lunedì 29 settembre 2008

Recensione I COMPLESSI

Recensione i complessi




Regia di Franco Rossi, Luigi Filippo D'Amico, Dino Risi con Ilaria Occhini, Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi

Recensione a cura di peucezia (voto: 7,5)

Film del 1965 ad episodi, come voleva una moda degli anni Sessanta, "I complessi" ,come ogni buona commedia all'italiana, vuole prendere in giro i costumi e le abitudini nazionali.
Dopo la prima metà degli anni Sessanta l'Italia è uscita dal boom economico che l'ha trasformata da nazione agricola decisamente arretrata a paese industriale moderno e progressista (con tutti i limiti della mentalità nostrana); cambia l'Italia, cambiano gli italiani: se negli anni Cinquanta il loro problema era riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena, ora le problematiche si affinano per penetrare nella sfera psicologica, di qui appunto il "complesso".
I tre registi di ciascun episodio (Dino Risi per il primo, Franco Rossi per il secondo e Luigi Filippo D'Amico per l'ultimo) focalizzano i nuovi tic, le nuove preoccupazioni di un paese a metà strada tra il provincialismo e la voglia di migliorare.

Protagonista del primo episodio, "Una giornata decisiva", è un Nino Manfredi più che quarantenne e decisamente in ascesa in quegli anni.
Manfredi è un impiegato in gita aziendale deciso a chiedere la mano della collega più bella, ma la sua patologica timidezza lo spinge invece tra le braccia della bruttona.
Il personaggio interpretato da Manfredi ha un look da nerd (occhiali spessi, pettinatura tirata all'indietro), parla con tono basso e dimesso e cammina a passetti, inoltre prima di compiere ogni azione pensa lungamente. È contrapposto agli altri impiegati caciaroni, volgari e decisamente maschilisti ma anche alle due protagoniste femminili, donne ormai "liberate" anche se ancora vittime dello strapotere maschile (Gabriella, la bella impiegata, non riesce a liberarsi da un amante geloso benchè sposato; la racchia dell'ufficio soffre per la sua scarsa avvenenza). Alla fine sono le due donne a decidere il destino del mite impiegato: il poveretto finisce tra le grinfie della bruttissima e perfida collega ed è emblematica la scena che vede chiudersi alle spalle di Manfredi il cancello dell'abitazione della sua ormai fidanzata, a simboleggiare la "prigione" nella quale il timidissimo personaggio si è auto recluso.

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venerdì 26 settembre 2008

Recensione DILLINGER E' MORTO

Recensione dillinger e' morto




Regia di Marco Ferreri con Anita Pallenberg, Carole André, Michel Piccoli, Annie Girardot, Mario Jannilli, Adriano Aprà, Gigi Lavagetto

Recensione a cura di micheletraversa

Un ingegnere torna a casa dal lavoro. È una serata come tante altre. In casa c'è solo la moglie a letto che gli chiede dei sonniferi. La governante entrerà più tardi in casa, per poi rinchiudersi nella sua stanza, ma sia lei che la moglie sonoi raticamente assenti. L'ingegnere inizierà a prepararsi la cena, rifiutando quello che era già pronto. Nella ricerca degli ingredienti troverà una vecchia pistola. La pulirà, disinfetterà portandola di nuovo ai vigori di un tempo. Poi salirà dalla moglie e la ucciderà nel sonno. Il finale sarà devastante. Si imbarcherà su uno yacht alla volta di Tahiti, con scenario simile ad un quadro di Monet.

