lunedì 31 luglio 2006

Recensione LA NOTTE DEI MORTI VIVENTI

Recensione la notte dei morti viventi




Regia di George A. Romero con Duane Jones, Judith O'Dea, Karl Hardman, Keith Wayne

Recensione a cura di paul (voto: 8,0)

E' il 1966 quando un giovane cineasta di Pittsburgh (ma nativo del Bronx, New York City), decide di realizzare un film che, nel giro di poco tempo, diventerà una sorta di emblema di rottura con la Hammer e con tutte le convenzionali regole hollywoodiane, non solo nel genere horror.
Questo giovane ragazzetto si chiama George Andrew Romero, padre di origine cubana e madre di origine russa: appassionato di fumetti dell'EC, di horror e di design (ha appena finito la University design di Pittsburgh), con numerose esperienze sul set, tra le quali quella come assistente alla regia di Sir Alfred Hitchcock nel famosissimo "Caccia al ladro".
Spinto dai successi di "David and Lisa" e "Goodbye Columbus", film girati proprio a Pittsburgh e che avevano avuto un notevole successo nella cinematografia indipendente americana, Romero si mette in società con due cugini italo-americani, i Ricci cousins, ed un giovane produttore newyorkese, Karl Hardman: l'obiettivo è quello di girare un film a bassissimo costo, dell'orrore, underground.

Il 1968 è un anno fatidico non solo per l'America, ma per tutto il mondo: gli Stati Uniti stanno vivendo un periodo di forte fermento. C'è la guerra in Vietnam, le rivolte universitarie, le lotte dei neri, il volere uscire da un certo cliché dato dalla cosiddetta "buona famiglia wasp". Si è parlato spesso de "La notte dei morti viventi" come di un horror politico, ideologico, contro. Tuttavia sorprenderà invece leggere che il regista non aveva la minima intenzione di realizzare una storia connotata politicamente, bensì solo produrre un horror-movie di rottura con i canoni imposti da Hollywood, soprattutto, leggasi sopra, gli horror della Hammer.
"Volevamo fare un film dell'orrore, in bianco e nero, con un protagonista di colore che uscisse totalmente dagli stereotipi che aveva offerto fino ad allora il cinema di Hollywood verso gli attori afroamericani, e soprattutto volevamo un film senza lieto fine, senza una storia d'amore, senza la classica rappresentazione della bella famigliola americana. La politica certo era intorno a noi, ma non volevamo fare un film politico". Tra i vari progetti analizzati prima di decidere di mettersi a realizzare "La notte dei morti viventi", due potevano classificarsi come puri horror, senza alcuna connotazione ideologica o sessantottina. Il primo progetto che Romero e Hardman presero in considerazione fu un film di fantascienza, molto ispirato a "La Guerra dei mondi" di Welles.
Vennero anche effettuati vari sopralluoghi nei paraggi di Pittsburgh, contattato un esperto di effetti speciali e filmati numerosi pali della luce, nonché bidoni d'immondizia che, lanciati in aria, potevano dare l'impressione di stare filmando un disco volante. Il progetto andò avanti per numerosi mesi finché ci si rese conto che non avrebbe potuto essere realizzato. Troppi infatti i soldi da investire (e gestire) per un budget ridotto all'osso e una line-production così disorganizzata. Il secondo progetto, di cui si sa poco e nulla, doveva essere un gore-black-sciente fiction-comedy intitolata "The invasion of the Spaghetti Flesh Eaters". Ma anche quest'idea, il cui titolo era tutto un programma, venne accantonata nel giro di poche settimane: Romero ed il suo gruppo di giovani cineasti ed appassionati di cinema erano ancora troppo inesperti e senza quattrini per affrontare film di tale genere.

