martedì 30 dicembre 2008

Recensione EMBER - IL MISTERO DELLA CITTA' DI LUCE

Recensione ember - il mistero della citta' di luce




Regia di Gil Kenan con Bill Murray, Tim Robbins, Saoirse Ronan, Martin Landau, Mackenzie Crook, Toby Jones, Mary Kay Place, Marianne Jean-Baptiste, Robert Kane, B.J. Hogg

Recensione a cura di Francesca27

Il film è tratto dal romanzo omonimo di Jeanne DuPrau (edito dalla Rizzoli), un milione e cento mila copie vendute nei soli Stati Uniti. La realizzazione è stata affidata al regista Gil Kenan, ingaggiato da Robert Zemeckis eSteven Spielberg per la direzione di Monster house. Nel frattempo la società di Tom Hanks, qui produttore esecutivo, ha lavorato all'adattamento cinematografico del libro. Portati a termine i suoi impegni, Kenan ha iniziato a lavorare attivamente al progetto nell'estate del 2007.

La città di Ember è stata costruita per proteggere l'umanità da un terribile pericolo, sostenuta da un poderoso e avanzato generatore che garantisce l'illuminazione artificiale. Non si scorge cielo, o vento, a Ember. Sono passati oltre 250 anni da quando i costruttori hanno riposto in una cassetta chiusa ermeticamente, alcune informazioni di primaria importanza. La cassetta, che doveva passare di mano da sindaco a sindaco, fu smarrita dopo la morte del settimo. Ora Ember si sta avvicinando al buio più completo e solo la curiosità, la volontà e la scaltrezza di Lina Mayfleet e Doon Harrow, che vogliono salvare Ember e la sua gente dall'oscurità, faranno scoprire il mistero della città di luce.

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Recensione FIGLI

Recensione figli




Regia di Marco Bechis con Carlos Echevarria, Julia Sarano e Stefania Sandrelli, Enrique Pineyro

Recensione a cura di Mimmot

Il 24 marzo del 1976 il paese di Che Guevara e di Tania la guerrigliera, il paese dei "tangos" di Astor Piazzolla e di Osvaldo Pugliese, il paese ricco delle culture dei libri di Jorge Luis Borges e di Manuel Puig, il paese dei gauchos e delle pampas sterminate, precipitava in una dittatura militare, brutale e sanguinaria. Comunque la si chiami, dittatura, guerra "sucia", o stagione dei desaparecidos, il regime che, tra il '76 e l'83, ha sottomesso l'Argentina ha scritto una pagina tra le più tragiche e buie della storia dell'America latina e del mondo intero. Per capire bene cosa è successo bisogna ripercorrere un po' di storia.

Tutto era cominciato il 1 luglio del 1974, quando Maria Estella Martinez, detta Isabelita, terza moglie di Juan Domingo Peron, per continuità costituzionale, era diventata presidente dell'Argentina, succedendo al marito morto lo stesso giorno del '74.
Isabelita Martinez era una mediocre ballerina di un gruppo folkloristico che aveva conosciuto Peron nel 1955 durante il suo esilio a Panama. Abbandonata la cariera artistica aveva sposato, nel 1961 a Madrid,l'uomo politico argentino e lo aveva seguito nel suo esilio spagnolo, fino al suo rientro in patria nel 1973 per presentarsi alle elezioni. Vinte le elezioni, Peron diventò nuovamente Presidente dell'Argentina e Isabelita assunse la carica di vicepresidente. L'anno successivo Peron morì e Isabelita Martinez Peron, per continuità costituzionale, assunse la carica presidenziale lasciata vacante dal marito.

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lunedì 29 dicembre 2008

Recensione COME DIO COMANDA

Recensione come dio comanda




Regia di Gabriele Salvatores con Elio Germano, Filippo Timi, Fabio De Luigi, Angelica Leo, Vasco Mirandola, Ludovica Di Rocco, Alvaro Caleca, Alessandro Bressanello

Recensione a cura di GiorgioVillosio

Un padre border?line educa il figlio adolescente ad una scuola di rabbia, violenza e razzismo, respingendo l'aiuto dell'assistenza sociale. Con lui un ritardato mentale, cerebroleso per un incidente sul lavoro. Sui tre incombe una cupa tragedia di stupro e di morte.