"Dillinger è morto" è il film più minimalista di Ferreri: sorprendente è la capacità di sottrarre struttura al racconto, svuotandolo di ogni orpello superfluo; il racconto di un uomo inserito perfettamente nella società industriale, con una bella carriera, con una bella moglie, una bella casa. Eppure c'è qualcosa che non va, che stona con un quadro tutt'altro che perfetto, un'asincronia costante per tutto il film; lo spettatore percepisce questa angoscia sottostante, ma sostanzialmente non riesce a spiegarne la provenienza.
Incredibile contrasto fra una vita moderna benestante ed il malessere primordiale di una cultura, e di una rivoluzione culturale (il '68) che forse ha liberato grandi idealismi ma che di certo ha liberato anche demoni interni, lasciando all'uomo l'incapacità di rispondere, o forse solo il tempo per poterlo fare, a quesiti mai posti prima, che si affollano in un universo di significati, più grandi dell'uomo stesso.

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giovedì 25 settembre 2008

Recensione ROSETTA

Recensione rosetta




Regia di Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne con Olivier Gourmet, Anne Yernaux, Fabrizio Rongione, Emilie Dequenne

Recensione a cura di Marco Iafrate (voto: 8,0)

"Rosetta" è un cuore che pulsa, un cuore ossessionato, simbolo di migliaia di giovani che non trovano posto nella società, una società che rema al contrario spingendo ai margini chi vuole disperatamente entrarvi all'interno, "Rosetta" è il mondo del lavoro visto dagli emarginati, dagli esclusi, è una realtà che nessuno vorrebbe conoscere e tutti vorrebbero che non ci fosse ma c'è, e i fratelli Luc e Jean Pierre Dardenne ce ne mostrano magistralmente l'esistenza.

E' probabilmente il loro passato di documentaristi al servizio del sociale che ha permesso ai fratelli registi di attirare l'attenzione della critica con i loro pochi ma interessanti lungometraggi; già con "La promesse" avevano vinto la sfida con chi sosteneva che quel lavoro non avrebbe mai avuto risonanza presso il grande pubblico, e nel 1999 si affermano a Cannes, consolidando la loro fama, aggiudicandosi la palma d'oro con questo bellissimo film, reso tale anche dalla bravura della giovane interprete Emilie Duquenne (premiata ex-aequo come migliore attrice) nel difficile ruolo di Rosetta.

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mercoledì 24 settembre 2008

Recensione TROPIC THUNDER

Recensione tropic thunder




Regia di Ben Stiller con Ben Stiller, Robert Downey Jr., Jack Black, Bill Hader, Nick Nolte, Jay Baruchel, Matthew McConaughey, Tom Cruise, Tobey Maguire, Justin Theroux, David Pressman, Brandon Jackson, Steve Coogan, Danny McBride

Recensione a cura di matteoscarface

"Tropic Thunder" è probabilmente nel suo genere, quello della commedia d'azione, uno dei migliori film che si possano trovare in circolazione.
Il film prende l'avvio dalle carriere ormai al tramonto di tre attori ex-campioni di incasso, che vogliono dimostrare di essere all'altezza anche per ruoli drammatici e rilanciarsi sotto un'altra veste: Tugg Speedman, "the action guy", l'eroe del film "Torrido" e dei suoi innumerevoli seguiti tutti effetti speciali; Jeff Portnoy, "the comedian", un emulo di Eddie Murphy ma molto più volgare, divenuto famoso per i suoi ruoli da petomane nel film "Ciccioni"; Kirk Lazarus, "the Academy-award winner", l'attore impegnato e sregolato che vive il metodo di interpretazione Stanislavskij portandolo ai massimi estremi. A loro si aggiunge il cantante hip hop Alpa Chino che ha sfondato le classifiche con l'hit "I love tha' pussy", il cui senso è di facile interpretazione, e che possiede a sua volta, come ogni buon rapper pataccone, anche una linea di merchandising di prodotti energetici come "Booty Sweat" (Sudalo Tutto), capi d'abbigliamento maschile e persino dolciumi; insoddisfatto di tutto il successo, desidera affermarsi anche nel mondo del cinema, come i vari Eminem, Snoop Dog, Coolio e 50 Cent.

