venerdì 31 marzo 2006

Recensione IL CAIMANO

Recensione il caimano




Regia di Nanni Moretti con Silvio Orlando, Margherita Buy, Jasmine Trinca, Michele Placido, Giuliano Montaldo, Antonio Luigi Grimaldi, Paolo Sorrentino

Recensione a cura di maremare

"Ma tutti questi soldi, in realtà, da dove vengono?".
(Indro Montanelli)

Con questa sua ultima fatica, Moretti non firma certo uno dei suoi film migliori, firma però uno dei film più studiati e maturi.
L'ambizione non è quella di realizzare un film su Berlusconi, è quella di realizzare un film sul Potere.
Per fare ciò Moretti attua una sorta di autoterapia, nel senso che tutto il film appare essere un immane sforzo di autocura individuale. L'intento è encomiabile e raffinato, e non sarà colto dai più.
Il cinema, l'arte, perché sia tale, credo non possa prescindere da una visione soggettiva delle cose che, magicamente, riesca a parlare alla collettività. Certo il campo è minato, poiché l'argomento è politico e attuale, quindi menti semplici potrebbero trovare l'abbrivio per cavalcate anticomuniste.
Per questo Moretti si circonda di tanti amici cinematografari (Sorrentino, Virzì, Montaldo, Garrone, Grimaldi), lo fa per sentirsi più rassicurato nell'affrontare "Il Caimano". In maniera ossessiva costruisce un film a blocchi, addirittura scomponibili tra loro: un film sul mondo del cinema, un film sul mondo coniugale del produttore, un film su Berlusconi. Nonostante l'immane sforzo di cesura, è forse l'eccessiva costruzione ad appesantire il film e se di ogni blocco si fosse fatto un mediometraggio autonomo, questi sarebbero stati più fruibili e gradevoli. Ma sarebbero stati altri film. Ne "Il Caimano", invece, a seguito di questa costruzione, a volte si ha la sensazione di assistere a sketch un po' slegati dal film, come quello, divertentissimo, del tamponamento di Orlando, quando scopre che il film che vuole girare sarà sul Presidente del Consiglio.

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Recensione IL DOTTOR STRANAMORE

Recensione il dottor stranamore




Regia di Stanley Kubrick con Peter Sellers, George C. Scott, Sterling Hayden, Keenan Wynn

Recensione a cura di Antonio Cocco

"Il dottor Stranamore": ovvero come il mondo imparò a "preoccuparsi" e ad amare Kubrick.
Solo un giovane regista spregiudicato, ma dotato di genio immenso, poteva realizzare una commedia nera sulla distruzione della terra, proprio mentre il pianeta rischiava davvero di saltare in aria sotto la minaccia atomica... ovvero in piena guerra fredda.
La pellicola è un inno alla pace e una critica feroce alla follia e all'incompetenza dei politici, resa a mo' di satira pungente che smaschera la sufficienza e l'arroganza dei governanti americani e russi, richiamando quegli scenari catastrofici a cui siamo andati vicini quando la guerra fredda sembrava preludere alla terza guerra mondiale.
La sceneggiatura è studiata nei dettagli e rende la trama coinvolgente fino all'ultimo, tenendo lo spettatore con il fiato sospeso.

Jack Ripper, paranoico generale anticomunista, prende una decisione estrema: ordina alla sua flotta aerea di sganciare le bombe atomiche sul territorio russo, in modo da risolvere la situazione d'empasse a favore degli USA.
Il presidente degli Stati Uniti, all'oscuro dell'insano gesto del suo generale, tenta con gran difficoltà di annullare l'ordine, giacché il generale Ripper, pur di non rivelare il codice segreto che revocherebbe il suo comando, si toglie la vita.
E' assolutamente necessario impedire un attacco atomico, poiché questo innescherebbe il tanto temuto ordigno russo chiamato "fine del mondo", che si attiverebbe automaticamente in caso di bombardamento americano distruggendo gran parte del pianeta.
Gli aerei sono tutti richiamati, tranne uno, che riesce ad evitare i missili russi che cercano di abbatterlo e porta a compimento la sua missione.

