martedì 29 aprile 2008

Recensione AFTERVILLE - THE MOVIE

Recensione afterville - the movie




Regia di Fabio Guaglione, Fabio Resinaro con -

Recensione a cura di fabrizio dividi

"Afterville" è un mediometraggio (27 min.) ambientato a Torino nel 2058, in un futuro dominato da gadget modernissimi, caratterizzato da una cultura decadente e da un dignitoso fatalismo tipicamente "sabaudo" e del tutto credibile nelle sue contraddizioni.
Il film racconta gli ultimi (?) giorni del capoluogo subalpino, che conserva il suo fascino architettonico pur avendo subito qualche decennio prima una invasione di astronavi aliene incastonatesi nello skyline cittadino e perfettamente metabolizzate dal tessuto urbano e sociale.
Ed ecco che quello che nei primi tempi era stato vissuto con paura, ora diventa normalità e il consumismo si impadronisce di queste "Rocce" costruendo loro attorno supermercati, loghi e prodotti griffati.

Uno scienziato (interpretato dal guru del Cyberpunk Bruce Sterling) crede di aver decifrato i messaggi che queste enormi macchine esobiologiche trasmettono in codice e fissa con precisione la data in cui "qualcosa" accadrà, ed ecco che i 50 anni che restano diventano per ognuno un lasso di tempo da vivere a modo proprio.
I torinesi intervistati da un onnipresente canale satellitare che detta i tempi della realtà quotidiana accettano il loro destino, chi con ironia (il segno distintivo degli ottimisti sono due dita incrociate) e chi con pacata rassegnazione, passando il tempo a casa o in locali a luce rossa con tanto di lap-dance in ologramma in una futuribile caffetteria della Mole Antonelliana. C'è anche spazio per ritrovare un amore o per rinsaldare un'amicizia ma ogni storia viene subordinata alla maestosa presenza delle grandi Rocce.

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lunedì 28 aprile 2008

Recensione VIRIDIANA

Recensione viridiana




Regia di Luis Buñuel con Francisco Rabal, Silvia Pinal, Victoria Zinny, Teresa Rabal, Fernando Rey, Margarita Lozano

Recensione a cura di Giordano Biagio (voto: 9,0)

Questo splendido ed indimenticabile film di Bunuel, oggi di difficile reperimento, esce nel 1961, in una Spagna ancora povera e teatro di molte superstizioni religiose.
Si avverte nel Paese la mancanza di un corso politico nuovo capace di mettere in moto un processo verso la democrazia; la nazione è egemonizzata da un cattolicesimo pigro, autoritario, non del tutto autonomo da una dittatura borghese sempre più aggressiva e decisa a dettare condizioni e regole di vita. La Spagna agli inizi degli anni '60 è un Paese molto arretrato, la gerarchia ecclesiastica si sostiene su una tradizione vetusta che ostacola il nuovo portando i giovani predicatori a gravi crisi di identità; è proibita qualsiasi libera manifestazione di idee politiche innovative o pensieri legati ad un mondo più astratto, artistico, e l'isolamento della Spagna dall'Europa più democratica e civile è pressoché totale.