Non è facile districarsi nel dedalo delle sperimentazioni del famoso regista, che spaziano a 360° nelle più svariate direzioni: di forma e di contenuti, di dimensione sociale e individuale, di taglio socio-politico o puramente filosofico, di immagini estetizzanti o di narrazioni concettose.
Agli esordi si affermava con racconti di ambito "esotico", in fuga dalla vecchia Europa (Mediterraneo, Marrakech, Puerto Escondido), ma pure, metaforicamente, da una realtà esistenziale considerata inaccettabile. Poi rivolgeva l'attenzione al sociale, gettando lo sguardo sui miseri panorami del nostro Sud, raccontando storie ordinarie di malaffare e di droga, o navigando metaforicamente nell'oceano della odierna realtà virtuale, in un viaggio senza mete precise. Continuando il suo cammino di sperimentazione il regista milanese affrontava pure il genere noir, con attori improvvisati e in aderenza strettissima alla tecnica del digitale, nel recente Quo vadis Baby?.
Due anni prima, invece, aveva portato al cinema un romanzo di Ammaniti, con Io non ho paura, celebratissimo da tutta la critica: storia tragica e commovente di un ambito sociale e morale estremamente degradato, nel profondo Sud.

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Recensione SOUTHLAND TALES

Recensione southland tales




Regia di Richard Kelly con The Rock, Seann William Scott, Sarah Michelle Gellar, Mandy Moore, Miranda Richardson, Kevin Smith

Recensione a cura di ferro84 (voto: 7,5)

Dopo il grande successo di Donnie Darko, Richard Kelly torna con un nuovo film controverso ed elegante che però frana sotto il peso dell'imponente ambizione del suo regista. Southland tales può essere identificato come il film dell'eccesso, dove operazioni di marketing si fondono con pseudo pretese autoriali.

Anche in questo film Richard Kelly dimostra di avere grandi potenzialità tecniche nonostante sia ancora molto presente il suo spirito emulativo verso i grandi registi indipendenti americani, già riscontrato in Donnie Darko.
Raccontare la trama di Southland Tales non è semplice in quanto diversi sono i piani narrativi che si intrecciano: ambientato in un fantomatico "altro presente", Kelly ci propone un mondo da "day after", in pieno svolgimento di una terza guerra mondiale. Il lungo perdurare del conflitto determinerà una crisi energetica e la relativa nascita della "U.S. Ident", losca organizzazione economica capace di convertire in energia i flussi oceanici. In questo mondo sbandato e in preda a veloci e inquietanti cambiamenti si intrecciano le storie della stella dei cinema Boxer Santaros, la pornostar Krysta Now e del poliziotto Roland Taverner.

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lunedì 22 dicembre 2008

Recensione IL GIARDINO DI LIMONI

Recensione il giardino di limoni




Regia di Eran Riklis con Hiam Abbass, Doron Tavory, Ali Suliman, Tarik Kopty, Amos Lavi

Recensione a cura di Mimmot

Quando un'opera cinematografica ti induce a riflettere a lungo sulla storia che viene rappresentata e riesce trasmetterti o a rafforzare modi di agire e di pensare, è segno che ci si trova di fronte ad un'opera efficace e di grande impatto sociale.
Quando poi la riflessione ha per oggetto ciò che davvero accade in certi paesi e agli esseri umani all'interno di un conflitto, vuol dire veramente che l'opera ha raggiunto l'obiettivo di descrivere il dramma dell'incomunicabilità e di una convivenza difficile che da sempre separa due popoli condannati a vivere sulla stessa terra.

Accade così con "Il giardino di limoni", un film di guerra ma non guerreggiato, un film sulla infinita contesa arabo-israeliana, vista con gli occhi di due donne; una storia di controversie familiari e di solidarietà, che porta a pensare e a credere che potrebbe esserci un altro modo di parlarsi e di capirsi se solo si riuscisse ad ascoltare con altri orecchi e altri intendimenti.
Ancora donne forti e determinate unite da un sentire comune e da una mesta solidarietà che, se solo potessero esprimersi compiutamente, umilierebbero la stoltezza della politica e della guerra.
Donne di confine, diverse in tutto ma unite nella stessa lotta contro le incomprensioni ed eguali nella speranza di poter essere arbitre del loro futuro.