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giovedì 30 marzo 2006

Recensione LA FIAMMA SUL GHIACCIO

Recensione la fiamma sul ghiaccio




Regia di Umberto Marino con Raoul Bova, Donatella Finocchiaro, Massimiliano Giusti

Recensione a cura di GiorgioVillosio

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Fin troppo facile, al limite del banale, la metafora che dà titolo al prezioso film di Marino, dove la fiamma sarebbe la travolgente passione della protagonista mentalmente disturbata, per il giovane e bel professore, profondamente autistico, "affettivamente " irraggiungibile, e quindi ghiaccio). Ma la passiamo volentieri come culpa levis" per due motivi: in primo luogo perché nelle didascalie finali abbiamo letto un titolo analogo nella colonna sonora, e può quindi risultare una citazione voluta.
In effetti non c'è niente di male a seguire suggestioni dall'esterno, soprattutto ove queste vengano dalla musica, che scava a livello subliminale; come infatti succede piacevolmente nel film, con tante canzoni spagnole, e soprattutto con la trepida e inquietante voce di Umberto Bindi, poco noto forse ai più giovani, ma per noi madre di tutte le battaglie da cantautore di Italia: raro ed ineguagliato poeta, scomparso di recente, in silenzio, nella distrazione generale (qui cantava Il mio mondo).

Citavo la qualità della colonna sonora non a caso, perché non mi sembra semplice complemento del film, ma parte integrante a sé, come altri componenti. Intendo dire che il lavoro di Marino, più che un unicum complessivo, sembra costituito dalla sovrapposizione di elementi diversi, per quanto tutti validi, come nei lavori teatrali (in cui soggetto e interpreti sembrano vivere di vita propria, diversificandosi dal contorno di scenografie ed ambienti, per l'intrinseca difficoltà di dovere simulare un unico mondo esterno su un semplice palco).
Mentre il cinema ha ben altri strumenti per avvicinare la finzione al reale, miscelando coerentemente le diverse componenti del racconto, in barba alle unità di tempo e di spazio: cambiando luoghi di continuo e interpreti in scena, senza limiti di movimento e di effetti (qui le fasi del racconto erano sovente distanziati da dissolvenze a tendina).
Nel caso del film di Marino, sembra che la scansione dei vari elementi risenta della estrazione di autore teatrale del regista, per una certa frammentazione, come sopra detto, imponendoci di esaminare uno ad uno i vari elementi.

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Recensione NESSUN MESSAGGIO IN SEGRETERIA

Recensione nessun messaggio in segreteria




Regia di Luca Miniero, Paolo Genovese con Pier Francesco Favino, Carlo Delle Piane, Lorenza Indovina, Anna Falchi, Valerio Mastandrea

Recensione a cura di peucezia

In questi ultimi anni la nostra cinematografia sta attraversando una profonda crisi di idee e di contenuti sfornando di continuo commedie giovanilistiche, o di basso profilo, o storie astruse e minimaliste. Gli spiragli di luce si intravedono di tanto in tanto e fa piacere salutare benevolmente chi prova a fare qualcosa di diverso.
"Nessun messaggio in segreteria", uscito nel 2005 e prodotto dalla signora Ricucci alias Falchi che, tra l'altro, si ritaglia un ruolo su misura per lei (ergo di basso profilo) sembra essere la classica eccezione del film commedia (realizzato tra l'altro con scarso dispendio economico) con qualche variante alla tipologia abituale.