In questo difficile e triste contesto storico Bunuel produce un film scandalo, di grande efficacia provocatrice, basato sulla descrizione e rappresentazione letteraria di un percorso di fede in una donna, Viridiana, sul punto di entrare in convento; la novizia monaca, sospinta dal proprio passato e da eventi sfortunati, si trova a percorrere suo malgrado i sentieri più ambigui e stranianti della mondanità laica.
Il personaggio protagonista del film, Viridiana, ha un nome che ricorda una santa italiana vissuta ai tempi di San Francesco; la donna sembra posseduta da una fede ferrea, il suo sguardo è spesso assente, rapito, a volte estasiato, tale da far pensare a una scelta religiosa radicale.
Alla vigilia dell'investitura la madre superiora informa la donna dell'arrivo di una lettera dallo zio, l'anziano Don Jaime (Rey), che chiede di vederla.
L'uomo un tempo si era preso cura di Viridiana permettendole di studiare e di farsi una dote; ha avuto una vita difficile, perchè rimasto vedovo già dalla prima notte di nozze. Viridiana non è contenta della notizia: non nutre affetto per lo zio, con cui ha avuto un solo incontro molto tempo prima, ma la madre superiora, ricordandole l'importanza cristiana della riconoscenza, la convince a far visita per alcuni giorni a Don Jaime.
All'arrivo nella dimora dello zio, Viridiana nota che il podere è alquanto trascurato, spoglio, privo di ogni attività, tale da far credere alla donna che l'uomo a cui fa visita sia in crisi.
Don Jaime predilige una vita estetica e contemplativa: ama la musica, i libri, gli oggetti d'arte, ed è affetto da alcune forme di nevrosi che si manifestano periodicamente con sintomi feticistici, impulsi irrefrenabili durante i quali accarezza il vestito da sposa e le scarpe da cerimonia della moglie defunta immergendosi in un'atmosfera ritualistica di adorazione-ricordo per l'amata, una rievocazione struggente che si confonde con il delirio. Don Jaime vive ossessionato dalla scomparsa della bella consorte, e a causa della nevrosi che lo tormenta vede in Viridiana, simile nel viso e nell'andatura alla defunta, l'occasione per sostituirla.

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giovedì 24 aprile 2008

Recensione L'ULTIMA MISSIONE

Recensione l'ultima missione




Regia di Olivier Marchal con Daniel Auteuil, Olivia Bonamy, Francis Renaud, Philippe Nahon, Gérald Laroche, Catherine Marchal, Moussa Maaskri, Clément Michu, Guy Lecluyse, Christian Mazzucchini

Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli (voto: 8,5)

"Dio mi ha tradito. E io lo punirò!"

Negli anni settanta la MR 73 era la pistola d'ordinanza della Polizia Giudiziaria francese. Si tratta di un revolver a sei colpi, un'arma pesante, potente, precisa. Un gioiello per i collezionisti, ma uno strumento assai arcaico e scarsamente funzionale, se paragonato alle moderne armi automatiche.
La MR 73 è un arma del passato.
Non ha nessun senso il titolo italiano di quest'ultimo film diretto da Olivier Marchal. In questa pellicola non c'è nessuna ultima missione, addirittura il protagonista viene sollevato fin dal principio da tutti quelli che erano stati i suoi incarichi.
La MR 73 è il passato! Un passato pesante, potente e micidiale.

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Recensione MONSIEUR VERDOUX

Recensione monsieur verdoux




Regia di Charles Chaplin con Irving Bacon, Marilyn Nash, Isobel Elson, Martha Raye, Charles Chaplin

Recensione a cura di peucezia

Dopo un lungo silenzio, Charles Chaplin torna sugli schermi cambiato. Se ne "Il grande dittatore" il personaggio che lo aveva reso riconoscibile prima, noto poi, celeberrimo e immortale in seguito, continua ad esistere sia pur trasfigurato e parlante, ora questo personaggio, il buffo Charlot dal baffo comico ma un po' inquietante, è scomparso anche se nella mimica, negli atteggiamento e nello sguardo biricchino lo spettatore più attento lo riconosce.
Ora Chaplin indossa i panni di un gentiluomo di mezz'età dal capello brizzolato e impomatato e il baffetto (baffi anche qui ma più alla moda) da conquistatore, porta un fiore all'occhiello che di tanto in tanto annusa con voluttà ed è garbato ma cinico. Un amorale insospettabile emulo di Landru e Barbablu ma non animato come questi due personaggi da un demone che spinge inesorabilmente a uccidere, bensì guidato dalla necessità di sopravvivere e di far sopravvivere gli esseri che ama.

