di Kubrick?

In cosa le due "vicende" sarebbero assimilabili?... Forse perché il contesto operaio ravennate avrebbe toni violenti e drammatici come la fatidica "Arancia"? Manco per sogno, invece; anche perché la neuro-psicotica interprete del film, moglie del povero operaio, è di magnanimi lombi, e figlia di una alto borghese con tanto di puzza sotto il naso. Ne emerge, quindi, l'ulteriore elemento di taglio psicanalitico, dell'inestricabile conflitto edipico madre-figlia; come pure inciampiamo in elementi "animalisti" di accatto, come il povero cane e lo sfortunatissimo iguana, miseramente affamati nella casa di famiglia. E poi elementi di folclore, come il drudo ungherese dall'aria gitana, di critica antiburocratica, contro l'inflessibile assistente sociale, di profilo alla Conrad, come il vecchio capitano costretto a terra nel porto sulla sua schiumarola, e di denuncia politico-sociale, come nelle panoramiche sulla dirompente edilizia popolare. Per non parlare ancora della figura del mago truffaldino, della suora cattiva o della povera assistente nelle mani di un convivente Paccianiano. Non tutto, ma di tutto, come in bazar surreale, visto con l'occhio malato di una crisi psichedelica; prospettiva che probabilmente ha formato l'autore, nel corso di una formazione culturale estetico-espressiva maturata dalla più tenera infanzia con la cloche dei video giochi in mano. Faceva il documentarista, un tempo il regista del nostro film; e magari ci riusciva, in presenza di vicende e realtà già esistenti, che non gli toccava inventare.
Ma creare, scrivere e raccontare è ben altra cosa! E neppure gli strumenti che già si possiedono risultano sufficienti, in mancanza di una ispirazione narrativa; come dimostra la fotografia approssimativa e forzata, il taglio nevrotico delle immagini, scimmiottato dai video clips, i primi piani di maniera degli interpreti e i ritmi inconsulti, talora lunghi all'esasperazione, talora, invece, inutilmente frenetici. Uno zibaldone, dunque, dove non si saprebbe che cosa salvare: se non, la colonna sonora, in sé valida, e in parte, ma con beneficio di inventario e l'onere di altre prove, l'interpretazione di Valentina Cervi. Sicuramente non quella di Stefano Accorsi, fino ad oggi abbastanza apprezzabile: nel film, invece, stucchevole, manierato e troppo convenzionale nell'espressione. Quanto meno gli consiglieremmo un'attenta lettura dei copioni, prima di accettare una parte, stante il suo attuale momento di fortuna.

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lunedì 14 febbraio 2005

Recensione MASTER & COMMANDER - SFIDA AI CONFINI DEL MARE

Recensione master & commander - sfida ai confini del mare




Regia di Peter Weir con Russell Crowe, Paul Bettany, James D'arcy, Edward Woodall, Chris Larkin, Jack Randall, Lee Ingleby, Richard Stroh, Billy Boyd

Recensione a cura di Mr Black

Un ottimo mix di avventura, coraggio, eroi valorosi e battaglie sopra il livello del mare sono la risposta di Peter Weir a chi osa affermare che il cinema dei giorni nostri non riesce più a darci quelle sensazioni che, nei decenni passati, i grandi maestri di questa nobile arte ci avevano dato.
Il regista di "Picnic ad Hanging Rock", grazie anche all'utilizzo di attori del calibro di Russell Crowe e Paul Bettany, sconfigge definitivamente la maledizione che voleva perdenti al botteghino i film ambientati in alto mare (escludendo ovviamente "Titanic" in quanto il film di Cameron appartiene all'era dei "vascelli" moderni, ed il disneyano "La maledizione della prima luna"), regalandoci una sfida all'ultimo colpo di cannone tra due imbarcazioni all'epoca delle conquiste Napoleoniche.