Seguendo la biografia di un reduce della guerra del Vietnam, l'unico ad aver ceduto i diritti a Hollywood, come recita una didascalia iniziale che fa subito intendere l'aria che si dovrà respirare durante il corso della pellicola, il regista inglese Damien Cockburn (Steve Coogan) è deciso a girare il più grande film di guerra mai realizzato con un cast di stelle e una megaproduzione di supporto alle spalle. Durante una delle scene d'azione più spettacolari, dove vediamo in atto una delle più belle parodie mai fatte di numerosi film di guerra, una serie di errori manda a monte tutto quanto e lo Studio decide di fermare la produzione.
Sarà John "Quadrifoglio" Tayback, il reduce impazzito, a convincere il regista a portare gli attori nella giungla per fargli vivere la vera esperienza del soldato, posizionando alcune microtelecamere sugli alberi. E inutile aggiungere che tutto andrà storto, dal momento che gli attori, scambiati per agenti della DEA, si troveranno di fronte un gruppo di guerriglieri produttori di eroina pronti a farli fuori.

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Recensione LA VITA A MODO MIO

Recensione la vita a modo mio




Regia di Robert Benton con Paul Newman, Jessica Tandy, Bruce Willis, Melanie Griffith, Pruitt Taylor Vince, Philip Seymour Hoffman, Philip Bosco, Gene Saks, Dylan Walsh

Recensione a cura di Hal Dullea

Donald Sullivan, alias Sully, è un carpentiere ultrasessantenne che vive da scontroso solitario in una piccola cittadina dello stato di New York: North Bath. Alle prese con gli acciacchi dell'età e con gli inevitabili bilanci esistenziali, Sully cerca d'essere un buon nonno con il nipotino di sette anni, forse per cancellare il rimorso di non aver saputo fare a suo tempo il mestiere di padre. Intanto si trascina nella routine invernale della provincia americana. E quando la moglie del suo datore di lavoro, più giovane ma invaghita di lui, gli prospetta l'idea di ricominciare assieme un'altra vita, lui si rende conto che è troppo tardi e che è giunto a un'età della coscienza in cui non è più possibile illudersi o barare.

Da tempo non si vedeva un film statunitense così pianamente crepuscolare, così capace, cioè, di raccontare la banalità quotidiana di esseri marginali e sperduti (e "Twilight", appunto "crepuscolo", sarà il titolo dell'opera bentoniana successiva, del 1998). Fra vecchie case vittoriane diroccate e reperti dismessi d'archeologia industriale, in uno scenario di sporchi pub decrepiti e muri scrostati, Robert Benton descrive, con pennellate leggere, immagini ingrigite, luci piatte, toni smorzati e amarognoli, un'America vecchia. È invecchiato pure il vitalistico sogno americano, ancora presente sullo sfondo e capace d'incantare ma non più sino alla fine, quando invece lo si scopre essere soltanto una "fuga dalla realtà", come il nome del residence che avrebbe dovuto arricchire i malcapitati paesani e che viceversa si svelerà un buco nero per le loro finanze.

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martedì 23 settembre 2008

Recensione LE TRE SCIMMIE

Recensione le tre scimmie




Regia di Nuri Bilge Ceylan con Yavuz Bingöl, Hatice Aslan, Ahmet Rifat Sungar, Ercan Kesal

Recensione a cura di paul (voto: 9,0)

La scimmia: animale associato al dio scintoista Koshin, dio della strada e protettore dei cavalli; la rappresentazione tipica in questo senso è nella forma del trio non vedo/non sento/non parlo, ovvero il non riuscire ad affrontare la realtà, il sottrarsi alle responsabilità di tutti i giorni.
Questo ci vuole dire il Maestro Nuri Bilge Ceylan con "Le tre scimmie", terza sua opera in concorso al Festival di Cannes e meritatamente vincitrice della Palma d'Oro come miglior regia.
Le tre scimmie rappresentano anche il possesso materiale che, secondo il regista, è la causa dello sfascio dell'umanità e, nel suo senso più ristretto, della famiglia.