Verdoux vive tra le due guerre, periodo quanto mai compromesso, epoca che non dà spazio alla poesia nè alla bellezza della vita, ma che è invece portavoce di tutte le nefandezze di cui un essere umano può essere capace.
Dopo essere stato licenziato, con una moglie malata ed un figlio piccolo a carico, Verdoux non esita a sposare donne ricche e anziane e a ucciderle sviluppando una doppia crudele personalità da consapevole Dott. Jekyll e Mr. Hyde.
Impossibile affidare questo ruolo al tenero vagabondo Charlot; la guerra e tutti gli avvenimenti da essa scaturiti lo hanno ucciso. Impossibile poi mostrare ancora Charlot quando un uomo simile a lui (se non altro nel buffo baffetto unico) ha seminato ovunque dolore e morte.
Verdoux è una maschera impassibile, simbolo di quella società borghese pronta a scavalcare qualsiasi cosa per il proprio tornaconto fosse anche almeno alla base buono (la necessità di mantenere una famiglia dopo la perdita del proprio lavoro).

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mercoledì 23 aprile 2008

Recensione RIPRENDIMI

Recensione riprendimi




Regia di Anna Negri con Alba Caterina Rohrwacher, Marco Foschi, Leonardo Bono, Damiano Bono, Valentina Lodovini, Alessandro Averone

Recensione a cura di GiorgioVillosio

Una telecamera segue di continuo una giovane coppia per girare un documentario sui temi della precarietà lavorativa. Ma il racconto finisce presto per incentrarsi sulla precarietà dei sentimenti amorosi ed affettivi, in un'ottica "al femminile".

Quante valenze e chiavi di lettura diverse nell'intrigante film della "resuscitata" Anna Negri, che mancava nelle sale dal lontano 1998 (con "In principio erano le mutande"); originale a partire dal titolo, con il suo doppio significato filmico e/o sentimentale.
La regista porta un nome famoso, ma del padre non vuole sentire parlare nel modo più assoluto, e prende le giuste distanze rifugiandosi nel privato, raccontando "storie di ordinari sentimentalismi femminili" come se la dimensione individuale fosse davvero quella unica, ed il contesto sociale contasse poco; si smentisce però quando, forse per reminescenze edipiche, ci mostra un affresco di vite singole fortemente condizionate dal momento storico e dall'insieme socio-culturale del Paese e dei tempi in cui viviamo.
A dimostrazione di quanto sopra, il fatto che il film trovi spazio solo come produzione indipendente (grazie a Francesca Neri) ed in festival alternativi (grazie a Robert Redford), e che tanta lucidità di osservazione le venga dai lunghi studi all'estero, in Paesi più ricchi ed aperti del nostro come Francia, Olanda e Gran Bretagna; la quale formazione sembra consentirle una visuale esterna, non condizionata della nostra realtà, con la vocazionale spietatezza del documentario.

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Recensione I DUE ORFANELLI

Recensione i due orfanelli



Regia di Mario Mattoli con Totò, Franca Marzi, Nerio Bernardi, Isa Barzizza, Carlo Campanini

Recensione a cura di peucezia (voto: 7,5)

Film del 1947 e primo grande successo cinematografico di Totò (fatta eccezione per "San Giovanni decollato" del 1940, tutte le precedenti prestazioni cinematografiche dell'attore partenopeo non ebbero una grande eco, tanto da far pensare a De Curtis di abbandonare il cinema per dedicarsi esclusivamente al teatro), "I due orfanelli" appartiene al filone delle parodie di pellicole celebri: si ispira infatti a "Le due orfanelle", vecchia pellicola del cinema muto. Riciclati anche scenografie e costumi (dal film "Le fiacre n. 13", un kolossal dell'epoca).

Come avverrà spesso per le successive storie interpretate da Totò, la trama è solo un pretesto per permettere al comico di scatenarsi e di uscire dal copione.
Ne "I due orfanelli", Totò e la sua spalla (qui il piemontese Carlo Campanini, ben contrapposto al comico napoletano per contrasto fisico - il grasso e il magro alla Stanlio e Ollio - e regionalistico - il meridionale ed il settentrionale) sono due giovani di famiglia oscura che vivono nella Parigi del 1870 e vanno incontro a mille paradossali avventure dopo aver scoperto le nobili origini di Totò.

