lunedì 30 maggio 2005

Recensione NON DESIDERARE LA DONNA D'ALTRI

Recensione non desiderare la donna d'altri




Regia di Susanne Bier con Ulrich Thomsen, Connie Nielsen, Nikolaj Lie Kaas, Bent Mejding, Solbjørg Højfeldt, Paw Henriksen, Laura Bro, Niels Olsen, Sarah Juel Werner, Rebecca Løgstrup Soltau

Recensione a cura di GiorgioVillosio

Eros e Thanatos, realtà opposte per definizione, sono legate da un filo dialettico di compresenza nella vita e nella nostra anima, nel mondo delle emozioni come nella espressione artistica. Dove dunque si alternano chiavi diverse, dal sorriso al pianto, dalla gioia al dolore, dall'entusiasmo vitale di nascite ed amori, alla disperazione della morte. A riprova un'esperienza esistenziale cui pochi prestano attenzione, distratti dal dolore: in occasione dei funerali, in presenza soprattutto delle giovani vedove, scatta un equivoco meccanismo di "corsa alla successione" all'interno delle famiglie stesse. Parenti, amici e conoscenti guardano al coniuge sopravvissuto come a una preda vicina, da possedere per tutelare, o da tutelare per possedere. E' una legge di natura, tipica pure dei branchi animali, nel segno della sopravvivenza della razza, del gene e del sangue. Al punto per cui, ad esempio nella cultura islamica, la vedova passa de jure sotto le ali protettive di un fratello, senza perdere la famiglia dello scomparso. Dunque, a prescindere dall'aspetto etologico, il fenomeno si manifesta sotto la forma di una forte e reciproca tensione erotico-sensuale tra chi piange il proprio caro perduto, e chi resta in ansiosa "ammirazione" di questo dolore, prefigurandosi il dopo a proprio piacere. Parlavamo di meccanismo "equivoco" perchè molti ritengono esecrabile la cosa, colpevolizzandola come un sacrilegio, senza riconoscerla ineluttabile e secondo natura, per la continuità della vita.

La premessa per spiegare il clou della vicenda narrata nel film, dove il fratello "balordo" dell'ufficiale creduto morto in Afganisthan, si avvicina alla giovane vedova, sostituendosi al fratello come figura di padre delle sue bimbe. Ad un tempo cade innamorato della splendida cognata, fascinando pure lei, pur senza dare corpo al peccato e limitandosi ad un semplice bacio, quasi simbolico. Ciò malgrado, la rigida etica protestante del paese di origine (la Danimarca) lascia il feroce marchio del senso di colpa nell'amante mancato e nella famiglia di origine, e un'imperdonabile bolla di infamia nella coscienza del militare, redivivo a sorpresa.

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lunedì 23 maggio 2005

Recensione OLD BOY

Recensione old boy




Regia di Chan-wook Park con Choi Min-sik, Ji-tae Yu, Gang Hye-jung

Recensione a cura di maremare

Un buon uomo dal nome rappresentativo, Dae-su Oh (letteralmente 'colui che è paziente e sereno con gli uomini') si ritrova, per cause misteriose, imprigionato in un loculo per quindici anni, con una vecchia televisione come unica compagna. Imbarbarito dalla inspiegabile reclusione, oltre che dai nefandi programmi televisivi trasmessi dall'osceno aggeggio, dopo quindici anni viene, altrettanto inspiegabilmente, liberato. Scopre con amarezza che la propria famiglia è stata sterminata e lui è ricercato dalla polizia, poiché considerato l'assassino. Si accorge di essere stato preso di mira da una mente diabolica: un simpatico, bello e ricco nullafacente. La cosa lo imbestialisce e armatosi di martello incomincia a randellare in giro.

