mercoledì 30 novembre 2005

Recensione IL PADRINO

Recensione il padrino




Regia di Francis Ford Coppola con Marlon Brando, Al Pacino, Diane Keaton, John Cazale, Robert Duvall, James Caan, Talia Shire, Sofia Coppola, Sterling Hayden

Recensione a cura di Matteo Bordiga

Il più fascinoso dei tre. Il ritratto più "spinto", per certi versi perfino macchiettistico, della mafia sicula trapiantata a "Nuova York", dei suoi splendori e delle sue miserie, soprattutto del suo charme, fatto di battute ciniche e intramontabili, di trasudante carisma, di sorrisi che bruciano d'inganno.

La prima perla cinematografica estrapolata dall'imponente "corpus" letterario targato Mario Puzo racconta l'ascesa al potere di un giovane intellettualoide, Michael Corleone, che abbandona timidezza e neutralità rispetto agli "affari" di famiglia quando il padre, Don Vito Corleone, viene ferito gravemente da sicari ingaggiati da un clan rivale. Dopo aver ucciso i mandanti del tentato omicidio del padre, Michael fuggirà in Sicilia, per poi rientrare a New York; alla morte di Don Vito, sarà proprio Micheal Corleone a ereditare dal padre il titolo di "Padrino".

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martedì 29 novembre 2005

Recensione THE DESCENT - DISCESA NELLE TENEBRE

Recensione the descent - discesa nelle tenebre




Regia di Neil Marshall con MyAnna Buring, Craig Conway, Natalie Jackson Mendoza, Molly Kayll, Stephen Lamb, Shauna Macdonald

Recensione a cura di cash (voto: 7,5)

Di primo acchito viene da abbandonare la sala. Ma no, non potete; avete delle responsabilità, gente che è lì con voi e che non potete mollare come una tenera flatulenza quale sublime commento al film che vi apprestate ad abbandonare. Roba da fare incetta di cibi scaduti ancora presenti nel frigo e buttarli sullo schermo. Ma non ve andate. Restate.
E vi renderete conto che i miracoli esistono.
Sì, perché dopo la prima mezz'ora (roba da far rimpiangere il Vietnam) "The descent" si trasforma in un film d'assoluta tensione e claustrofobica angoscia, e in questo periodo non siamo più abituati ad aspettarci grandi cose da un horror occidentale; in un'epoca in cui si incensano fallimenti come "Saw" pellicole come questa sono da tenere sotto teca.

E dire che Neil Marshall (il geppettaio di "Descent") ci aveva provato nel 2002 con "Dog Soldier", film piuttosto apprezzato ma sfortunatamente anche abbastanza cesso: le aspettative non erano dunque delle migliori, ma in questi casi è bello sbagliarsi ed ammettere che si è malignato per un nonnulla.

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sabato 26 novembre 2005

Recensione LA SECONDA NOTTE DI NOZZE

Recensione la seconda notte di nozze




Regia di Pupi Avati con Antonio Albanese, Neri Marcoré, Katia Ricciarelli, Angela Luce, Marisa Merlini, Robert Madison, Tony Santagata, Manuela Morabito

Recensione a cura di GiorgioVillosio

Il regista bolognese ci propone da anni una serie di narrative molto dense, a spettro intero sulla nostra esistenza e sui casi dell'umano; un po' come nei romanzi ottocenteschi, in cui la materia trattata non verte solo su sfumature rarefatte e cerebrali, come nel cinema francese, né tanto meno su vicende forzate e paradossali come in quello d'oltre oceano, ma con sano realismo sui temi reali e pragmatici del nostro vivere. Emergono così i "fondamentali" dell'umano, come l'amicizia, l'amore, le vocazioni professionali e certi rapporti parentali, visti sempre in una chiave poetica dolente e realistica; non quella romantica e sdolcinata di un compiaciuto sentimentalismo, ma quella coscientemente malinconica di chi, percependo la fatalistica casualità della condizione umana, ne desume una coscienza vigile e mesta, snocciolando il racconto sul filo della memoria.