I registi Luca Miniero e Paolo Genovese non sono nuovi ad avventure del genere poiché pochi anni or sono ci hanno deliziato con "Incantesimo napoletano" un autentico caso cinematografico.
Entrando nel vivo della pellicola, occorre dire anzitutto che parte da un'indagine sociologica ed economica che si conclude con un'affermazione abbastanza plateale: per ogni pensionato c'è un giovane che lavora per lui.
Questa frase diventa l'ossessione del ancora giovanile settantenne Walter (un sempre professionale Carlo Delle Piane) che da quel momento cerca di attivarsi maggiormente ad aiutare chi lo sta aiutando a vivere. Accanto a lui, protagonista principale ma non assoluto, alcuni attori più o meno giovani , più o meno promettenti sicuramente destinati a essere sempre più presenti sui nostri schermi.
Così, come Delle Piane si è sempre portato nel DNA il ruolo di brutto solitario e malinconico, (poi leggermente sovvertito da alcune interpretazioni della tarda maturità) ecco come Pierfrancesco Favino, (Piero) ultimamente abbastanza onnipresente, con la sua faccia da cane bastonato in cerca di affetto e comprensione, sembra essere l'incarnazione del trentenne patologicamente timido e quindi sfigato, mentre Valerio Mastrandrea, mascellone volitivo e sguardo furbo, nel film alter ego di Piero, incarna il ruolo del piacione un po'sbruffone.

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mercoledì 29 marzo 2006

Recensione LA GUERRA DI MARIO

Recensione la guerra di mario




Regia di Antonio Capuano con Valeria Golino, Marco Grieco, Andrea Renzi, Anita Caprioli, Rosaria De Cicco, Antonio Pennarella

Recensione a cura di GiorgioVillosio

Giusto ieri sera ho visto il film di Capuano, e proprio oggi ci arriva dal paese di Cutolo, tristo boss della camorra, la drammatica testimonianza degli studenti di una scuola superiore di Ottaviano: il 46% la ritiene invincibile, mentre il 12% esprime giudizi favorevoli sulle cosche.
Basterebbe questo a inquadrare l'ambiente descritto nel film come originario del piccolo interprete Mario (Grieco, grande attore in erba!), e le ragioni socio-culturali del suo malessere di fondo.
Altrettanto vale per la famiglia di sangue del piccolo "deviante", la madre prostituta, sboccata, insensibile e senza ritegni, e il suo ganzo, mariuolo impenitente, tipico figuro dei bassi napoletani, personaggio classico del "teatro dell'arte" locale: "o malamente"!
In aggiunta il contorno dei piccoli guappi, sulla strada fin da bambini, descolarizzati, arroganti ed aggressivi, avviati realisticamente ad un futuro senza speranze. Ben triste, questo quadro, che, mutatis mutandis, ci rinvia al destino perso e disperante dei piccoli prostituti/e del turismo sessuale, senza prospettive di una vita umanamente degna.

Nel racconto, poi, sembra che la piccola vittima, Mario, abbia piena coscienza di quello che gli succede, ma che lo viva come un destino crudele e ineluttabile, da esorcizzare attraverso il racconto fantastico della sua guerra personale, ingaggiata col vivere; come nei bei versi poetici, che ci vengono in mente, di una "Lettera dal fronte" di 'sta guerra infinita che ci ha dato la vita...'. E proprio nel commento intimo "fuori campo" del piccolo interprete sta a mio avviso, la trovata più originale e commovente del film.
Che invece si perde sugli altri elementi portanti. Sul contesto sopra delineato, infatti, si innesta una ponderosa storia di adozione ed affidamento, con simbologie di tre valenze diverse: politiche, morali e psicologiche.
Per le prime: la evidente contrapposizione tra il mondo borghese privilegiato che offre accoglienza al bambino disadattato, ma che vuole mantenere bene le distanza dal suo entourage di origine (soprattutto a livello istituzionale, di scuola e apparati giudiziari).
Sul piano morale ci si interroga sul diritto dell'individuo a scegliersi la vita autonomamente, anche in opposizione alla cosiddetta "normalità" (quando Mario rifiuta l'insegnamento del pianoforte e ci prova da solo... sostenuto in questo dalla madre).
E infine, al di sopra di tutti gli altri, il terzo aspetto citato, che riguarda aspetti fondamentali della psicologia umana toccando le corde diverse dell'amore al femminile e al maschile, di maternità e paternità, dei rapporti edipici con le proprie radici, delle priorità effettive di uomo e donna.