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Recensione LA FINE DI SAN PIETROBURGO

Recensione la fine di san pietroburgo



Regia di Vsevolod I. Pudovkin con S. Komarov, A. Zemkova, A. Cistjakov, I. Cuvelev

Recensione a cura di Marco Iafrate (voto: 9,0)

4 maggio 1896: al teatro Acquarium di San Pietroburgo si inaugura l'apertura della stagione estiva, e soltanto qualche giorno dopo il cinema dei fratelli Lumière fa il suo ingresso nella capitale dell'impero russo; presto anche gli spettatori moscoviti, presso il teatro Ermitaz, vengono a conoscenza di questo insolito spettacolo. L'immenso potenziale del prodotto non sfugge ad artisti ed intellettuali; è il primo tassello per la nascita del cinema russo.
Ad un iniziale contesto da baraccone, il cinematografo dovette aspettare qualche anno prima di emanciparsi ed essere accolto in un più ampio ambito culturale e social; fu il fotografo Aleksandr O. Drankov nei primi del '900 ad organizzare il primo studio cinematografico russo in grado di concorrere con gli operatori stranieri: con la produzione di una serie di film fu il primo indiscusso sovrano del cinema russo.

Fondamentale in quegli anni fu la produzione di pellicole ispirate ai grandi classici della letteratura; furono portate sullo schermo centinaia di opere di grandi scrittori russi e stranieri (Tolstoj, Puskin, Gogol, Lermontov, Dickens, H. De Balzac), con pellicole che ebbero il merito di rendere popolari opere che alla popolazione analfabeta russa erano totalmente sconosciute.
Si arriva così al 1917, quando con la rivoluzione di febbraio lo zar Nicola II Romanov è costretto ad abdicare e la russia cessa di essere una monarchia lasciando definitivamente il potere ai bolscevichi con la rivoluzione di ottobre; si assiste così al passaggio dal vecchio cinema zarista alla splendida stagione del cinema sovietico degli anni '20. Fu Lenin a scorgere nel cinema il mezzo più adatto per un processo di acculturazione: nelle sue direttive primeggiava un disegno pedagogico tale da unificare esigenze ideologiche, didattiche, divulgative ed estetiche.
Sono gli anni dell'"avanguardia sovietica", dei "futuristi" del LEF (fronte di sinistra dell'arte) e della "cultura proletaria"; i loro esponenti mirano all'elaborazione del linguaggio, al contenuto poetico, alla radicalità della rivoluzione d'ottobre e ad una visione del mondo imbevuta da un netto spirito di classe.

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sabato 20 dicembre 2008

Recensione BELL'EPOKER

Recensione bell'epoker



Regia di Nico Cirasola con Luca Cirasola, Totò Onnis, Frank Lino, Dino Abbrescia, Mini Martinelli, Teodosio Barresi, Gianni Colaiemma, Dante Marmone, Pinuccio Sinfisi, Nino Frassica

Recensione a cura di peucezia

Nico Cirasola è un regista pugliese poco noto ai più, sia in ambito nazionale che in ambito locale: le sue pellicole raccolgono un incasso minimo e si proiettano per pochi giorni; tuttavia il Nostro non manca mai di dire la sua su fatti, cose o storie che nel corso degli anni interessano la Puglia.
Il meccanismo è più o meno sempre lo stesso: scenografie semplici semplici, attori di poche pretese et voilà, les jeux sont faits!

Con "Bell'e poker" Cirasola ha voluto fare il salto di qualità, sia pure a modo suo? Per il cast ha attinto a piene mani dal teatro locale, attori bravi e capaci, famosi a Bari e già meno a Taranto o Brindisi, con l'aggiunta di un paio di "guest stars" del "calibro" di Nino Frassica e Claudio Botosso; tutto questo sforzo per parlare di un argomento scottante che pare gli sia costato persino delle serie intimidazioni: la sorte del Politeama Petruzzelli.
Cirasola ci ha messo tre anni per far uscire il film; ha subito intimidazioni, ma forte della sua etichetta di regista scomodo, atipico, ci ha tenuto a dire la sua anche in questa occasione. E a far pensare.