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lunedì 21 aprile 2008

Recensione L'INNOCENZA DEL PECCATO

Recensione l'innocenza del peccato




Regia di Claude Chabrol con Ludivine Sagnier, François Berléand, Benoît Magimel, Mathilda May, Caroline Sihol, Etienne Chicot, Marie Bunel, Valeria Cavalli

Recensione a cura di GiorgioVillosio

Il titolo originale del film sarebbe "La donna segata in due", come emerge dal facile simbolismo della scena finale, in cui la ragazza protagonista, dopo aver perso amante e marito, si riduce in solitudine, con un vecchio zio, sezionata in una scatola come fenomeno da circo. Dove la "dicotomìa", qui propriamente detta, starebbe nel destino incerto della giovane donna, contesa tra due "amori", o meglio tra due scelte esistenziali: quella precipuamente sentimentale, e quella della stabilità, economica e famigliare.
Bisticcio, peraltro, mal posto all'origine, non essendo affatto credibili né il vecchio drudo come vessillifero d'amore, né tanto meno il giovane marito psicolabile come punto di appoggio stabilizzante.
Come poi da una vicenda così mal impostata si approdi al titolo italiano di "L'innocenza del peccato" è davvero difficile capire; se non per l'intenzione pretestuosa di attirare pubblico con un titolo pruriginoso.

E' difficile mettere ordine nei pensieri confusi di uno Chabrol tanto invecchiato da perdersi nei meandri di quello che fu un suo vecchio talento, l'analisi e l'introspezione psicologica, unita al brivido del noir; potrebbe azzardarsi che è in effetti vero che la donna oscilli tendenzialmente tra la tentazione dell'amore assoluto e l'abbandono alle emozioni ed un sano calcolo "contadino", pragmatico ed opportunista, che la porta ad accoccolarsi al modesto tepore della protezione e della sicurezza. E' un po' la storia di tutte, come peraltro tramandato nella grande letteratura, da "Madame Bovary" a "Lady Chatterley".
In chiave simbolica, poi, è la stessa vicenda che porta le giovani donne a distinguere l'amore giovane, romantico e totalizzante dell'adolescenza dalla forte rassicurazione emotiva fornita dalla figura del padre, quell'Edipo incomprimibile che le accompagna per tutta la vita, e non sempre "armoniosamente".
Il coinvolgimento emozionale e la passione scatenano i sensi, spingendo alla sessualità e alla fecondazione; mentre una forza più calma, costante e controllata (l'appoggio paterno), proteggerà continuativamente i pargoli fino all'età adulta.

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Recensione JIMMY DELLA COLLINA

Recensione jimmy della collina




Regia di Enrico Pau con Nicola Adamo, Valentina Carnelutti, Francesco Origo, Massimiliano Medda, Giovanni Cantarella, Federico Carta

Recensione a cura di matteoscarface

"Il cinema ha il compito di raccontare realtà che altrimenti non si conoscerebbero. Il cinema più di ogni altra cosa ha questa forza, questa potenza".

Con queste parole il regista Enrico Pau, professore di lettere e regista impegnato, presenta il suo film tratto da un romanzo di Massimo Carlotto.
Non è un caso se questa dichiarazione può essere tranquillamente accostata al nome di Carlotto, lo scrittore che forse, più di chiunque altro negli ultimi anni, ha saputo meglio rappresentare le tragedie di vite comuni nell'Italia della provincia, qualunque essa sia, e descrivere con accuratezza storie diverse di comuni mortali in un'Italia sotterranea e abbandonata a se stessa.
La realtà del carcere e della latitanza, che lo scrittore ha vissuto di persona, sono il perno centrale della storia di Jimmy, un ragazzo di quasi diciotto anni della provincia di Cagliari, che per sfuggire a una vita destinata, come suo padre e suo fratello, al lavoro in una raffineria petrolchimica decide di tentare il tutto e per tutto con una rapina, destinata a fallire ancora prima di cominciare.