Non a caso "La seconda notte di nozze" è ambientato nell'Italia del primo dopoguerra, di cui ripropone gli aspetti più meschini, psicologici ed economici, in luoghi ed ambienti quasi surreali, per captare la difficile e sofferta atmosfera del tempo. Come peraltro si rileva anche nella descrizione di certi personaggi di contorno, come l'attore fallito e la sua compagnia di guitti che, con la loro carovana mobile, ricordano i modi degli Amarcord felliniani.
Ma questi elementi costituiscono solamente il contesto "ambientale e scenografico" del film, che tocca invece corde più profonde, fuori del tempo e dalle contingenze, come in una fiaba psicanalitica, dove i personaggi e le loro vicende assumono profili chiaramente simbolici.

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venerdì 25 novembre 2005

Recensione AURORA

Recensione aurora




Regia di Friedrich Wilhelm Murnau con George O'Brien, Janet Gaynor, Margaret Livingston

Recensione a cura di Susanna!

Un uomo di campagna, sua moglie e una donna di città. Ecco i tre protagonisti senza nome di un triangolo amoroso quasi banale, eppure capace, nelle mani di Murnau, di trasformarsi in un film straordinario. L'uomo, sedotto dall'affascinante e scaltra donna di città, vorrebbe liberarsi della moglie, ma si accorge in tempo della mostruosità di ciò che sta per compiere. I coniugi si riappacificano, ma un nuovo pericolo incombe su di loro...

"Aurora" è uno di quei capolavori che hanno segnato per sempre la storia del cinema, così come Murnau è un regista che ha influenzato moltissimo i suoi colleghi, pur essendo morto a soli 41 anni (in seguito a un un incidente automobilistico) e malgrado il fatto che molti dei suoi film tedeschi siano andati perduti. Lo stesso originale di "Aurora" è finito in cenere in seguito a un incendio scoppiato nei magazzini della Fox e la versione che oggi noi vediamo è frutto del paziente lavoro di raccolta di negativi superstiti attuato da un gruppo di appassionati e studiosi sparsi in tutto il mondo.

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giovedì 24 novembre 2005

Recensione VITA DA STREGA

Recensione vita da strega




Regia di Nora Ephron con Nicole Kidman, Will Ferrell, Shirley MacLaine, Michael Caine

Recensione a cura di peucezia

Seguendo la moda cinematografica del momento che vuole trasporre sul grande schermo vecchi e nuovi ?miti? televisivi (vedasi i casi di "Charlie?s Angels", "Starsky and Hutch" e forse a seguire "Dallas") anche Nora Ephron celebrata regista di commedie sentimentali gradite sia dal pubblico che dalla critica ("Harry ti presento Sally" prima tra tutte ma anche "C?è post@ per te" frizzante remake di un classico del cinema) si cimenta con "Vita da strega" (titolo originario "Bewitched") serie televisiva alquanto stupidotta con protagonista Elizabeth Montgomery, (figlia d?arte di Robert, attore assai popolare nei primi anni Cinquanta) che ha accompagnato gli americani per quasi dieci anni e che ha introdotto in maniera subliminale il woman power (infatti l?interprete femminile è una casalinga tutta torte e faccende domestiche, ma è soprattutto una strega tra l?altro molto intuitiva, ha una madre anch?ella strega e dominante mentre il protagonista maschile è piuttosto insipido e incolore).

Tuttavia la strada scelta dalla Ephron non è quella del remake tout court, ma bensì è quella del metacinema cioè della storia nella storia. La cosa di per sé sembrerebbe essere interessante nonché sperimentale inoltre l?aver scelto di raccontare la storia di una vera strega (quindi se vogliamo leggere ?oltre? il copione si può considerare la strega come una persona ?diversa?) che non si accetta e che quindi vorrebbe essere come tutti gli altri potrebbe avere una valida giustificazione se si vuole fare un?analisi psicologica dell?intreccio, ma, volendo invece limitarsi a un?analisi della pellicola in sé, è d?uopo elencarne i vari difetti.