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Recensione HAPPY GO LUCKY - LA FELICITA' PORTA FORTUNA

Recensione happy go lucky - la felicita' porta fortuna




Regia di Mike Leigh con Sally Hawkins, Eddie Marsan, Nonso Anozie, Elliot Cowan, Samuel Roukin, Andrea Riseborough, Sarah Niles, Alexis Zegerman

Recensione a cura di GiorgioVillosio

Una giovane maestrina dei suburbi londinesi dispensa sorrisi, comprensione e amabilità a tutti. Ai limiti dell'eccesso, venendo a confronto con casi di segno opposto, nevrotici e autocentrati, portati a fraintendere il comportamento open di lei. Difficile dimenticare scene esilaranti, come nella lezione di flamenco.

"Happy Go Lucky", reduce dai grandi consensi di Berlino, che ha tributato l'orso d'argento come miglior attrice alla protagonista Sally Hawkins, è una commedia lieve e dolce ad opera di Mike Leigh, già vincitore al Festival di Venezia, anni or sono, con il ben più drammatico "Il segreto di Vera Drake".
Il cinema di Leigh appartiene al filone del "realismo", che assume connotazioni particolari a seconda del Paese di origine, in relazione al profilo sociologico nel momento storico in atto.
Ad esempio nell'Italia del dopoguerra, povera, lacera e sconfitta, si esprimevano i drammi sociali della miseria generale e degli orfani abbandonati; come invece, nella Russia dei Soviet, si raccontavano, con ottimismo speranzoso e propagandistico, le grandezze del socialismo "trionfante" in contesti agricolo-popolari.
Nell'Inghilterra del dopoguerra, al contrario, quello che era stato il primo impero del mondo, maramaldeggiando col suo potere per oltre un secolo, abbassava forzatamente le ali, rinunciando alla grandeur ormai appannaggio degli alleati-cugini americani; il che, sul piano artistico, non poteva che produrre una qualità diversa, a nostro avviso superiore. Con una maggiore attenzione alla psicologia dei singoli, all'introspezione individuale, alla riflessione sulle umane miserie e sulla caducità dei più deboli; i cosiddetti "Vinti" del nostro ciclo verista, o "perdenti", come oggi definiti i più poveri dalla nostra società "opulenta".
Ma forse c'è qualcosa nell'aria che induce i più sensibili ad aggiustare il tiro (sarà l'incombente crisi globale del capitalismo?).

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giovedì 18 dicembre 2008

Recensione THE MILLIONAIRE

Recensione the millionaire




Regia di Danny Boyle con Mia Drake, Imran Hasnee, Anil Kapoor, Irfan Khan, Madhur Mittal, Dev Patel, Freida Pinto, Shruti Seth

Recensione a cura di ferro84 (voto: 7,0)

L'India è un paese che si appresta a diventare una delle maggiori potenze politiche mondiali ma, oggi come ieri, le contraddizioni economiche e sociali ne caratterizzano l'immagine all'estero. "Who wants to be millionaire?" è un formato di successo in tutto il mondo, ma in un Paese tanto difficile ha rappresentato qualcosa di più, diventando un vero e proprio fenomeno di costume, un'occasione di riscatto sociale e un sogno a portata di tutti.

Tratto dal romanzo di Vikas Swarup in "Question and answer" il regista inglese Danny Boyle dà voce a questo sogno, portando sul grande schermo un film duro e di denuncia ma anche una dichiarazione d'amore per il cinema indiano.

Jamal è un ragazzo delle immense baraccopoli di Bombay, che dopo una vita di stenti e di miseria arriverà a partecipare a "Chi vuol essere milionario".
La sua partecipazione sarà caratterizzata più che dalla sua scalata al montepremi, dall'accusa di truffa che lo condurrà fino all'arresto.
Lo spunto del film è decisamente interessante e Boyle ci sa fare a mantenere un ritmo adeguato. In primo luogo lo stile narrativo è asciutto e dinamico e il film è articolato in continui flashback che hanno come riferimento le domande del programma.
Qui va dato atto che la trovata di imporre il racconto in questo modo crea una perfetta fusione fra il quiz e la vita dei protagonista, facendo della scalata al milione, efficace metafora della vita di quest'ultimo e della sua rivincita.