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Recensione IL BACIO DELL'ASSASSINO

Recensione il bacio dell'assassino




Regia di Stanley Kubrick con Frank Silvera, Jamie Smith, Irene Kane, Jerry Jarret, Ruth Sobotka

Recensione a cura di Giordano Biagio

Secondo lungometraggio per Kubrick che firma anche il soggetto originale, la sceneggiatura, la fotografia, il montaggio e la produzione. Realizzato nel 1955 in 20 giorni per 75.000 dollari.
Kubrick rielabora sapientemente alcuni codici tipici del genere noir preannunciando quella che sarà la funzione artistica più significativa della sua storia di grande cineasta: potenziare il sistema dei generi Hollywoodiani dandogli nuove forme linguistiche e assemblaggi intercomunicativi di rilievo. Kubrick lascia il segno in quella che è da sempre una delle sfide storiche del cinema: portare la filmitudine del film, cioè la sua capacità di designare se stesso (attraverso la sintassi e la morfologia linguistica iconica), a livelli più elevati; ciò al fine di dare maggiore spessore comunicativo e scorrevolezza narrativa al racconto filmico. Kubrick gioca questa partita nel campo delle enunciazioni impersonali o luoghi filmici (Christian Metz) dando un contributo tecnico vincente perché costituito da teoremi visivi nuovi in grado di tradurre sempre meglio i pensieri in immagini.

Questo film consente autorevolmente al pubblico di fare esperienza con il talento straordinario di Kubrick. Talento che si precisa e si riconosce nella capacità del regista di rappresentare una storia senza mai sfilacciarne la corda narrativa. Questione anche di studio e di lavoro (20 ore al giorno) nonché di idee puntualmente chiare sugli obiettivi da raggiungere: quale l'andare oltre l'inventato avvalendosi della forza-risorsa che il confronto incessante con i limiti linguistici dei film del passato gli dava.

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martedì 28 marzo 2006

Recensione LA VITA SEGRETA DELLE PAROLE

Recensione la vita segreta delle parole




Regia di Isabel Coixet con Sarah Polley, Tim Robbins, Julie Christie, Javier Cámara

Recensione a cura di GiorgioVillosio

Perché mai la critica sia stata così tiepida con questo delicato film della spagnola Coixet è difficile da spiegare. Forse perché abituati, come ormai tutti sono, ai toni roboanti e fragorosi, alle violenze raccontate nel minimo dettaglio, alle scene plateali e agli effetti facili, viene meno la capacità di ascoltare le voci sussurrate, i moti profondi dell'anima e le immagini simboliche: in pratica il canto dolce della poesia... e la vita segreta delle parole!

E di parole proprio si tratta nel film. Del non detto che cova nel profondo delle nostre anime e che fatica ad emergere, prorompendo poi in una esplosione catartica e liberatoria, o avvincendoci sempre di più nelle catene del silenzio e dell'incapacità di comunicare, con meccanismi nevrotici o psicotici.
Autistica sembra, infatti, agli inizi la bionda protagonista, chiusa in un ostinato dolore, che l'ha resa, non a caso, sorda; anche se la causa di tale malessere non è come solitamente accade, di natura "affettivistica", ma di origine traumatica. Le strade del suo destino vanno ad incrociarsi con quelle di un tecnico, provvisoriamente accecato da un incidente su una piattaforma petrolifera del mare del Nord. Nel suo mese di ferie la giovane infelice decide di curarsi di lui come infermiera, iniziando un rapporto di progressiva e reciproca confidenza, che li porterà entrambi a nutrire fiducia nell'altro, affidandogli con muta commozione il proprio progetto esistenziale: in toto, come se il mondo esterno non esistesse (chi ricorda "David e Lisa"?), e fossero isolati su un'isola deserta.
Dove la facile metafora, espressa pari pari dal malato in lettiga, coincide con l'idea centrale del film, ambientato su una piattaforma marina disperatamente isolata nei mari artici, raggiungibile solo con gli elicotteri.

