Recensione guardie e ladri
Recensione a cura di peucezia
Uscito nel 1951 e diretto da due mostri sacri del nostro cinema Steno (al secolo Stefano Vanzina) e Mario Monicelli, il film, vincitore di un Nastro d'Argento, segna la felice incursione nel neorealismo da parte di Totò considerato all'epoca un attore comico fino ad allora legato a grossi successi popolari ottenuti con pellicole anche intessute di satira sociale ma, fondamentalmente, surreali e leggere.
Il titolo del film e l'interpretazione di Antonio De Curtis rimandano comunque alla scuola comica da cui l'attore proviene ma l'intento dei registi e degli sceneggiatori (tra i quali spiccano Vitaliano Brancati e Flaiano) è senza dubbio differente: si cerca di sfruttare la "maschera" dell'attore Totò per denunciare la difficile ripresa dalla guerra, una ripresa che ha portato molti reduci a dedicarsi ad affari poco puliti con unico scopo la sopravvivenza personale e delle proprie famiglie.
Totò, nel ruolo di Ferdinando Esposito infatti, è un ladruncolo incensurato, un disperato costretto a vivere di espedienti, per il quale viene spontaneo "tifare" ma anche la guardia, sotto le spoglie del "robusto" Aldo Fabrizi, è un uomo semplice, un onesto membro della piccola borghesia, un po' più fortunato perché regolarmente stipendiato ma costretto a non farsi prendere dalla pietà o dalla simpatia per salvaguardare la misera pagnotta. I due attori sono superbi nella loro interpretazione e fra i due forse spicca maggiormente la figura di Bottoni (Fabrizi), un autentico proletario come in seguito ebbe a definire i poliziotti Pier Paolo Pasolini commentando alla fine degli anni Sessanta la manifestazione studentesca a villa Giulia sedata dai celerini.
La patina neorealista del film è data da molteplici elementi: riprese in esterno nei quartieri popolari periferici di Roma, prima d'allora del tutto ignorati dalla cinematografia, accenno all'attualità (consegna dei pacchi a cura dell'UNRRA), fotografia dell'Italia che si lecca le ferite dopo le batoste della guerra e dove l'americano è visto comunque (ed è qui che entra la matrice comica della storia) come un borioso vincitore disposto a dare carità pelosa più che effettiva solidarietà.
Inevitabili i guai con la censura per la relativa scarsa considerazione data all'alleato d'oltreoceano, per il legame sodale che si stringe tra due poveri diavoli sia pur divisi dalla casacca di persona "perbene", tutrice dell'ordine precostituito e malvivente. Certamente al giorno d'oggi tutte le sfumature nascoste dietro questa apparentemente innocua pellicola che richiama nel titolo un vecchio gioco infantile sfuggono per concentrarsi invece sulla vis comica del protagonista, buon napoletano capace di far ridere anche nella drammaticità degli eventi.
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