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venerdì 28 luglio 2006

Recensione GODZILLA (1954)

Recensione godzilla (1954)




Regia di Ishiro Honda con Takashi Shimura, Akira Takarada, Mamoko Kochi

Recensione a cura di Giordano Biagio

"Godzilla" (nome di un famoso Dio marino) di Inoshiro Honda, uscito nel 1954, contribuì all'affermazione a livello mondiale del genere Kaiju eiga" (film di mostri), dando al cinema giapponese la supremazia nella qualità della serie.
Il film, in bianco e nero è straordinario per coinvolgimento emotivo. Molto valorizzato dalla critica sia per coerenza espositiva del messaggio etico che per suspense e recitazione.
Di grande rilievo sono anche gli effetti speciali: artigianali ma di un realismo sorprendente grazie alla ricchezza dei particolari seguiti dalla macchina da presa. Nel cinema di una volta si usava indugiare sui particolari con il risultato di dare più credibilità alla scena, oggi con gli effetti speciali virtuali si tendono a condensare blocchi-visivi più legati alla grandezza iconica e iperbolica dell'immagine rinunciando a ciò che contiene effettivamente, ciò richiama uno statuto significante e visivo più vicino allo stupore. Come dire forse che oggi l'immagine sembra rimanere borghese e aristocratica (nel senso semplicemente di un'altra dimensione, seduttiva) nel suo insistere a trascurare i dettagli a vantaggio del sogno stupefacente.

Questo film mette perentoriamente sotto accusa l'uso non pacifico dell'energia nucleare ricordando, attraverso il susseguirsi degli intrecci del racconto in stile metaforico, ciò che le stragi di Nagasaki e Hiroshima hanno rappresentato per il mondo civile. Il film critica i numerosi esperimenti nucleari avvenuti con devastanti esplosioni in posti, anche belli, come l'atollo di Bikini: evidenziandone gli effetti distruttivi non immediatamente percepibili.
Il film prende spunto per la sua narrazione da un esperimento nucleare avvenuto vicino all'isola di Odo in Giappone. La pellicola mostra le gravi conseguenze specifiche cui porta l'insistenza sugli esperimenti nucleari. Le radiazioni dell'esplosione di Odo sono infatti penetrate profondamente nel mare raggiungendo l'Habitat di un grosso e sconosciuto animale sottomarino: poi soprannominato Godzilla.
I danni all'ecosistema della zona sono stati tali da costringere l'animale marino (Godzilla) a cercare fuori dal mare ciò che gli occorre per sopravvivere. Il cosiddetto mostro ha sembianze simili a una sorta di incrocio tra un coccodrillo e un tirannosauro. Probabilmente è un essere sopravvissuto come specie al periodo giurassico: due milioni di anni fa.
A seguito della distruzione del suo eco-sistema l'animale diviene per necessità di sopravvivenza un mostro assassino. Esce in superficie, al solo fine di cercare, in un modo caotico e con tante paure, elementari soddisfazioni ai suoi bisogni primari. Questa opera di Honda circola in Italia in lingua originale dando una maggiore impressione di realismo visivo.

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giovedì 27 luglio 2006

Recensione FREEDOMLAND - IL COLORE DEL CRIMINE

Recensione freedomland - il colore del crimine




Regia di Joe Roth con Samuel L. Jackson, Julianne Moore, Edie Falco, Ron Eldard, William Forsythe, Aunjanue Ellis, Anthony Mackie, Doug Aguirre

Recensione a cura di Simone Bracci

Nelle buie notti di Gannon si consuma il crimine. Ma il buio afferra solo chi è disperato, l'odio, il razzismo, il colore della pelle sono le uniche cose senza sfumatura. Un caso di cronaca nera. Nel ghetto nero del New Jersey dove lavora, una donna bianca, Brenda Martin, arriva in ospedale implorando aiuto: l'hanno ferita e rubato la macchina col figlio Cody dentro. Rapimento. Caos. Incessanti ricerche. Ma qual è la verita?

Parte forte il film di Joe Roth, nel suo turbinio di lampeggianti della polizia, che accompagnano gli sguardi del detective (papà) Council, passando dalle mani insanguinate della donna, agli sguardi serpeggianti e carichi di sospetto e paura della comunità di Gannon. Ma poi si arena sul più bello, le indagini rallentano, il colpo di scena manca e per più di un'ora si assiste al progressivo smontaggio dell'apparato poliziesco. Si entra a ritmo blandissimo nello squallido mondo della xenofobia, dell'odio razziale e del colore della pelle.
Argomenti delicati ancora nell'anno domini 2006, segno che di strada in quel senso se ne è fatta ancor troppo poca.