Il plot del film gira intorno a due temi fondamentali: l'amicizia fra il capitano britannico Aubrey ed il suo medico di bordo Maturin, così diversi ma ricchi di una reciproca autostima; l'ossessiva sfida fra Aubrey ed il capitano, quasi un fantasma, di una potente nave francese, messa qui in risalto come se fosse un autentico mostro del mare, paragonato alla "piccola" e modesta nave britannica. Forti di questi due temi principali, Weir ci costruisce sopra una pellicola senza pecche ricca di elementi che ne fanno allo stesso tempo un grande film di azione e di storia, di uomini (l'equipaggio viene messo a nudo con tutte le sue piccole storie e le sue inconfessabili paure), di vendetta e di ossessione (il pensiero del capitano Crowe è sempre sulla nave francese che deve abbattere ad ogni costo).

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venerdì 11 febbraio 2005

Recensione MA QUANDO ARRIVANO LE RAGAZZE?

Recensione ma quando arrivano le ragazze?




Regia di Pupi Avati con Claudio Santamaria, Vittoria Puccini, Paolo Briguglia, Johnny Dorelli, Augusto Fornari, Enrico Salimbeni, Manuela Morabito, Eliana Miglio

Recensione a cura di GiorgioVillosio

Sarebbe davvero difficile definire con poche parole i temi dell'ultima opera di Pupi Avati, tanta è la materia narrativa. Il film, in effetti, tratta di amicizia, di amore, di rapporti parentali, e di vocazioni artistiche e professionali, con conseguenti ferite narcisistiche: in pratica della vita a tutto tondo, nella sua complessità e nella sua assoluta casualità, scandita come evento stocastico nell'eterno e impenetrabile moto degli astri e dell'universo. Non a caso, infatti, lo sviluppo della storia, raccontata con memoria fuori campo, si snoda in vari momenti contrassegnati dall'avvicinamento di una cometa ad un corpo celeste, contro il quale si scontrerà inevitabilmente: con metafora evidente della precarietà dell'esistenza e dell'ineluttabilità del destino. Di qui l'aura di malinconia che permea l'atmosfera del film, non coi toni della disperazione "esistenzialistica", ma con quelli più pacati di una nostalgia "romantica"; di quel pessimismo, che prova inevitabilmente l'homo sapiens quando prende coscienza del suo declino: non proprio in dirittura di arrivo... ma ormai all'ultima curva (chi ricorda Anacreonte: "della vita dolce non molto è il tempo che resta...?"). E giureremmo che proprio questo stato d'animo abbia indotto Pupi Avati ad un'opera molto riflessiva, probabilmente autobiografica, dove si avverte una sincera "compassione" per i personaggi e per le loro sofferenze; dove neppure chi trionfa, come nel caso del trombettista divenuto famoso, approfitta della debolezza altrui, sentendosene, per certi versi, addirittura responsabile.

Fulcro della narrazione l'amicizia tra due giovani musicisti, conosciutisi all'interno di un concorso, col confronto obbligato tra due vocazioni: una indotta forzosamente dal padre del sassofonista, a compensazione di frustrazioni personali, l'altra spontanea e genuina di un giovane suonatore di tromba, garagista,approdato alla musica per puro caso. Nel film, finisce per prevalere il talento vero, (se così fosse anche nelle vita reale!!!!!), con profonda ferita dell'amico ricco, perdente anche sul piano della rivalità amorosa. Un'amicizia, comunque, talmente profonda da non morire, suggellandosi alla fine, quando il talentuoso trombettista suonerà in un trionfale concerto la canzone scritta dall'amico; un ritratto di amicizia di nobilissimo respiro, che ci riporta idealmente ai casi classici di "Narciso e Boccadoro", o di "Achille e Patroclo". Altro elemento cardine la figura del padre (un formidabile Johnny Dorelli), alcolista frustrato, che vorrebbe il figlio vincente in vece sua, condizionandone tremendamente l'esistenza... (capita nelle "migliori" famiglie!).
E poi la storia d'amore, con la fascinosa Puccini, in bilico tra i due, ma con soave delicatezza di toni: la regia non fa vedere, non ostenta, non insiste sul piccante, ma allude e suggerisce con eleganti preterizioni. Come in effetti succede sovente nella vita, dove le coppie sono tormentate dai dubbi e si immalinconiscono; e dove la storia si snoda non tanto sul filo delle bugie quanto delle "mancate verità", con penitenze dolorose e intimi struggimenti.