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Recensione DANCER IN THE DARK

Recensione dancer in the dark




Regia di Lars Von Trier con Björk, Catherine Deneuve, David Morse, Peter Stormare, Joel Grey, Cara Seymour, Jean-Marc Barr, Siobhan Fallon, Zeljko Ivanek, Udo Kier, Reathel Bean

Recensione a cura di peucezia

Il film, uscito nel 2000, segna l'esordio sulle scene cinematografiche della cantante Bjork, islandese ma di fama internazionale.
Lars von Trier sembra uscire un attimo dalle regole del DOGMA, manifesto cinematografico sottoscritto insieme ad un gruppo di giovani cineasti danesi nel 1995, concedendosi qualche libertà, ma pur sempre mantenendo il purismo e il verismo predicati da tale movimento.
L'uso della camera a mano, il realismo dei dialoghi sostenuto anche dalla presa diretta, sono caratteristiche del movimento che vengono rispettate in pieno dal regista, il quale però, esce dagli schemi tentando una sua via di film musicale o piuttosto di melodramma considerando l'alta drammaticità della tematica affrontata.

Le canzoni, interpretate con grande impeto da Bjork, sono il mondo sognato e sognante della protagonista, un tentativo di fuga da una realtà triste e impassibile dalla quale sembra impossibile fuggire in cerca di un domani migliore e, nello stesso tempo, rappresentano il flusso di coscienza dei vari protagonisti (da ricordare il momento in cui Selma tenta di darsi una ragione della sua imminente cecità: ho visto tutto quello che avrei dovuto vedere recitano i versi della sua canzone).
E' proprio questo futuro migliore, non per sé stessa ma per suo figlio, il vero sogno di Selma (Bjork), giovane operaia di origine ceca.
Il lavoro ed il dolore di una futura cecità sono le uniche, autentiche realtà della donna, il mondo dei musical il sogno, il tentativo di fuga da un mondo ostile.
Eppure anche Selma ha chi si prende cura di lei: Jeff (l'uomo innamorato della ragazza) e Kathy (Catherine Deneuve, molto misurata e compresa nella parte), una collega di lavoro che per gran parte del film sembra essere il suo angelo custode.
Ciononostante non possono esistere nei film di von Trier spiragli autentici di speranza e bontà, il suo realismo esasperato ed esasperante ci dice che tutto è cattivo, che solo il buio della morte è quello che aspetta anche chi ha fatto della propria esistenza una continua rinuncia.

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lunedì 27 marzo 2006

Recensione ANGEL-A

Recensione angel-a




Regia di Luc Besson con Jamel Debbouze, Rie Rasmussen, Franck-Olivier Bonnet, Michel Chesneau, Olivier Claverie, Akim Colour, Tonio Descanvelle, Sara Forestier

Recensione a cura di GiorgioVillosio

Ricetta per X persone, che abbiano un ottimo stomaco: mettete cinquanta grammi di problema extracomunitario, di grande attualità (banlieu e affini), un etto di voyeurismo sexy con una manza bionda da 190 cm, mai vista, una salsa di cinema noir in compresse, alcune maschere di malviventi, ed un bel pesce nero con l'occhio sentimentale da triglia lessa del Marocco (...con passaporto americano, chissà perché?).
Rimestate bene il tutto, a fuoco molto lento, esasperando la lentezza, e sempre nello stesso verso (come i dialoghi di triglia e giraffa); aggiungete un pizzico di new age, una spolverata di psicanalisi e, per finire, condite tutto con del nero di seppia.
A questo punto guarnite il piatto con una decorazione strutturale di ponti parigini, e coprite il tutto con sentimentalismo alla melassa; per finire presentate l'insieme in modo armonioso, con dolcissima musica e toni fiabeschi, per avere in tavola... l'ultimo film di Luc Besson: "ANGEL-A".
Il quale poi si lamenta pubblicamente di non piacere ai suoi connazionali! Ma cosa pretende?