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martedì 22 novembre 2005

Recensione OLIVER TWIST

Recensione oliver twist




Regia di Roman Polanski con Ben Kingsley, Barney Clark, Lewis Chase, Frances Cuka, Jake Curran, Harry Eden, Frank Finlay, Jamie Foreman, Chris Overton, Leanne Rowe, Mark Strong, Jeremy Swift, Joseph Tremain

Recensione a cura di peucezia

"Oliver Twist" è un romanzo giovanile di Charles Dickens, forse uno dei più celebri romanzieri inglesi, imperniato sulle vicissitudini di un orfano; intorno a lui una pletora di personaggi da sempre vissuti ai margini della società; il romanzo è così il mezzo per denunciare la situazione dell?infanzia abbandonata e la miseria di alcuni quartieri degradati della Londra vittoriana, i cosìddetti slums.
Se però a fine Ottocento l?intendimento di Dickens appariva chiaro ai suoi contemporanei, con il passare degli anni il suo romanzo è diventato un classico della narrativa per l?infanzia e quindi la denuncia sociale ha lasciato il passo alla storia strappalacrime del povero orfanello.

Il cinema si è interessato alla storia del piccolo Twist più volte e tra le varie pellicole sul tema, nel 1948 capolavoro indiscusso è uno splendido film di David Lean che vede come protagonista maschile nel ruolo di Fagin, il grande Alec Guinness.
A distanza di quasi sessanta anni e a pochi anni dal successo de "Il pianista", Roman Polanski ripropone ai disincantati spettatori del ventunesimo secolo questa storia immortale con un occhio alla sua infanzia nel ghetto di Cracovia, così come egli stesso ha affermato in una recente intervista.
Nelle prime sequenze ambientate nella workhouse che ospita l?orfanello Oliver ed altri coetanei, il regista da? un?ottima prova nella ricostruzione dell?epoca e facendo largo uso delle scene di massa; colpiscono le caratterizzazioni dei personaggi particolarmente fedeli alle stampe ottocentesche che accompagnavano i romanzi dickensiani. I personaggi appaiono quasi delle caricature perché Dickens (e Polanski per lui)- pur descrivendo delle situazioni tragiche- non mancava di mettere dell?ironia nei suoi romanzi, una maniera tutta personale per denunciare le brutture della sua società. Il romanziere prendeva in giro in particolare i potenti (nell?accezione più ampia del termine) e si serviva anche della descrizione fisica esagerata per comunicare al lettore la loro inadeguatezza.
L?ebreo Fagin (interpretato da un irriconoscibile Ben Kingsley), ladro e sfruttatore di bambini (pertanto a suo modo un potente) quindi appare deforme e orribile a vedersi, classica figura negativa dell?ebreo che fin dall?epoca degli University Wits viene proposta dalla letteratura e dal teatro. Proprio per aver dipinto Fagin con questi toni negativi, Polanski è stato ingiustamente accusato di antisemitismo, ma in realtà il regista si è meramente limitato a seguire fedelmente gli intendimenti di Dickens. Le altre figure del romanzo sono anch?esse fedeli alle descrizioni del romanzo grazie anche ai sontuosi costumi, alle scenografie, che hanno riportato in vita lo squallore e il degrado degli slums londinesi e alla fotografia in vecchio stile che abbonda nei contrasti.

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lunedì 21 novembre 2005

Recensione MANDERLAY

Recensione manderlay




Regia di Lars Von Trier con Bryce Dallas Howard, Isaach De Bankolé, Willem Dafoe, Chloë Sevigny, Danny Glover