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Recensione THE DOOR IN THE FLOOR

Recensione the door in the floor




Regia di Tod Williams con Jeff Bridges, Kim Basinger, Jon Foster, Mimi Rogers, Bijou Phillips, Elle Fanning

Recensione a cura di peucezia

Il titolo, rigorosamente in inglese, forse per mantenere la divertente rima che può essere gustata solo in lingua originale, fa già capire che la pellicola non è di quelle semplici, rilassanti, infatti è stata ben presto relegata a proiezioni minori.
La storia è tratta dal riadattamento di un romanzo di uno scrittore americano contemporaneo John Irving "Vedova per un anno". Da opere di Irving la cinematografia USA ha già attinto in passato con esiti differenti forse anche a causa della sua difficile traduzione sul grande schermo.

Un plauso va riservato ai due protagonisti Jeff Bridges, attore poliedrico e capace di mille sfaccettature qui nel ruolo di uno scrittore tra lo sbruffone e il ridicolo e Kim Basinger ancora affascinante nonostante siano trascorsi ormai venti anni dai fasti di "Nove settimane e mezzo", credibilissima nel ruolo di una donna ripiegata in se' stessa e spenta dentro.
La tematica principale del film: il dissolvimento di una coppia a seguito di una tragedia familiare non è di per sé originale nella cinematografia ma ovviamente cambiano i modi di narrare la storia e colpisce anche l'insolito ed allusivo finale.
Tra la coppia che ormai non è più tale due esseri in crescita: la piccola figlia dei due, nata dopo la disgrazia che ha colpito i coniugi e il giovane aiutante di lui, ragazzo timido e poco vissuto che si apre alla vita e alle pulsioni sentimentali grazie a Marion (la Basinger).

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mercoledì 26 luglio 2006

Recensione DESERTO ROSSO

Recensione deserto rosso




Regia di Michelangelo Antonioni con Xenia Valderi, Carlo Chionetti, Richard Harris, Monica Vitti

Recensione a cura di Giordano Biagio

Il Deserto Rosso di Antonioni è un film che si rivede volentieri perché rappresenta un'opera riuscita di verismo moderno. Le scene si svolgono a Ravenna nella sua parte più industriale. Siamo agli inizi degli anni '60 in pieno miracolo economico. Il tipo di industrializzazione è selvaggio: basato su numerosi impianti petrolchimici quasi tutti privi di depuratori e una centrale termoelettrica che espelle tonnellate di polveri.
Un'industrializzazione che appare subito allo spettatore come portatrice di traumi profondi. Alcune anguille al ristorante conservano nel sapore tracce di petrolio. Il degrado territoriale è molto avanzato e ne risente anche la vita dei cittadini. Questi ultimi diventano oggetto di disagi nevrotici e depressivi. Disagi fortemente accentuati dalla scomparsa di ogni bellezza naturale. Il funesto complesso petrolchimico ha sostituito sia le pulite e ordinate baracche dei vecchi pescatori che gli impianti artigianali.

Il film si svolge senza alcuna preoccupazione spettacolare prediligendo atmosfere di tipo neorealistico e psicologico. Il regista si sofferma a lungo su diversi particolari sonori e perturbanti degli impianti industriali che rimandano ad aspetti simbolici di un'epoca. Significazioni storiche sul brutale cambiamento tecnologico e di pensiero. Cambiamento avvenuto in tempi troppo veloci per consentire un'adeguata integrazione degli abitanti della zona ai nuovi ritmi di vita. I dialoghi degli operai degli impianti sono diretti. Impostati su una forma espressiva basata sulla spontaneità e l'essenzialità.
I colori del contesto ambientale sono sbiaditi e freddi, sempre privi dell'azzurro del cielo. Invasivi di spettri cenerognoli che richiamano fantasmi di malattie e morte. I colori appaiono sfuocati nel primo piano, scorrono impietosi davanti al movimento regolare della macchina da presa alternando sequenze ossessive di colori giallo e rosso ai colori grigi scuri delle strade e vie della città. Una città ormai priva di una vera identità.