Detta così sembrerebbe la classica trama del film seriale holliwoodiano sullo psicopatico di turno che perseguita il bravo e onesto cittadino.
In realtà le ambizioni di Park sono ben altre e, delineati i personaggi, ci cala in uno scenario da tragedia greca, dove nulla è quello che sembra e verità oscene si nascondono dietro l'angolo.
Tutto giocato sul registro del simbolico il film possiede molteplici chiavi di lettura (ad un 'voyeur' quale peggiore punizione del costringerlo a guardare immondizia televisiva per quindici anni?) e appare riuscito, in particolare, nelle sequenze più oniriche (meraviglioso lo svelamento del 'trauma' ispirato, visivamente, alle composizioni di Escher) e nei momenti chiave (basti pensare al pacco che Woo-jin Lee fa aprire a Dae-su Oh, così simile a quello che viene fatto trovare dallo psicopatico Spacey al poliziotto Pitt in 'Seven' e il cui contenuto, seppur differisca alquanto nella forma, non lo è affatto nella tragicità della sostanza).

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giovedì 12 maggio 2005

Recensione LA DONNA DI GILLES

Recensione la donna di gilles




Regia di Frédéric Fonteyne con Emmanuelle Devos, Clovis Cornillac, Laura Smet, Alice Verlinden, Chloé Verlinden, Colette Emmanuelle, Gil Lagay

Recensione a cura di GiorgioVillosio

Chissà se nel recensire il film del francese Fonteyne non si dovrebbe partire da una disquisizione semantica proprio sul titolo: in francese "Femme de Gilles", qui da noi "La donna di Gilles". Forse la traduzione potrebbe ingannarci, perché la parola "Femme", al di là delle Alpi, ha un duplice significato: in senso generico "donna", ma più specificamente "moglie"!

Che non è la stessa cosa, soprattutto agli effetti del film! Questo infatti racconta avvenimenti drammatici e scabrosi visti con l'ottica sofferente di chi è la moglie, per di più madre di figli, e non semplicemente la donna di un uomo. Le nostre signore, con tutto il loro romanticismo, sanno essere molto pragmatiche: come donne non mettono in gioco il concetto di appartenenza, e se la giocano un po' più alla pari con l'uomo: danno, ma vogliono avere; ci sono, a certe condizioni, ma sono pronte ad andarsene ove i loro conti non tornano. Solo quando un sacro vincolo, morale e legale, come quello del matrimonio, suggella una unione, la donna cambia status, divenendo a tutti gli effetti moglie. Che vuol dire una serie di cose molto precise: come donna non accetti tradimenti,e, semmai, li restituisci; oppure ti liberi del fedifrago cui nulla devi. Come moglie, invece, ci pensi mille volte, fai giusti calcoli di opportunità, soprattutto se la famiglia è al completo, con tanti figli. La sofferenza conseguente, poi, non trova grande comprensione presso gli altri, e gli stessi familiari consigliano prudenza e perdono, per la salvezza del nucleo familiare. Vero questo, il senso più profondo del film si rivela quando la giovane madre tradita va a cercare conforto in confessione, e viene liquidata tout court dal sacerdote con preghiere di penitenza, e colpevolizzandola con un perentorio: "Tu devi accettare senza ribellioni quello che Dio ti manda (cioè le corna!) ". D'altronde, tale modo di pensare non costituisce una novità, ed è valso all'incirca fino ai tempi del '68 e del femminismo imperante, coinvolgendo il destino di tutte le nostre madri e delle coetanee.

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martedì 10 maggio 2005

Recensione MILLIONS

Recensione millions




Regia di Danny Boyle con Daisy Donovan, Enzo Cilenti, James Nesbitt, Alexander Nathan Etel, Lewis Owen McGibbon, Kolade Agboke