La trama è tanto surreale quanto semplice.
Un politico uomo d'affari in piena campagna elettorale investe ed uccide accidentalmente una persona: due testimoni non lo riconoscono, ma prendono il numero di targa della sua auto. Per paura di un fallimento politico l'uomo domanda al suo autista, Eyup, estraneo al fatto, di autoaccusarsi dell'accaduto in cambio di una cospicua somma di denaro. Eyup, con moglie e figlio a carico (e più avanti scopriremo che ha perso in passato un bambino) accetta.
Il figlio di Eyup vuole acquistare un'auto e domanda alla madre di rivolgersi al politico per farsi anticipare parte dei soldi promessi; l'uomo accetta ma tra lui e la donna inizia una relazione. Da qui si arriverà ad un finale onirico-shakespeariano o anche biblico-evangelico, con il ritorno di Eyup alla libertà.

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Recensione TUTTI I BATTITI DEL MIO CUORE

Recensione tutti i battiti del mio cuore




Regia di Jacques Audiard con Romain Duris, Niels Arestrup, Jonathan Zaccaï, Gilles Cohen, Linh Dan Pham, Aure Atika

Recensione a cura di Mimmot

"C'è un tempo per il denaro, c'è un tempo per la violenza, c'è un tempo per la musica e per ricominciare a vivere"

C'è veramente tempo per tutto. C'è un tempo per l'indifferenza e c'è un tempo per l'amore, c'è un tempo per il dolore e c'è un tempo per la gioia; così come c'è un tempo per redimersi e per rimediare ai propri errori, anche se il lato oscuro del nostro vissuto, "il battito che il cuore ha saltato" (è questo ciò che sottintende il titolo originale del film, "De battre mon coeur s'est arréte"), non si può cancellare ed è sempre lì, per ricordare a ciascuno di noi ciò che siamo stati e per allontanarci inesorabilemte da quello che si vorrebbe disperatamente essere, in attesa che qualcosa o qualcuno possa ricondurci a quello che sarebbe dovuto essere se avessimo seguito il percorso che era stato tracciato per ciascuno di noi.
Poi, improvvisamente, un giorno basta un segno inatteso, un ricordo, una frase, un incontro, un volto affiorato dal nulla e dai contorni incerti, come le luci al neon che illuminano le notti cineree e cupe delle strade sporche e pericolose delle banlieu parigine e che si rincorrono sul parabrezza dell'auto sportiva di Thomas, per ricordarci gli errori commessi ma anche per lanciarci un'ancora di salvezza, che ci permette di isolarci dal mondo che ci circonda (in cui affari, amori, interessi si intrecciano in un groviglio profondo che ottunde i sensi e la memoria) facendoci recuperare il senso profondo delle nostre azioni e quel "battito che il cuore ha saltato".

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lunedì 22 settembre 2008

Recensione ACHILLE E LA TARTARUGA

Recensione achille e la tartaruga




Regia di Takeshi Kitano con Takeshi Kitano, Kanako Higuchi, Kumiko Aso, Yurei Yanagi

Recensione a cura di kowalsky

Esaurita la crisi (fase?) creativa di "Takeshi's" e "Glory to the filmaker!", capolavori vintage di fusione/riciclaggio artistico, l'"Essere Takeshi Kitano" (alias "Beat Takeshi") torna (apparentemente) al suo rapporto di amore, odio e contraddizione con il suo pubblico.
Ma non facciamo in tempo a versare le lacrime per la novella del ragazzino che diventa orfano, costretto a diventare "artista" (affresco impetuoso e solo apparentemente furbo che rievoca quasi il magma tragico-familiare di "Yi yi" - cfr. Edward Yang) che ci troviamo a ridere, sarcasticamente, di un'inedito inferno Dantesco, quello della metafora di Zenone, o "dell'infinita corsa dell'artista verso l'Utopica affermazione di sè".