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mercoledì 16 aprile 2008

Recensione IL CACCIATORE DI AQUILONI

Recensione il cacciatore di aquiloni




Regia di Marc Forster con Khalid Abdalla, Homayoun Ershadi, Shaun Toub, Atossa Leoni, Saïd Taghmaoui, Zekiria Ebrahibi

Recensione a cura di GiorgioVillosio

Nel contesto della guerra in Afghanistan, un ragazzino ricco tradisce l'amico povero, grande cacciatore di aquiloni, portando con sè il senso di colpa per tutta la vita, fino a quando tornerà nel suo Paese, ancora in guerra, per riscattarsi.

Il mito e la letteratura ci hanno tramandato innumerevoli storie sull'Amicizia, quella con la A maiuscola, come sentimento superiore, in cui non entrano in campo interessi, calcoli, invidie e competizioni ma, invece, affetti sinceri, ammirazione e vocazioni altruistiche. L'altruismo, ad esempio, che nell'Iliade porta Patroclo a vestire inutilmente i panni di Achille per salvargli la vita; o che, nella Bibbia, fa dire da Rut a Noemi: "Dovunque tu muoia, io morirò e lì sarò sepolta. Solo la morte potrà dividerci".
Parimenti potremmo citare, rifacendoci alla storia della Grecia classica, le storie di Damone e Finzia, allievi di Pitagora, la cui storia è esempio di amicizia assoluta, fondata sulla massima fiducia reciproca; o ancora, volendo, le vicende di Eurialo e Niso nell'Eneide.
A quei tempi l'amicizia era vista come una delle virtù più alte, elemento fondamentale per la felicità e la completa realizzazione nella vita; tanto che Aristotele diceva: "senza amici nessuno sceglierebbe di vivere, anche se avesse tutti gli altri beni", sostenendo che l'amicizia perfetta è tra uomini buoni e simili per virtù, che amano gli amici per quello che sono.

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Recensione MAGHI E VIAGGIATORI

Recensione maghi e viaggiatori




Regia di Khyentse Norbu con Tshewang Dendup, Lhakpa Dorji, Sonam Kinga, Sonam Lhamo, Deki Yangzom

Recensione a cura di Severino Faccin (voto: 9,0)

Opera seconda di Khyentse Norbu, "Maghi e viaggiatori" accompagna lo spettatore, così come i protagonisti che ascoltano le storie del monaco viandante, dentro un mondo fatto di incantesimi, di pozioni, di innocenza perduta e di amore contrastato, di torbide passioni e di sudditanza verso un marito-padrone, di abbandono, di omicidio e di morte. È il mondo in cui trova forma il racconto di Tashi che, dopo aver bevuto una pozione magica si trova scaraventato nella capanna in cui vivono il vecchio Agay e la sua giovane moglie Deki, e con Deki vivrà una relazione amorosa portata fino alle estreme conseguenze. Il tutto avvolto in un'atmosfera che ha il potere di trasportare chi osserva entro una dimensione incorporea dove il confine tra il vissuto reale e l'immaginario non è mai distinto.
Ciò che succede non è mai cercato o voluto dagli uomini, è conseguenza delle loro azioni e dei meriti accumulati in questa vita. È così anche per il giovane Dondup che ha perso l'autobus e si ritrova in compagnia del monaco e degli altri viaggiatori. Partito dal lontano villaggio dove è funzionario governativo, alla volta della capitale Thimphu, sebbene proiettato mentalmente verso gli Stati Uniti, si innamorerà strada facendo della graziosa Sonam che sta accompagnando il padre al mercato. Quale sarà il suo karma: rimanere legato a Sonam nel Bhutan o raggiungere l'agognata America?

