martedì 2 settembre 2008

Recensione APOCALISSE NEL DESERTO

Recensione apocalisse nel deserto




Regia di Werner Herzog con -

Recensione a cura di Hal Dullea

Il film è un mediometraggio diviso in tredici brevi capitoli accompagnati con discontinuità da un commento fuoricampo straniante e suggestivo: "Un pianeta del nostro sistema solare?".
Il primo capitolo ("Una capitale") ci mostra Kuwait City prima della guerra, una città in cui "nessuno sembra presagire il destino che l'attende".
All'improvviso lo spettatore viene precipitato nelle acque del Golfo. È l'avvisaglia della tragedia incombente.
Il secondo capitolo ("La guerra") è davvero cortissimo poiché "la guerra è durata qualche ora appena". Introdotte da una sirena d'allarme, appaiono solo immagini di repertorio sui bombardamenti di Baghdad, viste all'epoca migliaia di volte nei servizi televisivi della CNN e che sembrano quasi scene da videogioco.
Nel capitolo successivo ("Dopo la battaglia") troviamo i segni d'un paesaggio desertificato: lo stormo di alcuni uccelli neri, grandi ossa scarnificate, imponenti condutture in disuso, raffinerie abbandonate e sommerse dalla sabbia, cisterne implose per la fusione, parabole giganti sbriciolate.
Nei capitoli ulteriori si sprofonda a poco a poco nel "Parco Nazionale di Satana": delle riprese anche troppo fascinose ed estetizzanti svelano lentamente una foresta ricoperta di petrolio e, tra nuvole di fumo scuro e denso, ci si addentra sempre più nelle testimonianze visive del disastro ecologico compiuto, fino a giungere ai primi fuochi dei pozzi in combustione, alla dimora del male. Questa parte è intercalata fra un paio di capitoli ("La stanza della tortura" e "L'infanzia") in cui vediamo locali con oggetti di sevizie indicibili e ci viene presentata una donna che ha perso la parola per la paura e tenta vanamente d'esprimere il suo tormento interiore. Ma soprattutto ci viene mostrato un bambino piccolo che, a causa del terrore vissuto, ha deciso di non voler più parlare. In merito a tali episodi Herzog ha spiegato: "Contemporaneamente alle riprese sono andato alla ricerca di individui la cui ferita riportata in seguito all'irruzione delle truppe irachene fosse la perdita della parola. Volevo l'emblema dei danni arrecati a un paese, a un popolo".

Durante il settimo capitolo ("E si levò il fumo come il fumo di una fornace"), il commento assume i toni d'una catastrofe biblica, e nell'adagio avvicinarsi al regno di Satana le inquadrature aeree indicano che ne siamo infine giunti al cuore, tra vampe di fuoco guizzanti in mezzo a muraglie di cupe esalazioni.
Nell'ottavo capitolo ("Un pellegrinaggio") le immagini sono girate nel silenzio e a stretto contatto con le manovre di spegnimento dei pozzi.
Le figure umane appaiono ingabbiate in tute d'amianto, simili a extraterrestri, mentre alcuni macchinari imponenti gettano enormi quantità di sabbia sui buchi aperti dai pozzi, e altri con braccia infinite depositano candelotti di dinamite sui pozzi stessi per soffocarne le fiamme.
Nel nono capitolo ("Il banchetto dei dinosauri") le squadre dei tecnici s'aggirano ormai fuse con gli utensili e con i giganteschi mostri d'acciaio che le aiutano nella loro impresa.
Nei due capitoli successivi ("Protuberanze", "Lotta contro il fuoco") assistiamo alla fase posteriore allo spegnimento, con il personale specializzato impegnato a interrompere l'enorme flusso d'oro nero che fuoriesce dai pozzi spenti per incanalarlo dentro tubazioni da cui verrà finalmente recuperato sotto pieno controllo. Ma proprio tale vittoria sulla natura ridisegna in modo inquietante le sembianze degli uomini. Questo macabro sospetto trova conferma nel penultimo capitolo ("Vita senza fuoco"). Infatti i pozzi, a uno a uno, vengono riaccesi.
Il nome del capitolo conclusivo ("Sono così stanco di sospirare, o Signore, fa' che scenda la notte") è una supplica esaudita al termine stesso del film: calano le tenebre, il buio mimetizza la coltre nera, subentra il "Notturno" di Schubert che prosegue sui titoli di coda.

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