Recensione a cura di mirko nottoli

E' inutile. Inutile che in tanti ogni volta si sforzino di trovare parole di fuoco per demolire ogni film di Lars Von Trier. Inutile perché ogni suo nuovo film è una scoperta, un pugno nello stomaco, un concentrato di invenzioni visive, creative e intellettuali. Lars Von Trier non sta simpatico a molti e forse è per questo che sta simpatico a me.
Svogliato, furbo, sopravvalutato. Queste le accuse dei detrattori, accuse che a tendere l'orecchio fanno il tipico rumore delle unghie che tentano di arrampicarsi sugli specchi, come pagliuzze negli occhi che non vedono le travi, come montagne che partoriscono topolini. Prendendo per sola capziosità preconcetta abbagli a cui non credono nemmeno loro. Come si può altrimenti definire "svogliato e sopravvalutato" (Paolo Mereghetti) uno che in sequenza ti sforna "Le onde del destino", "Dancer in the dark" e "Dogville"? Come parlare di "formula vincente da riproporre in maniera ripetitiva e meccanica" (sempre Mereghetti) quando i tre film sopra citati non potrebbero essere più diversi l'uno dall'altro, tre capolavori che potrebbero appartenere alla filmografia di tre registi differenti, tre film sperimentali in cui la ricerca di nuovi linguaggi, di nuovi soluzioni registiche, lungi dall'essere sterili esercizi di stile risultano funzionali come pochi al racconto, amplificandone la portata dei contenuti già di per loro deflagranti?

Secondo capitolo della trilogia dedicata all'America, "Manderlay" è il proseguo di "Dogville". In fuga da là, dove poté sperimentare tutta la drammatica ipocrisia bigotta di una società perbenista e bacchettona, Grace (non più interpretata da Nicole Kidman ma da Bryce Dallas Howard, figlia di Ron) capita per caso in un altro paesino sperduto degli States dove ancora vige la schiavitù. Altra situazione delicata, altra situazione simbolica in cui il disegno generale è lucido e assiomatico come formule matematiche alla lavagna scritte con lo stesso gesso che qui traccia rettangoli e scritte sul palco nudo là dove ci si aspetterebbe case e oggetti scenografici.

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venerdì 18 novembre 2005

Recensione IN THE MOOD FOR LOVE

Recensione in the mood for love




Regia di Wong Kar-Wai con Maggie Cheung, Tony Leung Chiu Wai, Siu Ping-Lam, Rebecca Pan, Lai Chen

Recensione a cura di martina74 (voto: 10,0)

Spesso l'Oriente ci regala perle sublimi di cinematografia: è il caso di "In the mood for love", di Wong Kar Wai, esponente della nouvelle vague di Hong Kong. "In the mood for love", ovvero "nello stato d'animo per amare": questo il significato del titolo e questo il tema portante dell'intera narrazione. La storia è molto semplice, addirittura banale: siamo a Hong Kong, nel 1962, quando Chow (Tony Leung, Coppa Volpi al Festival di Venezia del 2000) si trasferisce in un modesto appartamento, accanto a Li-zhen (una splendida Maggie Cheung) e al marito.
Chow e Li-zhen si incontrano spesso, in maniera prima casuale, poi voluta e una sera scoprono che i loro rispettivi coniugi sono amanti. Inizia così il loro avvicinamento, fino al momento in cui i due comprendono di amarsi o, forse, prendono solo coscienza di un sentimento che già nasceva. Gli innamorati si lasciano addirittura andare a prove attoriali di confessione al marito di lei ma, con la partenza di Chow per Singapore, la loro relazione si interromperà per non riprendere più.

Scopriamo poco a poco che i due protagonisti, circondati da un'aura di tristezza, sono prigionieri di un'assenza: i loro sposi sono solo inquadrature parziali, voci al telefono, oggetti recapitati dai viaggi di lavoro. Gli oggetti sono infatti fondamentali nella poetica del regista: gli specchi in cui spesso si riflettono gli attori, le scarpe, il fumo delle sigarette, gli abiti. Ed è proprio a questi ultimi, ai raffinati qi pao indossati da Li-zhen che, nel film, viene conferito il ruolo di simbolica clessidra che scandisce il trascorrere di giorni, solo all'apparenza, tutti uguali.
Ma il cinema di Kar Wai è fatto anche di silenzi, di dialoghi semplicissimi, di cose non dette, o meglio già dette, di un'affinità la cui dimensione è conosciuta unicamente dai due innamorati e che ci viene svelata solo in parte, indirettamente.
Come degli insoddisfatti voyeur, veniamo volutamente esclusi dall'intimità dei due, che si elevano ad anime eteree ed estranee all'universo reale ed emotivo che li circonda. Non vediamo, ad esempio, tutto ciò che accade nella stanza 2046 (numero da cui prenderà il titolo il lavoro successivo del regista): ciò che ci viene mostrato è solo la frustrazione di due persone in cerca di vendetta e, al contempo, in lotta contro un sentimento che turba equilibri preesistenti, ancorché fragili. Eppure, dietro la porta chiusa, avvertiamo tutta la carnalità di questo amore incorporeo, doloroso e sospeso; non è importante che esso venga realmente consumato, perché l'emozione è tanto palpabile da andare oltre l'atto in sé.