La trama lascia intendere che Dondup sceglierà l'America, ma noi preferiamo credere in un finale aperto. Grazie alla complicità del monaco che tiene assieme le fila del racconto e che sembra manovrare come un burattinaio i movimenti e le reazioni dei suoi compagni di viaggio, la storia, pur così pregna di simbologie e accenni al conosciuto e all'inconosciuto, si carica di fascino per la sua semplicità, mentre culla lo spettatore in un limbo sospeso tra sogno e realtà. Se però non fosse questo il vero percorso che il regista Norbu intende suggerire? Se "Maghi e viaggiatori" non fosse quello che sembra: un involucro per una storia che contiene al suo interno un'altra storia? Se il monaco che tanta influenza sembra esercitare sui suoi compagni di strada da indirizzarne i comportamenti, volesse invece condurli, e noi con loro, in un viaggio nel trascendentale, facendoci rivivere in prima persona le gesta dei personaggi dei suoi racconti? Un'esperienza affatto inusuale in un universo popolato di maghi e taumaturghi, di spiriti che dimorano nell'aria, dove - sarà l'altitudine, sarà il silenzio e l'isolamento, sarà la solitudine - la pratica meditativa e la magia rendono possibile compiere viaggi mentali e fisici da un luogo a un altro, da una dimensione a un'altra, senza mai essersi messi in cammino...

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venerdì 11 aprile 2008

Recensione LA ZONA

Recensione la zona




Regia di Rodrigo Plà con Daniel Giménez Cacho, Maribel Verdú, Carlos Bardem, Daniel Tovar, Alan Chávez, Mario Zaragoza, Marina de Tavira

Recensione a cura di Mimmot

Non sempre la nostra immaginazione ha la capacità di intuire pienamente di cosa può essere capace l'uomo, quando regredisce allo stato primordiale per difendere la propria agiatezza e il proprio benessere.
Basta guardare questo film per capire che la realtà, spesso, va ben al di là dell'immaginazione e che la paura crea un muro tra chi ha tutto e il "diverso" che non ha nulla; per capire come il desiderio di sicurezza si trasformi in ossessione, come la differenza di classe possa diventare odio di classe, come cittadini modello possano trasformarsi in giustizieri.
Tutto ciò ci viene mostrato in questo piccolo, importante film, che tutti dovremmo vedere e rivedere, soprattutto i "giustizialisti" di casa nostra, che vedono "il muro" come la sola panacea contro tutti i mali del nuovo millennio.

Vincitore del premio "Opera Prima - Luigi De Laurentiis" alla Mostra di Venezia 2007, dove è stato presentato alle Giornate degli autori, e vincitore dal "Premio internazionale della critica" al Festival di Toronto, "La Zona" è il film d'esordio del trentenne regista Rodrigo Plà.
Uruguayano d'origine, Plà vive e lavora a Città del Messico, una delle città più popolose del pianeta, dove una moltitudine disperatamente povera si confronta quotidianamente con una minoranza di sfacciatamente ricchi che, per paura e per isteria collettiva, si rinchiudono in prigioni dorate, in cui le autorità sono corrotte e la legalità si fa latitante e, invece di cercare di cambiare la società, si costruiscono una sorta di spazio autarchico che gli permetta di evitare di entrare in contatto con le masse disperate che vivono appena al di là del muro, la cui unica alternativa sono il furto e la violenza.
E' questo un film necessario, che tocca corde emozionali molto forti e ci invita a riflettere sull'aberrate principio per cui ognuno è leggittimato a farsi giustizia da sè, quando sente minacciato il suo mondo, la sua sicurezza, il suo benessere.

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Recensione HERO

Recensione hero




Regia di Zhang Yimou con Tony Leung Chiu Wai, Maggie Cheung, Daoming Chen, Jet Li, Ziyi Zhang, Donnie Yen

Recensione a cura di Severino Faccin (voto: 8,5)

"Sotto lo stesso cielo" è l'idea che ossessiona ed allo stesso tempo condiziona le scelte e il destino del Re di Qin e dei guerrieri votati alla sua morte, ma è anche il destino che oltre duemila anni fa portò all'unificazione dei sette regni sotto un unico stato, riconosciuto ancora oggi dagli abitanti della Cina come "la nostra terra". Una storia epica, raccontata da Yimou seguendo i canoni della narrazione orientale, dove i piani di lettura appaiono molteplici e ciascuno cela la sua verità, diversa da quella di tutti gli altri perché diverso è di volta in volta il soggetto narrante, ma che alla fine si disvela lasciando intravedere gli infiniti modi, differenti eppure tutti reali, in cui può essere intesa.