La storia del ricco industriale appassionato d'arte, che impone al figlio Machisu lo stesso amore, salvo poi togliersi la vita davanti a un fallimento finanziario, diventa un'opera ambivalente (come se Kitano stesse volesse compiacere il desiderio dei suoi spettatori più fedeli e della critica più intransigente), stratificata, sicuramente dadaista, è una riflessione sull'oggetto di desiderio/rimozione, il vettore artistico, come viscerale e frustante bisogno di coltivare la propria individualità (non "custodirla", come direbbero molti, ma renderla accessibile agli altri).

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Recensione CRUISING

Recensione cruising




Regia di William Friedkin con Al Pacino, Paul Sorvino, Karen Allen, Richard Cox, Don Scardino, Jay Acovone, Arnaldo Santana, Gene Davis

Recensione a cura di The Gaunt (voto: 9,0)

"Cruising" (in gergo "battere", "rimorchiare") è la pellicola più controversa di William Friedkin, a cui può essere concesso facilmente lo status di film "maledetto"; etichetta fin troppo abusata ma che per questo film calza a pennello, viste le feroci rimostranze suscitate all'epoca.
Tratto da un romanzo del 1970 di Gerald Walker, columnist del New York Times, il film si ispira a fatti di sangue accaduti tra il 1962 ed il 1969, molti dei quali rimasti insoluti, in cui le vittime erano degli omosessuali. Successivamente una nuova serie di delitti colpì nuovamente la città di New York tra il 1973 ed il 1979, apparentemente con le stesse modalità della prima serie ed anche questi rimasti per la maggior parte senza un colpevole. I diritti del libro furono acquisiti anche in questa occasione dai produttori Philip D'Antoni (lo stesso di "French Connection") e Jerry Weintraub, che assicurarono a Friedkin una buona libertà di manovra in sede di sceneggiatura.

New York. Un feroce assassino uccide e taglia a pezzi le sue vittime.
L'ambiente nel quale egli preferisce muoversi e selezionare i corpi è quello dei gay, ma con più esattezza quello legato alle pratiche sadomaso. La polizia, ancora lontana dalla soluzione, decide di piazzare un infiltrato nell'ambiente per ottenere maggiori dettagli e magari anche risolvere il caso. Viene scelto il poliziotto Burns perché ha le caratteristiche fisiche di tutte le vittime. Costretto a separarsi dalla sua donna per mantenere il segreto dell'indagine, Burns scivola silenziosamente attraverso le trame di questo nuovo mondo del West Greenwich Village di New York, spinto dalla possibilità di una promozione. Intuito il colpevole, incastrato una notte nel parco, fa ritorno a casa della sua ragazza dopo aver risolto apparentemente il caso.

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venerdì 19 settembre 2008

Recensione BURN AFTER READING - A PROVA DI SPIA

Recensione burn after reading - a prova di spia




Regia di Joel Coen, Ethan Coen con George Clooney, Frances McDormand, John Malkovich, Tilda Swinton, Brad Pitt, Richard Jenkins, J. K. Simmons

Recensione a cura di kowalsky (voto: 7,0)

Osbourne Cox (John Malkovich), analista della Cia, viene da un giorno all'altro allontanato dal suo incarico per problemi con l'alcool. Egli piomba in una prevedibile crisi, mentre la moglie (Tilda Swinton) diventa l'amante di uno sceriffo federale affetto da intolleranze alimentari e manie igieniche, tal Harry Pfaffer (Clooney).
Nella periferia di Washington, in una palestra, una donna di mezza età, Linda Litzke (la McDormand, moglie nella vita di Joel Coen), sogna continuamente interventi estetici che non può permettersi di pagare e, quindi, di incontrare la sua "anima gemella".
Un inserviente della palestra trova negli spogliatoi un dischetto di informazioni riservate della Cia: Linda ed un suo collega vagamente idiota (Pitt) decidono di partecipare a un gioco pericoloso: scoprono il nome del proprietario del dischetto, che è Osbourne Cox, e decidono di ricattarlo.
Iniziano una serie di equivoci che porteranno a eventi ora comici ora drammatici, fino a un imprevisto finale.