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Recensione IL BUIO NELLA MENTE

Recensione il buio nella mente




Regia di Claude Chabrol con Sandrine Bonnaire, Isabelle Huppert, Jacqueline Bisset, Jean-Pierre Cassel

Recensione a cura di Pasionaria (voto: 7,5)

Nella mente di ciascuno coesistono il buio e la luce, non di rado succede che essi si sfiorino o addirittura si sovrappongano per poi riequilibrarsi, talvolta è il buio a prendere definitivamente il sopravvento, senza ritorno.

E' dal confine fra buio e luce che trae spunto il film di Chabrol (il cui titolo italiano per una volta ci indovina): una storia borderline tra ragione e follia ispirata al romanzo di Ruth Rendell "La morte non sa leggere" (con lo stesso titolo era già uscito nel 1986 un film canadese di Dusama Ravi, passato pressochè inosservato al pubblico).
Chabrol, tuttavia, non solo riprende il racconto noir della Rendell, altresì lo rielabora, lo fa suo, sviluppando l'intreccio nell'odiata/amata provincia francese e soprattutto imbastendolo sull'ordito della consueta critica alla vecchia classe borghese.

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lunedì 15 dicembre 2008

Recensione FRONTIERS - AI CONFINI DELL'INFERNO

Recensione frontiers - ai confini dell'inferno




Regia di Xavier Gens con Karina Testa, Aurélien Wiik, Patrick Ligardes, David Saracino, Chems Dahmani, Maud Forget, Samuel Le Bihan, Estelle Lefébure, Jean-Pierre Jorris

Recensione a cura di L.P. (voto: 6,5)

Distribuito da noi con quasi un anno di ritardo, "Frontiers" è l'ennesimo, brutale horror francese che pretende di competere con i colossi americani del genere. A livello artistico, non si tratta di una competizione troppo difficile; ci vuole poco, infatti, a sbaragliare la produzione statunitense dell'orrore degli ultimi anni, e non è un caso se i film europei di genere si stanno guadagnando una fetta considerevole di appassionati.
Il caso di "Frontiers" è però particolare: l'opera di Xavier Gens infatti si pone, a livello produttivo, sullo stesso piano degli americani, sfidandoli direttamente; non ci troviamo di fronte al solito film girato con un budget ridicolo, una troupe di amici e una certa approssimazione estetica dovuta alla mancanza di investimenti. Quello che stupisce, guardando Frontiers, è proprio la sua natura di prodotto patinato, che ostenta una ricchezza di mezzi davvero insolita per un film di genere europeo.
È un dato importante da sottolineare: significa che finalmente nel vecchio continente qualcosa si sta muovendo, e comincia a esistere una realtà produttiva che ha il desiderio di investire su un genere da troppi anni bistrattato. Forse c'è qualche speranza anche per l'Italia.

Purtroppo, le notizie positive finiscono qui. "Frontiers" non è simile ai torture movie americani dell'ultimo quinquennio soltanto da un punto di vista produttivo, ma li scimmiotta in tutto e per tutto, risultando, alla fine della visione, l'ennesimo clone che puzza di vecchio e già visto.
Ed è un peccato, perché si respira professionalità a ogni inquadratura. La recitazione è ottima, gli effetti speciali dal vero estremamente realistici (quelli in computer grafica un po' meno) e lo stesso Gens (nonostante il pessimo "The Hitman", che però è posteriore di qualche mese a "Frontiers") dimostra di avere un certo talento nel creare atmosfere inquietanti e macabre, ed alcuni personaggi (la donna-bambina pazza e il vecchio gerarca nazista capo famiglia) sono tratteggiati con cura e rimangono abbastanza impressi.