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martedì 25 luglio 2006

Recensione STAND BY ME - RICORDO DI UN'ESTATE

Recensione stand by me - ricordo di un'estate




Regia di Rob Reiner con Wil Wheaton, River Phoenix, Kiefer Sutherland, Richard Dreyfuss

Recensione a cura di Pasionaria (voto: 9,0)

Il cinema ha sempre dato maggiore spazio alle storie degli adolescenti dai 16 anni in su, trascurando un'età di transizione, quella preadolescenziale, la più ricca di cambiamenti e quindi di spunti interessanti. Pochi registi si sono cimentati nell'analisi delle problematiche relative ai ragazzini dai 12 ai 14 anni, fra questi l'ha fatto con grande sensibilità Trouffaut nel film "Gli anni in tasca", seguito da Louis Malle che in "Arrivederci ragazzi", dilata e drammatizza il tema e I suoi protagonisti ambientando I loro tormenti nel difficile periodo delle leggi razziali contro gli Ebrei. Pochi altri lungometraggi totalmente dedicati all'autentica "età ingrata" li hanno preceduti e seguiti, quello più noto negli anni Ottanta "Il tempo delle mele", grande (immeritato?) successo al botteghino, ma superficiale e poco incisivo a livello tematico.
"Stand by me" si colloca fra questi, meno drammatico dei primi, più intenso del secondo, insomma c'entra l'obiettivo, raccontandoci una storia commovente in un crescendo emozionale che, a tratti, sfiora la poesia.
E' il racconto di un viaggio, più metaforico che reale, un viaggio d'iniziazione che trasforma il gioco di bambini in una fondamentale esperienza di transizione nell'inesplorato territorio degli adulti. Rob Reiner traspone sul grande schermo il terzo dei quattro racconti di "Stagioni diverse" (The body), opera atipica, probabilmente autobiografica, del grande autore horror Stephen King. Il regista lo fa con una spiccata sensibilità interpretandone l'essenza, tanto che King lo considera la migliore trasposizione cinematografica di una sua opera. In effetti, Reiner ha saputo abilmente rappresentare le emozioni che trapelano dal racconto di King, le ha sapientemente trasfigurate nelle belle immagini del suo film, donando loro, attraverso l'ottima regia, quel non so che di catartico, che l'opera scritta forse non offre.

Gordie, Chris, Teddy, Vern, sono I quattro ragazzini protagonisti di cui il regista ci narra l'avventura in un'estate del 1959 (la colonna sonora lo sottolinea) a Castle Rock nell'Oregon; un'avventura che segnerà la loro esistenza e che resterà per la vita un dolce ricordo da preservare. I quattro amici partono alla ricerca del corpo di un loro coetaneo dato per disperso, l'avventura di quella estate lontana è narrata in terza persona proprio da uno di loro, Gordie Lachance, ormai adulto e scrittore affermato (Richard Dreyfuss). Proprio la notizia, letta su un quotidiano, della tragica morte di Chris (R. Phoenix), suo amico d'infanzia, lo riporta al ricordo di quella vacanza estiva che segnò la fine della fanciullezza per entrambi.

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lunedì 24 luglio 2006

Recensione KYASHAN - LA RINASCITA

Recensione kyashan - la rinascita




Regia di Kazuaki Kiriya con Yusuke Iseya, Kumiko Aso, Akira Terao, Kanako Higuchi, Fumiyo Kohinata, Hiroyuki Miyasako

Recensione a cura di Jellybelly (voto: 3,0)

Kyashan - La rinascita è (molto) liberamente ispirato all'omonimo anime, dalle atmosfere disperatamente cupe e ineluttabilmente angoscianti, da cui riprende quasi esclusivamente il nome ed il look del protagonista. Apparirebbe quindi fuorviante limitare l'analisi del filmpellicola ad un mero raffronto con l'anime da cui trae ispirazione; d'altro canto, lo sforzo critico necessario ad un simile esercizio sarebbe assolutamente immeritato per una pellicola dalla qualità tanto scadente.

Brevemente, la storia: in un futuro post-bellico, uno scienziato pazzo idea delle cellule autorigeneranti, capaci di riprodurre autonomamente parti del corpo umano, restituendo persino la vita ai defunti. Non vuoi che ti va a defungere proprio il figlio del matto, che non trova niente di meglio da fare che rianimarlo grazie alle cellule miracolose trasformandolo in Kyashan, super-forte, super-veloce e super-volante, con la sua super-tutina argentata ed i suoi super-capelli a fissaggio ultra-forte. Giusto ciò che ci vuole per battersi contro i cattivi neuroidi, generati allo stesso modo dallo scienziato novello Frankenstein, ma anche contro la società corrotta ed i suoi simboli di potere.