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martedì 8 febbraio 2005

Recensione ALEXANDER

Recensione alexander




Regia di Oliver Stone con Colin Farrell, Angelina Jolie, Anthony Hopkins, Val Kilmer, Jared Leto, Rosario Dawson, Jonathan Rhys-Meyers, Raz Degan

Recensione a cura di peucezia

La moda dei peplum, tornata in auge dopo il grande successo de IL GLADIATORE, ha finito col contagiare anche Oliver Stone, controverso regista, autore di pellicole tanto osannate quanto oggetto di feroci critiche quali J.F.K, PLATOON e NATURAL BORN KILLERS, un pulp violento e satirico.
Stone così ci prova con la storia greca e in particolare con la vita di Alessandro Magno (interpretato da un biondissimo Colin Farrell), condottiero e re macedone morto in circostanze misteriose a 33 anni e conquistatore di gran parte del mondo conosciuto, peraltro già oggetto di una pellicola cinematografica nel 1956 (interprete principale Richard Burton).

Se si vuole parlare del profilo storico del film, di sicuro Stone ha tentato di fornire un inquadramento preciso e puntiglioso del personaggio, ma assai latente si è rivelato invece nelle relazioni interpersonali del famoso condottiero.Angelina Jolie, affascinante e anche visibilmente più giovane di suo figlio, non convince molto nel ruolo di Olimpiade, madre di Alexander: il suo dolore alla notizia della morte del re-condottiero è quanto mai finto e tutta la sua interpretazione è sbiadita ed incolore.
Dal canto suo anche Val Kilmer (reso quasi irriconoscibile dal trucco), offre una interpretazione mediocre di Filippo, re di Macedonia e padre di Alessandro. I suoi controversi rapporti col figlio restano irrisolti e ogni volta che calca la scena non da' l'impressione di "credere" molto al suo personaggio.

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giovedì 3 febbraio 2005

Recensione LA MALA EDUCACION

Recensione la mala educacion




Regia di Pedro Almodovar con Gael García Bernal, Fele Martinez, Daniel Gimenez-Cacho, Lluis Homar, Francisco Boira, Javier Camara

Recensione a cura di Pasionaria (voto: 8,0)

Con l'ultimo suo film Pedro Almodòvar si è cimentato nel noir, genere peraltro già sfiorato in una sua precedente opera ("Carne tremula"), ma qui proposto in modo più completo e profondo.
Fin dall'inizio del film si viene proiettati in un gioco di scatole cinesi, di rimandi e citazioni (film nel film) in cui ci si sente disorientati, ma via via ogni pezzo va a comporre il puzzle della storia, che diventa finalmente e sorprendentemente chiara, come si addice alla migliore tradizione dei noir.
La trama è complessa perché le varie storie si intersecano tra il presente ed il passato in un intreccio di inganni, scambi di persona, passioni crudeli.

Nella Madrid degli anni 80 Enrique, regista affermato, riceve la visita di un vecchio compagno d'infanzia che gli offre una sceneggiatura da lui stesso redatta, 'La visita', la cui lettura lo riporta ai tempi del collegio. Da qui prende avvio la narrazione fra presente e passato.
Il flashback ci racconta l'amicizia (che presto si tramuta in amore) dei due ragazzini, Ignacio ed Enrique, cresciuti fra le mura di un Istituto religioso intorno agli anni '60, in pieno regime franchista. Un affetto adolescenziale che è anche iniziazione sessuale, ma che è rappresentato al meglio, secondo me, in un momento tenerissimo: quando Ignacio sbaglia volutamente il calcio di rigore come dono d'amore al caro portiere Enrique. L'amicizia presto assume una dimensione più intima ed è violentemente contrastata da Padre Manolo, geloso del suo 'favorito'.
Almodòvar non ci presenta il prete come un viscido pervertito, ma come un essere umano vittima della propria passione, innamorato colpevole di un bambino; egli sa che il suo amore è proibito e malato, ma non per questo lo sente meno autentico. Quest'amore innaturale e perverso avrà però conseguenze terribili nella vita di Ignacio. Da qui la storia del passato ritorna spesso nel presente delle altre vicende del film in un susseguirsi di situazioni sovrapposte.
Almodòvar è abilissimo a costruire la struttura narrativa, anzi l'arricchisce con gli elementi tipici dei sui film: i colori sgargianti, i costumi eccentrici, i dialoghi crudi, cattivi e provocatori, la musica pop (qui "Cuore matto" di Little Tony). Non manca l'ironia divertente incarnata dal simpatico Paquito (il bravissimo Javier Càmara, il Benigno di "Parla con lei"), vero cameo del film.