Recensione a cura di GiorgioVillosio

"Millions"... la sola parola fa sognare, ai tempi d'oggi... e soprattutto negli States, dove il culto del denaro si è sovrapposto ad ogni forma di religione, sostituendosi sostanzialmente ai miti tradizionali dell'uomo: successo e potere!
Non a caso, diremmo, il film ha avuto un successo strepitoso proprio in America, più che da noi o nella natia Inghilterra. Evidentemente il dissacrare simbolicamente il Dio Denaro scuote fortemente le coscienze di chi, per abitudine e cultura, tende a venerarlo; quasi per esorcizzarne il potere e il carisma, in tanti versi perverso. E quasi per nascondere il peccato dell'insano desiderio!
Nel vecchio continente, il film convincerà assai meno, soprattutto per i toni didascalici e infantili; e, in effetti, Millions si presenta come una fiaba moraleggiante, contrapponendo il candore nativo del piccolo interprete, alla più smaliziata sensibilità del fratello maggiore, ed infine al machiavellico pragmatismo di tutti i grandi. Il tutto partendo da una considerazione aprioristica, che cioè il denaro sia sempre sporco e figlio del Male; e, non è un caso che il denaro piovuto dal cielo sui due bambini, in una valigia, sia la refurtiva di una rapina sul treno. Peraltro che il denaro sia cosa vile e criminosa è concetto fortemente radicato nel pensiero del vecchio mondo, sui due fronti estremi: quello della religione cattolica, per cui è più facile che un cammello passi attraversala cruna di un ago... piuttosto che un ricco entri nel regno dei cieli, e quello opposto della filosofia marxista, che asserisce tout court che la proprietà ha origine dal furto! Ma secondo altri, come già sostenevano i ricchi romani per autoalibizzarsi, pecunia non olet! e quindi tanto varrebbe riempirsi le tasche, e spendere il più possibile, come vuole la neo-religione del consumismo!

Dunque la contrapposizione tra la visione cattolica colpevolistica e quella protestante-calvinista del denaro elevato a segno della grazia divina, con cui questa si manifesta all'uomo in terra, diventa il perno concettuale del film, come forma di reazione nostrana al dilagare della prepotenza dei ricchi di oltreoceano; e con una conseguente presa di coscienza in chiave pauperistica e spiritualeggiante, oggi assai di moda (è ben altra cosa, ma si pensi a "Cuore Sacro" di Ozpetek, coi suoi simbolismi francescani!). Di qui il meccanismo del racconto: il piccolo che trova il denaro è ancora candido e ingenuo (... l'uomo nasce buono ma la società lo rende cattivo...!!!), mentre il fratello maggiore, per pochi anni in più, è già sulle tracce dei grandi. Gli adulti, padri e fidanzata, abbozzano, ma in pratica si venderebbero l'anima per non perdere il denaro; mentre sullo sfondo si agita la losca figura del ladro che attenta nel buio alla ricchezza dei bambini, come il malvagio nel teatro dei pupi. E proprio in questa visione ironica, da palcoscenico infantile, sta la legittimazione del film di Boyle, con personaggi emblematici del bene e del male, invenzioni fantasiose come il finto ingresso dell'Inghilterra nella CEE (da cui i pochi giorni residui per spendere il malloppo in Sterline con l'avvento dell'Euro), e trovate scenografiche divertenti, come la casa di cartone dei bimbi sconquassata ad ogni passaggio del treno (belli i colori e le scene surreali!).
Il tutto condito da una serie di osservazioni simboliche del comportamento umano che stimolano discrete risate, come nel caso del fratello maggiore che se la tira da boss.

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venerdì 6 maggio 2005

Recensione IO LA CONOSCEVO BENE

Recensione io la conoscevo bene




Regia di Antonio Pietrangeli con Enrico Maria Salerno, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi, Stefania Sandrelli