Nel paese di enciclopedisti ed illuministi, di Voltaire e di Cartesio... profeti della logica per la logica... vorrebbe pure piacere con prodotti sì estrosi, se vogliamo, ma non classificabili in alcun modo nella dimensione della ragione.
Intendiamoci, il cinema è essenzialmente metafora e, dunque, non necessariamente ancorato a realismo e razionalità, ma il linguaggio immaginifico, per "comunicare all'utenza" deve comunque essere decodificabile, e condivisibile in una qualche misura.
Salvo, come in questo caso, ricorrere alla favola per giustificare l'impossibilità di farlo, appellandosi alla fantasia per la fantasia, come è, in effetti del mondo infantile. I bambini sì "fanno ooh!" davanti ad ogni meraviglia, ancora affrancati dall'esigenza "adulta" di rendersi conto delle cose e di decodificare i messaggi ai fini della conoscenza; ma i grandi, ove non rifiutino le fiabe in assoluto, ne cercano quanto meno una valenza psicanalitica di fondo.
E siccome "Angel-A" di Besson non è poi altro che una fiaba, cerchiamo di analizzarla sotto l'aspetto simbolico.

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venerdì 24 marzo 2006

Recensione V PER VENDETTA

Recensione v per vendetta




Regia di James McTeigue con Natalie Portman, Hugo Weaving, Sinéad Cusack, Nicolas de Pruyssenaere, K.B. Forbes, Stephen Fry

Recensione a cura di Simone Bracci

Ricorda sempre il 5 Novembre, la Congiura delle polveri. Niente male come incipit tratto da eventi storici, per un film che si proclama dai forti temi rivoluzionari e di cui è stata posticipata l'uscita per l'analogia con gli attentati londinesi dello scorso anno.
S'inizia subito in uno stato quasi onirico in cui lo spettatore sprofonda e dove le prime colorite sequenze richiamano ad una rappresentazione teatrale ed enfatica che gli amanti del fumetto ricordano benissimo. L'entrata in scena della maschera di Guy Fawkes (tra le musiche firmate dall'italiano Dario Marianelli) è uno spiraglio di sollievo che fa da contraltare al continuo richiamo alle suggestioni ipnotiche indotte dal regime neonazista.
Regime imposto in quell'Inghilterra scampata alla guerra nucleare e oppressa da una dittatura poliziesca, dove una giovane donna, Evey viene salvata da V, un uomo dietro alla maschera che vuole vendicarsi di coloro (il Governo) che l'hanno sottoposto a crudeli esperimenti medici: inizia così la sua rivolta contro il potere, in cui cercherà di sollevare i suoi concittadini contro la tirannia e ristabilire la libertà.

Spettacolare e inquietante l'inizio del film, scritto e riaggiornato dai fratelli Wachowsky, che rievocano le atmosfere post-futuristiche del primo "Matrix", senza eccessi di sorta, ma su uno sfondo poetico-pragmatico che caratterizza tutta la pellicola.
Diretto dal loro assistente alla regia James McTeigue, "V per Vendetta" è un'opera fortemente simbolica, coinvolgente ed emozionante, la storia di V prende allo stomaco e viene riflessa in una contemporaneità che ha vissuto la drammaticità di un passato simile, imponendo di riflettere su un'eventualità (quella del regime salito al potere con meschinità e repressione) che nessuno si augura accada mai più.
Naturalmente non manca la morale contro il terrorismo, i crimini di cui si macchia V, sottolineati dalla bella Evey prima della sua trasformazione in combattente e fervente rivoluzionaria: anche nel suo look rasato, Natalie Portman dimostra tutto il suo talento e il fascino della propria femminilità, mentre il povero Hugo Weaving cerca di animare come può la fissità della maschera che lo nasconde agli occhi di tutti e dell'amata Evey.