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Recensione EASY RIDER

Recensione easy rider




Regia di Dennis Hopper con Peter Fonda, Dennis Hopper, Jack Nicholson, Luana Anders

Recensione a cura di Giordano Biagio

Il film è del 1969 e si svolge negli Stati Uniti.
Quest'opera di Dennis Hopper nasce in un contesto storico e culturale che vede protagoniste diverse ideologie: riformiste o rivoluzionarie, pacifiste o marxiste, marcusiane o hippy. Tutte legate da una matrice antisistema. L'atmosfera politica e sociale americana è simile a quella presente in gran parte dell'Europa.
Le ideologie mettono sotto accusa la tecnologia del sistema capitalista. Lo fanno criticando senza mezzi termini il modo con cui la tecnologia viene ideata e usata. E considerano l'applicazione scientifica troppo legata ad interessi particolari. Lontana dalle reali necessità dell'uomo.

Il film svolge un'idea di libertà strettamente connessa ad aspetti importanti dello spirito del '68.
Lo fa rendendo comprensibili i valori più importanti della libertà: essi sono ricercati su un piano prevalentemente estetico. Un'estetica che non può fare a meno di essere occupata da punteggiature etiche.
La pellicola porta avanti con una piacevole scorrevolezza i temi del viaggio, della sessualità trasgressiva, della droga, della vita autonoma delle comunità agricole e religiose.
Nel film la sessualità appare legata a forme di delirio paranoico, ma è vissuta molto liberamente, non è ossessiva: si presenta come bisogno ineluttabile ricco di significato.

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venerdì 21 luglio 2006

Recensione L'INFERNALE QUINLAN

Recensione l'infernale quinlan




Regia di Orson Welles con Charlton Heston, Janet Leigh, Orson Welles, Joseph Calleia, Akim Tamiroff, Joanna Cook Moore, Marlene Dietrich, Zsa Zsa Gabor

Recensione a cura di Aliena

Il titolo originale, Touch Of Evil, viene, secondo la svilente tradizione italiana del gran attore, tradotto ne L'infernale Quinlan che, tengo a precisare, non è propriamente l'interprete principale; infatti tutti i torbidi, grigi e indefiniti personaggi, che viscidamente si affrontano su questa vacillante pellicola, sono protagonisti: ognuno di loro viene personalmente lambito dal "Tocco del Malefico".
Questo film vanta diversi cameo tra i più importanti attori del tempo, che espressero fortemente il desiderio di recitare per -e- con Welles: star del calibro di Marlene Dietrich, Tza Tza Gabor, Janet Leigh, Charlton Heston, ... senza contare che fu proprio per quest'ultimo che i produttori, affidarono la realizzazione del film a Welles; Heston quando venne scritturato si rifiutò di recitare se a dirigerlo non ci fosse stato quel sommo genio creatore di Orson.

Lavorando sull'omicidio del più ricco petroliere della zona, Vargas novello sposo, giovane e statuario poliziotto modello mosso dall'alto ideale della giustizia assoluta che trascende l'umano, si trova ad affrontare Quinlan, solo,vecchio e deformato agente corrotto nello spirito e nel corpo, che non esita a piegare la legge al suo volere.
La trama è tra le più ovvie, una storia del genere noir hollywoodianamente standardizzata, ovviamente non ideata e tanto meno scelta dal prodigioso Welles, ma imposta da una Hollywood che costringeva a regole ferree le caratterizzazioni dei generi, e, il noir doveva essere facile: bianco su nero.
Lo spettatore doveva capire da subito chi era il virtuoso eroe senza macchia da ammirare e chi il ripugnante antieroe da disprezzare.
Ma a questo, decisamente troppo semplice filo di una trama in cui poco crediamo tutti noi, l'impossibile Welles non ci sta, pur sapendo che non può andare contro la schiacciante volontà di Hollywood che già lo detesta per aver minato definitivamente, 17 anni prima, le basi del proprio sistema cinematografico, con Quarto Potere, film che ha cambiato per sempre le sorti della settima arte, nonché attirato verso di lui l'ire funeste di tutti quei registi e produttori che si erano sempre chinati al compiacimento di un fare cinema per famiglie bigotte.
Se solo compie un passo falso (un altro), la minacciosa promessa è di tagliarlo fuori.
Così come un novello Ariosto inganna (per l'ennesima volta) il proprio padrone, lasciando una parvenza di patinato controllo: di fatto esternamente la trama rimane immutata, ma internamente fa implodere e scardina tutto il possibile, mettendo in scena il vero teatro della vita, quella degli uomini.
Acuisce il conflitto di mentalità che esplode tra i due poliziotti, dimenticando volutamente le connotazioni poliziesche dell'indagine sull'attentato.
Sarà il suo ultimo film americano.