"Burn after reading" è un film bifronte: non è facile da collocare nè nella cinematografia Usa di questi anni nè nella carriera dei Coen.
La sua apparente esilità in realtà confonde anche gli spettatori: perchè - nonostante tutto - ci troviamo di fronte ad un film ricco di trovate, ma ancor più di intenzioni, che forse una causticità maggiore avrebbero reso con maggiore efficacia.
E' facile vincere la diffidenza e dichiarare senza mezzi termini che il film è un giocoso divertissment dei Coen alle prese con una parodia delle spy-stories americane (come "Austin Powers" lo era di quelle inglesi), ma tutto ciò esaurisce l'importanza di un film minore (ma non a caso il migliore tra i minori) della filmografia dei fratelli americani.
Anche se in qualche frammento "A prova di spia" (titolo appellato nella distribuzione italiana) può ricordare il vetriolico cinismo di "Fargo", il film rappresenta qualcosa di diverso.
E' un cinema che in qualche modo si ricollega alla commedia di John Landis (da cui eredita la stralunata isteria dei personaggi): commedia degli equivoci, "Burn after reading" suscita un certo interesse sia per la capacità dei Coen di parodiare le attese star del casting (Clooney con le sue fobie alimentari, Pitt IPod-dipendente e meno sprovveduto di quanto si creda, ma soprattutto un Malkovich luciferino e nevrotico al meglio di se stesso) sia per l'impatto emotivo che i due fratelli riescono a innescare in un contesto che vorrebbe/dovrebbe essere esclusivamente quello (appunto) del divertissment d'autore.

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Recensione LA DOLCE VITA

Recensione la dolce vita




Regia di Federico Fellini con Marcello Mastroianni, Anita Ekberg, Anouk Aimée, Yvonne Fourneraux, Alain Cuny

Recensione a cura di Giordano Biagio

"La dolce vita", uscito in bianco e nero nel 1960, è forse il miglior film di Federico Fellini; indubbiamente è il più discusso e provocante, quello che in maggior misura è riuscito a coinvolgere la critica ed il mondo della cultura, portandoli ad esprimersi su diversi e importanti piani artistici e letterari, con dibattiti televisivi, iniziative editoriali, scritti, conferenze culturali animate da un fervore polemico straordinario, indimenticabile, forse unico.

"La dolce vita", pur pubblicizzata con grandi mezzi mediatici ancor prima dell'uscita nelle sale, è stato per molti spettatori una vera e propria sorpresa cinematografica, piacevole e stimolante, lontano dalle banali suggestioni dello spettacolo da botteghino e dalle convenzioni narrative più fatiscenti finalizzate a ingrandire a dismisura i disagi o i godimenti della vita quotidiana.
Per altri il film ha rappresentato un disordinato, confuso, disparato movimento di idee e concetti visivi, finalizzati in qualche modo a demolire senza alcuna distinzione, da una prospettiva ribellistica tipicamente felliniana, i più noti valori del cattolicesimo, compresi quelli rimossi appartenenti dallo stesso regista riminese.
"La dolce vita" è in realtà un'opera epocale, di buon livello analitico e rilievo artistico, intrisa di quel potente pensiero critico e laico capace da sempre di svestire i falsi valori che si annidano nei modi di vita del cosiddetto cattolicesimo soft.
Nel film sono prese di mira le certezze più ipocrite del cattolicesimo aristocratico del tempo: quello più subdolo e formale.
Fellini si interessa ai rappresentanti più in vista di quel mondo, che costituivano un circolo esistenziale chiuso, indifferente al sociale; persone dedite a una vita mondana prevedibile, ripetitiva, animati da una inesauribile pulsione trasgressiva, mascherata a stento da una colta raffinatezza.
"La dolce vita" rappresenta dal punto di vista di Fellini una sferzata critica alla borghesia mondana, alla sua pesante egemonia culturale, al suo mito del successo, al cinismo competitivo che provoca nel sociale, e a quel suo ideale di vita che sembrava voler sancirne anche la superiorità etica sul resto del paese. Un successo secondo lui tanto invidiato quanto paradossale, confuso nella sua trasposizione simbolica, impossibile da realizzare pienamente perché preso nella spirale senza fine di una pulsione oscura, dove il peccato e la sua assoluzione diventavano parte di una struttura ossessiva inguaribile, ancorata alle radici storiche più remote, e legata misteriosamente ad un senso di colpa atavico di cui non si conoscono le cause.