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giovedì 23 marzo 2006

Recensione TOKYO-GA

Recensione tokyo-ga




Regia di Wim Wenders con Wim Wenders, Werner Herzog, Chishu Ryu, Yuuharu Atsuta

Recensione a cura di bungle77 (voto: 9,0)

"Se il sacro avesse ancora diritto ad un posto in questo secolo, e se ritenessimo giusto erigere un santuario del cinema, ci metterei l'opera del regista giapponese Yasujiro Ozu".
Pochi registi sono in grado di trasmettere le proprie passioni come Wenders e l'incipit di Tokyo-Ga ne è una conferma. Il regista tedesco ha sempre dato il meglio di sé nella realizzazione dei documentari piuttosto che nei lungometraggi di finzione.
L'insofferenza sempre mostrata dall'autore nei confronti della sceneggiatura, a partire da "Il cielo sopra Berlino" in poi, lo ha portato a realizzare delle opere di finzione sempre abbastanza dispersive, mentre parallelamente documentari come "Nick's Movie", "Lisbon Story" e "Buena Vista Social Club" hanno mostrato l'aspetto migliore dell'artista, la sua curiosità, il suo stile elegante, il suo uso sempre intelligente della musica.

"Tokyo-Ga" letteralmente significa "viaggio a Tokyo" e quello di Wenders nell'attuale Edo, infatti, è un vero viaggio; il regista non aveva mai visto la capitale giapponese prima. "Tokyo Monogatari" (lett. "Una storia di Tokyo") in italiano tradotto "Viaggio a Tokyo" è anche il film più famoso del regista nipponico, e non per nulla il documentario di Wenders si apre (e si chiude) con le sequenze iniziali e finali di questo film.
E' il 1983, il regista che sta lavorando alle riprese di "Paris, Texas" si reca a Tokyo per una quindicina di giorni al fine di presenziare ad una rassegna sul cinema tedesco.
Wenders che, come già accennato, nutre da sempre particolare interesse per i lavori documentaristici decide di portare con se una cinepresa. Chiede inoltre al direttore della fotografia Ed Lachman, che aveva curato le riprese di "Nick's Film" (splendido ritratto degli ultimi giorni di vita del regista N.Ray), di accompagnarlo nel viaggio. Proprio in questa sua breve permanenza nella capitale giapponese prende forma questo film/documentario. Come ben si capisce già a partire dall'incipit tutto il progetto nasce da un incommensurato amore per le opere del regista nipponico Yasujiro Ozu.
Wenders, cinepresa alla mano, parte così ad una disperata ricerca dei luoghi e personaggi ai quali Ozu consegnò l'immortalità. Ed è bravo nel farci credere nella sua buona fede e nelle sue intenzioni: si accinge a questo viaggio con la speranza fanciullesca di trovare qualcosa di prezioso, a lungo agognato, ignaro di ciò che lo attende. È qui che Wenders, con un tono tra lo stupito e l'amareggiato, prende atto che il Giappone delle locande, delle case basse, dei treni ("in ogni film di Ozu c'è almeno un treno"), delle tradizioni, ormai sembra praticamente svanito.
Le uniche tracce le ritrova andando ad intervistare i più stretti collaboratori del regista: il suo attore preferito, Chishu Ryu, e l'operatore di quasi tutti i suoi film, Yuharu Atsuta.