Recensione a cura di kowalsky

Gli anni del boom sono quasi un ricordo ma l'Italia vampirizzata esiste già: specchio di un futuro ahimè sempre più diffuso nei decenni successivi, squallidi personaggi si muovono e agiscono con l'aria di chi paventa già la prossima, definitiva, riabilitazione, o peggio la conseguente credibilità. E' strano che nello stesso periodo del film di Pietrangeli, che racconta l'"odissea" (fuga dai sogni di provincia) di una ragazza di campagna alle (ine)sperienze della città un film altrettanto "corale" e di costume, altrettanto pungente e satirico, fosse "Signore & Signori" di Germi, il contraltare antiborghese sui vizi deformi del popolo veneto. L'immagine è quella, moderna e antica insieme, della Mitologia del successo, quando oggi una ragazza come Adriana, vinte le illusioni di un'universo tanto stereotipato quanto falso (ma chi ci bada più ormai?) potrebbe realmente farsi strada. Non è tutta questione di apparenza, nè di perseguire degli obiettivi Adriana non è certo una creazione da laboratorio ma una ragazza che mantiene - con la sua apparente superficialità (che paradossalmente è voglia di vivere) tutta la dignità di tante imbarazzanti e traumatiche rinunce. Si "affida" agli altri soltanto per trovare la via di fuga impossibile da un mondo che ha già l'imperdonabile colpa di aver ucciso i desideri e le ambizioni di ciascuno. Per questo Adriana non è la Valentina che in un recente film di Muccino svuota tutti i meccanismi del business a suo favore.

Gioca, in tutto cio' la reticenza del mondo contadino, incapace a cogliere le inquietudini giovanili e il desiderio di librarsi in volo da una gabbia già incontestabilmente demodè ma fiera. Gioca a suo (s)favore il moralismo provinciale della famiglia, davanti a cui lei non si presenta come "star" ma specificatamente come "sgualdrina" (equazione che somma star-system e abbienza nella stessa terminologia secondo certi criteri). Un frutto puro, che non sta in un letto (come suggerito da un crudele spot di repertorio che storpia alacremente la sua immagine) "per lavorare". Bambola smarrita nel cuore della Capitale, pero' si butta da un'uomo all'altro, esalando promesse non mantenute e cercando disperatamente di trovare un'amore vero, una dimensione il più possibile vitale dall'illusione amara di dover crescere troppo in fretta, e incautamente. Sfilano, nel film, oltre a un'inconsueta galleria di personaggi spregevoli, vittime della stessa "tratta", segno irrequivocabile delle mutazioni temporali e di costume: come Baggini, ex guitto da avanspettacolo ridotto a patetica maschera di se stesso, interpretato da un superbo Ugo Tognazzi ("Nastro d'argento" come miglior attore non protagonista del Sindacato Giornalisti Cinematografici). Esemplare, in questo senso, è la festa organizzata dal press-agent Morganelli: i Vitellismi cedono il posto a una classe abbiente, disinvolta e meschina, con cui Franco Fabrizi conferma la capacità di rendere con insolente efficacia personaggi sgradevoli e negativi; il beffardo sarcasmo di Enrico Maria Salerno nei panni di un'attore ("quello lì l'ho lanciato io" suggerisce Tognazzi-Baggini prima della vorticosa, umiliante mise in scene del treno), il pubblicitario imbroglione Cianfanna di Manfredi.

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lunedì 2 maggio 2005

Recensione MANUALE D'AMORE

Recensione manuale d'amore




Regia di Giovanni Veronesi con Carlo Verdone, Luciana Littizzetto, Silvio Muccino, Sergio Rubini, Margherita Buy, Jasmine Trinca, Rodolfo Corsato, Anita Caprioli, Sabrina Impacciatore

Recensione a cura di peucezia

Preceduto da un grosso battage pubblicitario e caratterizzato da un cast all star tutto nostrano, Manuale d'amore è una commedia ad episodi sulle varie fasi dell'amore non nel senso più rigido del termine in quanto i protagonisti interagiscono tra di loro e si danno la staffetta ad ogni cambio di situazione.

Il primo episodio interpretato da due giovani e promettenti attori: Jasmine Trinca (La stanza del figlio - La meglio gioventù) e Silvio Muccino, fratello minore - non meno noto- del regista Gabriele (Ricordati di me), parla dell'innamoramento, la fase più magica e forse difficile in un rapporto a due.
L'episodio quindi scorre come una commediola giovanile tra le avventure e i tentativi maldestri di conquista da parte di Muccino goffo e un po' "sfigato" e i dinieghi della corteggiata, altera e scostante ma solo per gioco.
Il più divertente sembra essere l'amico del cuore di lui che "subisce" gli struggimenti amorosi del protagonista e fa da narratore con ironico distacco.

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