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Recensione L'UOMO DI ARAN

Recensione l'uomo di aran




Regia di Robert J. Flaherty con Pat Mullen, Michael Dillane, Maggie Dillane, Colman 'Tiger' King

Recensione a cura di Marco Iafrate

Ad Inishmore, inospitale isola ad ovest dell'Irlanda nell'arcipelago delle Aran, la lotta dell'uomo contro le avversità della natura per gli abitanti dell'isola rappresenta la quotidianità, e la principale fonte di sostentamento è il mare, un elemento della natura che in quel luogo, soggetto a ripetute tempeste, incute ancora timore.
E' in questo posto che nel lontano 1934 un temerario regista americano di origini irlandesi decide di girare un film-documentario sulla vita dei pescatori che lo popolano; prende vita così "L'uomo di Aran".

Robert Joseph Flaherty nasce nel febbraio del 1884 ad Iron Mountain in Michigan, le sue opere, grazie all'espressività del documentario, influirono in modo determinante sullo sviluppo del cinema e tutte le convenzioni stabilite dai processi produttivi dell'epoca furono stravolte.
Nella sua carriera il regista basò tutti i suoi lavori su un tema unico: la capacità di resistenza dell'essere umano di fronte alla furia degli elementi propri della natura, e per questo scelse di ambientare prevalentemente i suoi film tra le popolazioni che vivevano in condizioni estreme ("Nanouk", intenso quadro elegiaco sulla vita degli eschimesi ne è un esempio). L'intensità con la quale il regista descriveva il rapporto tra le due forze in campo (l'uomo e la natura) era tale da conferire ai suoi lavori una profonda liricità; quello che maggiormente affascinava Flaherty era la forza della natura, non come forza fine a se stessa, ma come elemento di contrasto alle esigenze dell'uomo, come l'aridità e la scarsità della terra coltivabile o il mare in tempesta come ostacolo per la pesca.

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venerdì 12 dicembre 2008

Recensione L'OSPITE INATTESO

Recensione l'ospite inatteso




Regia di Thomas McCarthy con Richard Jenkins, Haaz Sleiman, Danai Jekesai Gurira, Hiam Abbass, Marian Seldes, Maggie Moore, Michael Cumpsty, Bill McHenry, Richard Kind, Tzahi Moskovitz

Recensione a cura di Mimmot

Piccolo, grande (ed inatteso) film, "L'ospite inatteso" è una di quelle (ormai rare) pellicole che hanno il grande pregio di rivoltarti l'animo e di restarti impresso nella memoria anche parecchio tempo dopo che la parola "fine" è apparsa sullo schermo; una pellicola che regala momenti molto intensi, a volte drammatici, a volte divertenti, che sa parlare di gente e alla gente, con l'obiettivo di svelare sentimenti che convergono nelle solitudini.
Una pellicola che vuole essere (ed è) cinema civile e di denuncia verso una Nazione che si diceva orgogliosa di incarnare gli ideali di libertà e di democrazia, di tolleranza e di solidarietà e che invece ha fatto del problema dell'immigrazione, dopo l'11 settembre, una realtà desolante che dimentica e discrimina l'uomo.
Una pellicola che racconta un fatto accaduto all'ombra della Statua della Libertà, che per lungo tempo e per tanti poveri emigranti ha rappresentato l'emblema e il simbolo del "sogno americano": un sogno promesso ma difficilmente raggiungibile.

Protagonista è il sessantenne e misantropo professore universitario di economia, Walter Vale.
Avvizzito e rinunciatario, rinchiuso nel suo angusto microcosmo, nel quale si è ripiegato dopo la morte della moglie, valente pianista di musica classica, sembra aver perso la voglia di vivere e ogni piacere della vita.
Da cinque anni, ormai (dalla morte della moglie), si trascina tra le stesse, monotone lezioni che, svogliatamente ripropone all'università e le inutili ripetizioni di pianoforte, che si ostina a prendere, forse perché ancora prigioniero del ricordo della moglie, nonostante sia profondamente negato e abbia scarse possibilità di imparare a suonare lo strumento.
La sua vita, però, subisce un profondo cambiamento quando, riluttante, si vede costretto a lasciare il Connecticut e a recarsi a New York per presenziare ad una conferenza socio/economica, in sostituzione di un collega malato.

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