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mercoledì 16 novembre 2005

Recensione VISITOR Q

Recensione visitor q




Regia di Takashi Miike con Kenichi Endo, Fujiko, Jun Mutô, Shoko Nakahara, Ikko Suzuki

Recensione a cura di cash (voto: 8,0)

Miike è un regista da prendere con cautela. Di certo non avvicinabile a chicchessia, per apprezzare in pieno le sue opere è necessario non solo un forte stomaco, ma anche una mente piuttosto elastica.
Se è vero che Takashi non è un autore, nel senso lato del termine, è pur vero che ad osservare i suoi frammenti filmici isolati, e non come un continuo flusso in perenne evoluzione, ci si può anche fare del male.
Fortunatamente Dio (o chi ne fa le veci) ha munito le più scaltre delle sue creature con una delle sue più mirabili invenzioni: il senso del grottesco e dell'ironia. E pare che durante la visione dei film di Miike questi due meravigliosi strumenti siano richiesti a gran voce; ciò vale per la quasi totalità della sua sterminata filmografia, ma in particolar modo per "Visitor Q".
Perchè qui siamo oltre il concetto di Oltre (con la "O" maiuscola); non sembra di essere in presenza di un confine da oltrepassare, semplicemente pare non esserci traccia di questo confine. L'insano e il perverso diventano qui così familiari da apparire realmente come unica via da seguire.

Ma procediamo con ordine: nel 2001 il produttore di Miike lo inserisce come regista dell'ultimo dei sei film della serie "love cinema", prodotto esclusivamente per il mercato dell'home video. Le condizioni impostegli sono due: l'utilizzo del digitale e il trattamento dei valori familiari.
Nasce da qui l'idea di realizzare una sorta di ambiguo remake di "Teorema" di Pasolini ambientato in giappone e in epoca attuale. La cosa è già di per sè foriera di grandi speranze, giacchè si tratta in pratica di un regista malatissimo che si ispira ad uno malato già di suo; le aspettative non sono disilluse e Miike partorisce quello che è il suo figlio più indigesto e disturbante, e soprattutto per questo così affascinate - del resto si può restare affascinati anche dalla visione di una tarantola che sta per morderci -.

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lunedì 14 novembre 2005

Recensione L'ARCO

Recensione l'arco




Regia di Kim ki-duk con Han Yeo-Reum, Jeon Sung-Hwan, Seo Ji-Seok, Jeon Gook-Hwan

Recensione a cura di fidelio.78

Con quest'ultimo suo film (il dodicesimo, come ci viene ricordato nei titoli di coda) Kim Ki Duk è stato oggetto di critiche per essersi ripetuto, ed effettivamente i punti di incontro con i suoi ultimi film sono parecchi e spesso il regista finisce per citare se stesso.Partendo dal presupposto che "Ferro 3" resta una cima forse troppo alta da raggiungere nuovamente, quest'ultimo film merita comunque una certa considerazione.

La sceneggiatura lascia senza dialoghi i personaggi principali, ed è chiaro che la rinuncia alla componente verbale implichi un uso impeccabile della componente più puramente cinematografica, ossia l'immagine, pena il totale insuccesso del film. E così ogni inquadratura diviene un quadro, ogni gesto quasi un rituale sacro da riprendere con immacolato e reverenziale stile; per chi conosce il regista sa quanto il suo cinema diventi fortemente simbolico e quanto il sistema di immagini divenga parte integrante della narrazione.