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mercoledì 22 marzo 2006

Recensione NOTTE PRIMA DEGLI ESAMI

Recensione notte prima degli esami




Regia di Fausto Brizzi con Giorgio Faletti, Cristiana Capotondi, Sarah Maestri, Nicolas Vaporidis, Elena Bouryka, Chiara Mastalli

Recensione a cura di peucezia

Opera prima di Fausto Brizzi, aiuto di Neri Parenti in molti film natalizi, la pellicola ha ottenuto un inaspettato successo tanto da risultare una delle più viste del primo trimestre 2006.
Tanto clamore può essere stato suscitato forse dal battage pubblicitario antecedente nonché dal titolo che richiama uno dei successi di Antonello Venditti, ma soprattutto è dovuto alla voglia di riflusso, di revival che da sempre anima l'essere umano.

Negli anni Settanta gli americani reduci dalla bruciante sconfitta del Vietnam pensarono alla loro verginità perduta riproponendo il ventennio precedente, i loro graffiti americani, i loro giorni felici arrivati poi anche in Italia. Poi dieci anni dopo l'allor giovane figlio di Steno pensò di restituire agli italiani un sapore di mare degli anni Sessanta condito con canzoni del decennio in questione e avvalendosi di uno stuolo di attori molti ancora sulla breccia (come Christian De Sica) e molti altri invece scomparsi per sempre inghiottiti dal crudele star system.
Brizzi, furbescamente, ha tentato la carta del revival ammiccando agli adolescenti del Duemila e sicuro di avere dalla sua anche i diciottenni di venti anni fa, ormai già preda dei ricordi della gioventù che viene una volta e non torna più.

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martedì 21 marzo 2006

Recensione GO NOW

Recensione go now




Regia di Michael Winterbottom con Tricky, Sophie Okonedo, James Nesbitt, Juliet Aubrey, Robert Carlyle

Recensione a cura di Luca.Prete

All'improvviso la disabilità. La disabilità che invalida l'esistenza, la disabilità che ti fa perdere la voglia di vivere, la disabilità che ti rende ogni cosa estremamente difficile da compiere. All'improvviso la sclerosi multipla, patologia che tutt'ora non ha una cura definitiva.
E' proprio l'invalidità, portata da una delle più gravi malattie neurologiche, il tema principale del film "Go Now" del regista inglese Michael Winterbottom con protagonista Robert Carlyle.
Carlyle interpreta Nick Cameron, operaio di Bristol che ha una vita come tante altre, estremamente semplice e comune, fatta del suo lavoro, della sua fidanzata Karen, delle partite di calcio con gli amici e delle serate trascorse al pub. L'ordinarietà viene improvvisamente spezzata quando Cameron si ammala di sclerosi multipla rubandogli tutto e costringendolo a muoversi su una sedia a rotelle.
Inizia per Nick la dura lotta per tollerarla. Niente più calcio, niente più corse, solo una immobilità cronica ed estremamente frustrante.

Winterbottom riesce a rappresentare la storia senza alcun pietismo, patetismo e compassione, non risultando troppo coinvolto nella vicenda di Nick ma limitandosi a registrare la convivenza molto dolorosa tra l'operaio e la malattia.
Dove, invece, la direzione del regista appare più intensa è nel racconto della vita di coppia tra Karen e Nick, lì, si può vedere una profondità di partecipazione sicuramente maggiore, sia nei momenti divertenti che in quelli più drammatici.
La storia di amore tra i due è un fattore chiave nel film in quanto usata come "palliativo" per attenuare la devastazione portata dalla sclerosi a placche, l'affetto di Karen rappresenterà per Nick un modo per convivere con la patologia.
Il film deve essere grato soprattutto ad uno strepitoso Rober Carlyle, che l'anno dopo sarebbe stato consacrato al grande pubblico con un film totalmente diverso, ossia "Trainspotting". Questi circondato da un valido gruppo di attori, tra cui spicca un'ottima Juliet Aubrey (Karen), dà una interpretazione difficile da dimenticare, riuscendo a mettere in evidenza il dolore e l'estremo patimento psico-fisico legato alla malattia, ma anche il desiderio di voler sopravvivere ad ogni costo.

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