Tale è la verità dell'eroe Senza Nome che riferisce di avere ucciso in combattimento i famigerati Cielo, Neve che vola e Spada spezzata, impersonando nella sua relazione al Re di Qin, il ruolo di salvatore della patria. Ciò gli consentirà di avvicinarsi allo stesso Re fino a dieci passi di distanza: tanti ne occorrono alla sua spada per vibrare al sovrano il colpo mortale.
Ma questo non basta, perché il Re scopre subito le sue intenzioni, avvertendo l'energia negativa che Senza Nome esercita sulla fiamma delle candele poste innanzi al trono. Come conseguenza, il disvelamento porta la sequenza degli avvenimenti a un secondo livello interpretativo, da cui appare che, in presenza dei soldati di Qin, Senza Nome non risultava affatto avere ucciso, bensì soltanto ferito Cielo, al solo scopo di ottenere la fiducia del monarca in virtù della testimonianza dei suoi soldati.
E ancora, nei successivi livelli è di nuovo il Re a forzare gli eventi, evocando le versioni di Neve che vola e di Spada spezzata a dar conto degli incontri-scontri con il compagno d'arme Senza Nome (al quale li accomuna l'odio profondo per il sovrano). Sono versioni spesso contrastanti, anche se il fine ultimo è il regicidio; ma rimangono comunque complementari, perché a loro modo segnate da una profonda, chiara consapevolezza di una coscienza guerriera, peculiare a ciascuno degli attori nella vicenda; una coscienza alimentata da onore e da giustizia, fatta di lealtà fino al sacrificio estremo.
A prevalere è però sempre - e qui il messaggio diventa universale e atemporale (riferibile forse anche alla Cina di oggi?) - la volontà di riunire "sotto lo stesso cielo" un unico popolo dai molti volti, ricordando che: "non è la spada che porta la morte bensì quella che risparmia la vita ad armare la mano dell'eroe".

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giovedì 10 aprile 2008

Recensione TUTTA LA VITA DAVANTI

Recensione tutta la vita davanti




Regia di Paolo Virzì con Isabella Ragonese, Sabrina Ferilli, Elio Germano, Massimo Ghini, Valerio Mastandrea, Micaela Ramazzotti, Teresa Saponangelo

Recensione a cura di GiorgioVillosio

Neo laureata in filosofia, la giovane Marta viene assunta in un call center, lavoro precario, alienante e squallidamente competitivo; ma precario è pure tutto quello che le si muove intorno. Solo alla fine troverà soluzione a tanto disagio, recuperando una dimensione più umana di affetti familiari e di onestà.

Sgombriamo innanzitutto il campo da alcuni equivoci: "Tutta la vita davanti" viene presentato come il film sul lavoro giovanile precario, ma non è solo questo. Inoltre, per il cinema di Paolo Virzì si continua a scomodare il termine di "commedia all'italiana" in modo non appropriato e riduttivo.
Il genere "all'italiana" si differenzia sostanzialmente da quello generico della commedia brillante per specifici contenuti di satira del costume e dell'ambiente borghese del suo periodo di auge: a cavallo degli anni '50 /'70, a seguito del miracolo economico e della trasformazione della nostra società da agricolo-industriale a piccolo borghese, indistintamente.
Altra differenza è rappresentata dal contesto locale. La commedia all'italiana classica era in prevalenza un fatto romano come ubicazione, linguaggio e realtà socio-culturale, in una dimensione dove trionfavano possibilismo, pressappochismo e tendenza a "tirare a campà"; dove una giornata "se rimedia", non "si guadagna". Le storie ivi narrate fondavano le radici nell'humus precedente del neorealismo italiano del dopoguerra, pur facendo sorridere.

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