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giovedì 20 luglio 2006

Recensione SUSSURRI E GRIDA

Recensione sussurri e grida




Regia di Ingmar Bergman con Harriet Andersson, Kari Sylwan, Ingrid Thulin, Liv Ullmann, Erland Josephson

Recensione a cura di Giordano Biagio

Questo film uscito nel 1973 viene riproposto oggi dalla rivista Ciak in DVD. Il disco è corredato di extra molto interessanti comprendenti anche alcune interviste a Bergman e Fellini. Le emozioni più convincenti che Bergman riesce a darci con quest'opera nascono dalla rappresentazione molto curata e intrecciata con il religioso di alcuni aspetti della sofferenza umana.
Il film è sia una disamina del dolore puro, lungo i suoi più evidenti effetti di atrocità sul corpo, che un esempio di lettura psicanalitica delle figurazioni storiche che la sofferenza consente di vedere con una paradossale lucidità finché c'è vita. Un soggetto molto difficile da trattare in un film perché è la messa a fuoco di un soffrire senza speranza.

La malattia riguarda, in questo caso, una donna borghese che vive in una villa della periferia di Stoccolma. La sua sofferenza si svolge paurosa e angosciante, delirante, ma rimane per tutto l'andamento del film sempre densa di gestualità significativa.
Gestualità che coinvolge tutto l'interno di una famiglia divisa dall'odio. Il dolore straordinario di Agnese suscita ricordi e sensi di colpa in tutti i componenti del nucleo famigliare. Lungo una prolungata atmosfera di morte si svelano i reali intenti dei personaggi e il senso dei loro rapporti. Le scene si svolgono in un clima cupo e disinibitorio che fa presto cadere gli aspetti formali con cui avviene l'assistenza alla malata.
Nel film la depressione prolungata del dolore non rimane mai fine a se stessa. Non è patetica. Ma tende a creare una tensione psichica da cui traspaiono le inquietudini più profonde delle rispettive personalità. La sofferenza è rappresentata da Bergman in modo diretto. Privo di forme letterarie.

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mercoledì 19 luglio 2006

Recensione UNITED 93

Recensione united 93




Regia di Paul Greengrass con Lewis Alsamari, Cheyenne Jackson, Trish Gates, Khalid Abdalla, Opal Alladin, David Alan Basche, Richard Bekins, Starla Benford

Recensione a cura di peucezia

Gli Stati Uniti vincenti, pronti ad autocelebrarsi, si leccano ancora le ferite da quel malefico undici settembre 2001 che ha cambiato il mondo. Film dolente, quasi instant movie anche se sono trascorsi quasi cinque anni da quel giorno tragico, primo film a rompere il silenzio su uno choc collettivo non ancora del tutto superato.

A rompere questo arcano silenzio non interviene un regista targato stelle e strisce ma un irlandese, Paul Greengrass, sua la firma di "Bloody Sunday" (2002) sui fatti che nel 1972 portarono allo scoppio della guerra civile in Irlanda del Nord. Regista di scuola europea, decisamente antihollywoodiano, discepolo di Oliver Stone e fautore di un verismo cinematografico che trova un terreno fertile anche nelle teorie del DOGMA.
Camera a mano, inesistenza di accompagnamento sonoro, a tratti "United 93" da' l'impressione di essere un documentario, anche perché il regista ha scelto come interpreti attori poco noti proprio per evitare coinvolgimenti con il divo del momento e per consentire allo spettatore di focalizzare totalmente i fatti. Gran parte del film è occupata dai preliminari al volo, le operazioni d'imbarco, le istruzioni di routine delle hostess ai passeggeri. I "teatri" di posa sono praticamente due: da una parte il regista sceglie di seguire l'aereo e dall'altra si assiste alla convulsione a terra dove già gli avvenimenti stanno venendo a galla.

