Recensione achille e la tartaruga
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Recensione a cura di kowalsky
Esaurita la crisi (fase?) creativa di "Takeshi's" e "Glory to the filmaker!", capolavori vintage di fusione/riciclaggio artistico, l'"Essere Takeshi Kitano" (alias "Beat Takeshi") torna (apparentemente) al suo rapporto di amore, odio e contraddizione con il suo pubblico.
Ma non facciamo in tempo a versare le lacrime per la novella del ragazzino che diventa orfano, costretto a diventare "artista" (affresco impetuoso e solo apparentemente furbo che rievoca quasi il magma tragico-familiare di "Yi yi" - cfr. Edward Yang) che ci troviamo a ridere, sarcasticamente, di un'inedito inferno Dantesco, quello della metafora di Zenone, o "dell'infinita corsa dell'artista verso l'Utopica affermazione di sè".
La storia del ricco industriale appassionato d'arte, che impone al figlio Machisu lo stesso amore, salvo poi togliersi la vita davanti a un fallimento finanziario, diventa un'opera ambivalente (come se Kitano stesse volesse compiacere il desiderio dei suoi spettatori più fedeli e della critica più intransigente), stratificata, sicuramente dadaista, è una riflessione sull'oggetto di desiderio/rimozione, il vettore artistico, come viscerale e frustante bisogno di coltivare la propria individualità (non "custodirla", come direbbero molti, ma renderla accessibile agli altri).
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