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giovedì 18 settembre 2008

Recensione VERSO SUD

Recensione verso sud


Regia di Pasquale Pozzessere con Antonella Ponziani, Stefano Dionisi, Tito Schipa jr., Irene Grazioli

Recensione a cura di Hal Dullea

Paola esce di prigione. Eugenio caracolla per le strade di Roma, imbevuto d'alcool e a caccia d'elemosine da rubare nelle chiese. S'incontrano in una mensa per poveri e non si lasciano più. Vanno a vivere in una casa non finita, poi rapiscono il figlio di lei, tenuto in ricovero presso un istituto. Infine decidono di partire scegliendo come meta Taranto, alla ricerca d'un lavoro o solo di maggiori speranze. Eugenio però è costretto a tentare una rapina in un supermercato e muore dopo essere stato colpito da un proiettile. Paola, allora, scappa in Grecia col bambino.

In questa sua opera d'esordio, il pugliese Pozzessere usa uno stile limpido, secco, scarno, nel deliberato intento di prosciugare i canoni narrativi della coppia di fuggiaschi maledetti. "Verso sud" spinge la parabola dei propri protagonisti in un'evasione illusoria, priva d'un autentico altrove. Lo sguardo è emotivamente palpitante eppure impassibile, rivolto allo studio del mondo reale con la scelta d'un approccio quanto più osservativo. Il film si regge su pochissimo, nei dialoghi e negli episodi, ancorato alla profondità della visione piuttosto che alla portata fabulatoria. Non a caso Pozzessere ha dichiarato: "Io volevo che i personaggi parlassero poco, volevo che i dialoghi fossero frammentati proprio perché mi interessava rendere la difficoltà nella comunicazione. Anche la trama: qualcuno mi ha detto che avrei dovuto far accadere più cose, ma io volevo che tutto avvenisse attraverso la sottrazione, non attraverso il pathos".

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mercoledì 17 settembre 2008

Recensione SOLDATO DI CARTA

Recensione soldato di carta




Regia di Aleksey German jr. con Chulpan Khamatova, Merab Ninidze, Evgeny Pronin

Recensione a cura di kowalsky (voto: 6,5)

Kazakistan, 1961: alla vigilia del primo lancio dell'uomo nello spazio, l'ufficiale medico Daniil Pokrovsky, insieme alla moglie, deve preparare giovani aspiranti cosmonauti all'impresa; l'atroce morte di uno dei ragazzi, incenerito in una camera iperbarica, scatena però conflitti e interrogativi nel protagonista, incapace ormai di accettare che tanti giovani mettano a repentaglio la propria vita per la grande madre Russia. Tutto ciò aggrava sia le sue condizioni di salute che il rapporto con la moglie, che vorrebbe convincerlo a lasciare il lavoro.

Stalin è morto nel 1953, ma il film denuncia impetuosamente - con una critica al regime sovietico - una nazione di speranze illuse e di "soldati di carta" (come suggerisce il titolo) mandati a morire per il prestigio e la grandezza dell'Urss. Il non- luogo, punto di non-ritorno, in cui viene ambientata la vicenda è ora straziante ora opprimente ora incomunicabile, e in fondo a tratti comunica proprio (metaforicamente) la faticosa ascesa verso una democrazia, una libertà ben lontana.

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