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Recensione ROMANZO CRIMINALE

Recensione romanzo criminale




Regia di Michele Placido con Stefano Accorsi, Kim Rossi Stuart, Luigi Angelillo, Toni Bertorelli, Roberto Brunetti, Giorgio Careccia, Antonello Fassari, Claudio Santamaria, Pierfrancesco Favino, Anna Mouglalis, Riccardo Scamarcio, Jasmine Trinca, Elio Germano, Franco Interlenghi

Recensione a cura di peucezia (voto: 7,5)

Dopo aver realizzato il poco felice "Ovunque sei", Michele Placido torna alla regia scegliendo di narrare le "gesta" di una delle bande criminali tra le più controverse della nostra storia recente, e lo fa non prendendo spunto dalla cronaca, ma basandosi sul romanzo di Giuseppe Di Cataldo che da' anche il titolo al film.
Stilisticamente la pellicola si presenta come un'opera complessa, forse di lunghezza eccessiva, ma comunque non tale da suscitare noia. Accompagnata da una valida colonna sonora e da intermezzi di filmati d'epoca forti, da colpire al cuore, "Romanzo criminale" è senza dubbio una delle pellicole più interessanti degli ultimi anni e, ad oggi, la migliore direzione di Placido.

Il cast è costituito da alcuni dei più popolari giovani attori del periodo, da Riccardo Scamarcio, sguardo imbronciato a bucare lo schermo, sceso dai tre metri sopra il cielo per ritrovarsi nell'inferno del crimine a Claudio Santamaria, occhi un po' persi perché lui si è perso dall'inizio, al duro faccia di pietra Francesco Venditti, due volte figlio e anche nipote d'arte, a Kim Rossi Stuart non più principe azzurro, gelido come i suoi occhi, ma anche con tanta voglia di mostrarsi diverso, infine c'è l'eroe, buono ma non del tutto, lo Stefano Accorsi già diretto da Placido in "Ovunque sei" accanto a Violante. Accorsi esce dall'inespressività che lo ha caratterizzato nelle ultime pellicole per dare l'anima a questo commissario tormentato dai crimini della banda e dal suo personale demone.

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martedì 18 luglio 2006

Recensione L'INQUILINO DEL TERZO PIANO

Recensione l'inquilino del terzo piano




Regia di Roman Polanski con Roman Polanski, Isabelle Adjani, Melvyn Douglas, Jo Van Fleet, Bernard Fresson, Lila Kedrova, Rufus

Recensione a cura di Giordano Biagio

Questo film di Polanski del 1976 è un thriller un po' insolito. Originale per tecniche narrative e psicologia dei personaggi, il racconto suscita però, per tutta la durata della pellicola, un interesse troppo intessuto di ansie metafisiche.
Le scene si snodano lungo un credibile e avvolgente mistero noir ma lasciano un po' inappagati dopo l'enigmatico finale, anche se la conclusione non criptica consente di rimanere piacevolmente pensosi.
Il film si avvale di un impianto linguistico molto curato e riuscito nei suoi aspetti temporali e spaziali. Un impianto fertile di sviluppi di espressioni visive: quelle più idonee a dare spessore al genere thriller.

Il dispositivo messo in moto da Polanski è mirabile per la scioltezza semantica che consente all'andamento e per l'eccezionale capacità di produzione di sentimenti di paura. Una paura che, grazie al contenimento non dispersivo dei significanti visivi, si esalta da sé divenendo terrore, inquietudine incommensurabile, incubo; sfuggendo forse in alcune caratteristiche al controllo delle reali intenzioni di Polanski.
La sceneggiatura è molto curata e puntuale nelle scelta di quelle parole chiave che sciolgono i nodi del racconto. Riesce a dare un ritmo in cui predomina, in una crescente stranianza di immagini, un senso di alienazione. Le scene si strutturano in una linearità discorsiva semplice ed efficace che non fa mai perdere l'effetto thriller del racconto neanche nei momenti dove l'immagine è più convulsa e caotica.
L'opera, avvalendosi di una buona credibilità scenica, trasporta lo spettatore da un inizio del racconto vissuto in un rassicurante quotidiano condominiale, in cui riconosce aspetti della propria vita abitudinaria, a un finale di assoluto altrove immaginifico: tragico e inaspettato.

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