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martedì 1 febbraio 2005

Recensione RAY

Recensione ray




Regia di Taylor Hackford con Jamie Foxx, Harry Lennix, Clifton Powell, Kerry Washington, Regina King

Recensione a cura di GiorgioVillosio

A quale "genere" espressivo potremmo riferirci per il racconto filmico di Taylor Hackford, a cavallo tra il documentario biografico, la fiction cinematografica, il réportage televisivo e il videoclip musicale? Un mix di tanti elementi, dove la vita del Genius viene raccontata solo in parte, negli anni più fertili e drammatici, sorvolando sugli ultimi 40 anni; l'intreccio drammatico, crudo e convincente ove racconta il rapporto con la droga, si sfilaccia, poi, quando entrano in gioco donne, sesso, figli e sentimenti. In particolare, la storia dell'infanzia e la figura della madre suonano fortemente retorici, soprattutto quando subentra l'ulteriore elemento della spiegazione psicanalitica. Bene, invece, il ritmo serrato delle scene di viaggio per le pianure americane, rapide ed incalzanti, con occhio attento alla letteratura e al cinema on the road; come altrettanto orecchiata risulta la ricostruzione oleografica delle immagini del profondo sud nero-americano, alla maniera di Faulkner o Caldwell. Col sovrapporsi di tanti elementi e tanti temi, però, non poteva che derivarne un film lungo in eccesso, cui una maggiore sintesi avrebbe giovato, senza nulla perdere dei significati. Salvo pensare che tale prolissità non sia dovuta al caso, ma che intenda tradurre, in immagini, gli schemi armonici essenziali del blues: con le strofe di dimensioni particolari, inconfondibili, suddivise in misure matematiche precise e più volte reiterate, a piacere del cantante, sovente ad ufo (al punto che per la registrazione dei dischi 78 giri in soli tre minuti venivano ridotte forzosamente a una media di 5/6 per brano).

Nel film sulla vita di Ray, comunque, non troviamo solamente la struttura tipica da "giro di blues", ma più genericamente una commistione sostanziale degli elementi base della musica nero-americana: il senso profano della vita e della realtà quotidiana del blues, e la tensione ideale della religiosità cristiana degli spirituals, con cui un popolo di schiavi mirava a trascendere la propria disperazione nella speranza di un regno ultraterreno. Peraltro, i modi con cui il coloured americano cerca di riscattare il suo passato di dolore e di sofferenza sono diversi. Più unico che raro quello di Ray Charles, che si differenzia non poco dal modello comune, ove sacro e profano sembrano convergere in un unico percorso di riscatto individuale. Nel caso del Genius, invece, l'elemento "sacrale" di gospels e spirituals sembra cedere a quello profano, fornendo solamente le sue sonorità, senza troppe implicazioni fideistiche. Da cui una certa ostilità dei più religiosi, e lo spaziare "laicamente", senza pregiudiziali, un po' su tutti i generi, "bianchi" come "neri", e, comunque, "commerciali", come il Rythm&Blues o il Country. Forse, come detto chiaramente nel film, la "vendetta" individuale del nero Ray Charles doveva compiersi non coi lamenti perdenti del cantante gospel, ma con la lotta diretta al "bianco sfruttatore" sul suo stesso piano; perpetrata nei fatti con una miscela inimitabile di arte musicale, affarismo e spirito imprenditoriale.

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