Recensione la vita a modo mio
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Recensione a cura di Hal Dullea
Donald Sullivan, alias Sully, è un carpentiere ultrasessantenne che vive da scontroso solitario in una piccola cittadina dello stato di New York: North Bath. Alle prese con gli acciacchi dell'età e con gli inevitabili bilanci esistenziali, Sully cerca d'essere un buon nonno con il nipotino di sette anni, forse per cancellare il rimorso di non aver saputo fare a suo tempo il mestiere di padre. Intanto si trascina nella routine invernale della provincia americana. E quando la moglie del suo datore di lavoro, più giovane ma invaghita di lui, gli prospetta l'idea di ricominciare assieme un'altra vita, lui si rende conto che è troppo tardi e che è giunto a un'età della coscienza in cui non è più possibile illudersi o barare.
Da tempo non si vedeva un film statunitense così pianamente crepuscolare, così capace, cioè, di raccontare la banalità quotidiana di esseri marginali e sperduti (e "Twilight", appunto "crepuscolo", sarà il titolo dell'opera bentoniana successiva, del 1998). Fra vecchie case vittoriane diroccate e reperti dismessi d'archeologia industriale, in uno scenario di sporchi pub decrepiti e muri scrostati, Robert Benton descrive, con pennellate leggere, immagini ingrigite, luci piatte, toni smorzati e amarognoli, un'America vecchia. È invecchiato pure il vitalistico sogno americano, ancora presente sullo sfondo e capace d'incantare ma non più sino alla fine, quando invece lo si scopre essere soltanto una "fuga dalla realtà", come il nome del residence che avrebbe dovuto arricchire i malcapitati paesani e che viceversa si svelerà un buco nero per le loro finanze.
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