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venerdì 11 novembre 2005

Recensione C'ERA UNA VOLTA IN AMERICA

Recensione c'era una volta in america




Regia di Sergio Leone con Robert De Niro, James Woods, Elizabeth McGovern, Jennifer Connelly, Joe Pesci, Danny Aiello, Burt Young

Recensione a cura di Matteo Bordiga

James Woods, uno degli attori protagonisti di "C'era una volta in America", ha definito questo stupefacente lungometraggio di Sergio Leone come "un impressionante rompicapo", un meccanismo perfetto che cattura e ipnotizza lo spettatore fino agli ultimi, struggenti fotogrammi.

"C'era una volta in America", naturalmente, è questo e molto altro. E' innanzitutto una storia indimenticabile, a metà strada fra la fiaba e la tragedia, che doveva essere raccontata dalle immagini e dalla musica per sprigionare appieno la sua potenza espressiva. A pochi sarà venuta in mente l'idea di leggere il libro "The Hoods", di Harry Grey, dopo aver visto il film che su di esso riposa: troppo forte, troppo profonda la soddisfazione che riempie lo spirito dopo la visione di "C'era una volta in America" per desiderare di rivivere la stessa storia attraverso le bianche, silenziose pagine di un libro. Senza le sfasature temporali di Sergio Leone, senza gli sguardi feroci e toccanti di Robert De Niro e James Woods, senza l'incomparabile colonna sonora sfornata dal genio di Ennio Morricone. Harry Grey si sarà già rassegnato: il padre naturale delle altalenanti vicende di Noodles, Max, Patsy, Cockeye e Dominic ha visto (e vedrà sempre più) il suo nome adombrato dall'ingombrante sagoma di Sergio Leone, che per ottenere uno dei più sfolgoranti capolavori della storia del cinema ha sacrificato dodici anni della sua vita. E che, in seguito allo sforzo fisico e psicologico legato alla realizzazione del film, avrebbe presto perduto la salute.

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giovedì 10 novembre 2005

Recensione LE QUATTRO GIORNATE DI NAPOLI

Recensione le quattro giornate di napoli




Regia di Nanni Loy con Gian Maria Volontè, Lea Massari, Georges Wilson, Aldo Giuffrè

Recensione a cura di peucezia

Nel 1962 e dintorni, a quasi vent'anni dalla conclusione dalla seconda guerra mondiale, complice anche l'apertura a sinistra nel governo, il cinema riaffronta il tema bellico con un occhio al dramma del post-armistizio e alle sofferenze patite dalla popolazione.
In quest'ottica vanno inseriti "L'oro di Roma" di Carlo Lizzani, "Tutti a casa" con Alberto Sordi (che però è del 1960) e appunto "Le quattro giornate di Napoli" ispirato ad un episodio della nostra resistenza, oggi quasi caduto nell'oblio, e cioè all'insurrezione contro i tedeschi da parte della popolazione napoletana durata quattro giorni tra il 28 settembre e il primo ottobre 1943.

Il film, in uno splendido bianco e nero, è magistralmente diretto da Nanni Loy, non ancora assurto alla fama con le sue candid camera mostrate nell'ancora giovane RAI nella trasmissione "Specchio segreto".
La tematica complessa e la scarsa facilità di reperimento delle fonti rischiavano di compromettere la buona riuscita del film che correva così il rischio di trasformarsi in un bozzetto di costume trasudante retorica, ma Loy riesce a trarsi d'impaccio e a costruire dei quadretti concatenati tra loro, aiutato anche dall'alta recitazione dei protagonisti.

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mercoledì 9 novembre 2005

Recensione STALKER

Recensione stalker




Regia di Andrei Tarkovskij con Aleksandr Kajdanovsky, Anatoli Solonitsyn, Nikolai Grinko, Natasha Abramova

Recensione a cura di Matteo Bordiga

Andrej Tarkovskij e la religione.
Andrej Tarkovskij e lo spirito umano.
Andrej Tarkovskij e il dolore, la speranza, l'illusione.

"Stalker" è un film che non finisce mai di assumere nuovi significati e nuove connotazioni. Ogni volta che lo si studia e lo si penetra spuntano altri dubbi, altri stimoli per una riflessione sull'essenza di un capolavoro della storia del cinema che ha una forza immaginifica e allegorica forse unica.

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