venerdì 30 ottobre 2009

Recensione PARNASSUS - L'UOMO CHE VOLEVA INGANNARE IL DIAVOLO

Recensione parnassus - l'uomo che voleva ingannare il diavolo




Regia di Terry Gilliam con Johnny Depp, Heath Ledger, Jude Law, Christopher Plummer, Lily Cole, Tom Waits, Verne Troyer, Andrew Garfield, Richard Riddell, Mike Godfrey, Mark Benton, Colin Farrell, Simon Day

Recensione a cura di Luke07 (voto: 6,0)

Era il 22 gennaio del 2008 quando, in un appartamento di New York, Heath Ledger perse accidentalmente la vita per un'overdose di farmaci. In quel periodo Heath stava lavorando a quello che poi sarebbe stato il suo ultimo film, "The Imaginarium of Doctor Parnassus". Di quel film lui era il protagonista, e la sua prematura scomparsa rischiò seriamente di fermare tutto, tanto che i finanziatori della pellicola cominciarono a chiedere indietro il denaro. Ma, come dice il personaggio di Parnassus durante una scena del film, "Non si può impedire che una storia venga raccontata".
Il merito di aver salvato il film è principalmente da attribuire a Johnny Depp, dice Gilliam, perché si disse fin da subito disponibile ad aiutare l'amico regista. Questo contribuì a placare i finanziatori, cosicché Gilliam ebbe tempo di rivedere la sceneggiatura.Il coinvolgimento di Jude Law e Colin Farrel rappresentò la quadratura del cerchio.
In effetti, se ci si pensa bene, fu una qualche divinità del cinema ad aiutare il regista di Minneapolis, perché il fatto che i tre sostituti di Ledger fossero tutti liberi da altri impegni e disponibili a cominciare fin da subito è decisamente stupefacente.
Se a tutto ciò si aggiunge il fatto che Heath Ledger aveva già girato quasi tutte le scene "terrene", favorendo la modifica della sceneggiatura, si sfiora il miracolo.

Da molti definito come "il Faust secondo Gilliam", opera alla quale il film strizza l'occhio, "The Imaginarium of Doctor Parnassus" racconta la storia dell'immortale dottor Parnassus (interpretato da Christopher Plummer), il cui nome rimanda al monte greco consacrato all'arte, gestore da secoli uno scalcinato e obsoleto teatro ambulante grazie all'aiuto del deforme e fedele Percy (Verne Troyer), del giovane Anton (Andrew Garfield) e della splendida figlia Valentina (Lily Cole).
Peculiarità del dottor Parnassus è quella di guidare l'immaginazione della gente e far vivere loro esperienze incredibili, il tutto grazie ad uno specchio magico e ad un patto stipulato con il diavolo, un mefistofelico Tom Waits. Parte di questo accordo prevede che Parnassus rinunci a sua figlia Valentina non appena questa avrà raggiunto il suo sedicesimo anno di vita.
All'avvicinarsi della data pattuita, però, egli strappa un ulteriore patto: Valentina andrà a colui che per primo farà sue cinque anime.

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Recensione IO E ANNIE

Recensione io e annie




Regia di Woody Allen con Woody Allen, Diane Keaton, Tony Roberts, Carol Kane, Paul Simon, Shelley Duvall, Janet Margolin, Christopher Walken

Recensione a cura di mariano

È il 1977 l'anno in cui appare nelle sale cinematografiche "Annie Hall" (in Italia tradotto in "Io e Annie"), settimo lungometraggio diretto da Woody Allen, vincitore di quattro premi Oscar (miglior film, miglior regia, migliore attrice protagonista Diane Keaton, migliore sceneggiature originale).
Allen al tempo è già un affermato attore, regista e autore teatrale: le battute argute, la consapevolezza con cui ricalca gli stilemi della comicità slapstick, specie nell'uso del corpo (vedi "Il Dormiglione", 1973), la novità di un linguaggio che sa essere estremamente divertente, alludendo di continuo alle nevrosi e ai conflitti della modernità, ne fanno un personaggio seguito e stimato.Già nella produzione precedente Allen aveva inserito riferimenti colti e umoristiche ma pungenti riflessioni esistenziali, spingendosi oltre la comicità puramente demenziale (valga come esempio "Amore e Guerra" del 1975, pieno zeppo di richiami bergmaniani e di citazioni dai grandi romanzi russi ottocenteschi).
Con "Annie Hall" si inaugura però un secondo e diverso periodo della sua carriera, all'insegna di un umorismo colto, intriso di malinconia, romanticismo e, non di rado, amarezza. L'influsso di Bergman si realizzerà pienamente quando Allen si deciderà a girare dei veri e propri drammi, come "Interiors" (1978), di poco successivo. È in ogni caso proprio nel singolare mix di linguaggio ben pensato e raffinato, comicità straripante, romanticismo agrodolce e pessimismo filosofico che il genio di Allen si esprime appieno, caratterizzando "Annie Hall" come uno dei suoi capolavori di sempre.

Ma veniamo al film. Windsor bianco su nero, questa volta nessuno swing di sottofondo, la prima inquadratura è tutta per lui: Alvy – Allen , davanti alla macchina da presa fissa, in primo piano, su uno sfondo anonimo e piatto, si confessa. È subito metacinema, ed è un uso del camera look molto schietto e diretto, senza filosofemi e sovrastrutture, confidenziale. Sembra dar voce ad una esigenza impellente di contatto e di sfogo; ma sa anche di egocentrismo.
Alvy, vero alter – ego di Allen, vuol racchiudere in due battute le sue verità sulla vita e sull'uomo: l'esistenza – dice - non è per niente esaltante, eppure ci si lamenta che duri troppo poco... non sarà forse che, come suggerisce Groucho Marx, abbiamo così poca stima in noi stessi, che cercheremo sempre di aggirare ciò che ci potrebbe rendere davvero felici?
"Non vorrei mai entrare a far parte di un club che contasse uno come me fra i suoi membri" e questa battuta di Groucho è esplicitamente collegata al "genio di Freud".
Alvy è timido, nervoso, irrequieto: a tratti ci guarda negli occhi, poi con piccoli scatti fugge lo sguardo della macchina da presa, che lo fissa imperterrito, per riprendere infine il confronto con se stesso: ha paura della vecchiaia, già si vede solo e disperato, con la bava alla bocca e incapace di intendere e di volere. Ma è irresistibilmente comico e, a prima vista, troppo sveglio e intelligente per fare una fine così.

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Recensione WOYZECK

Recensione woyzeck




Regia di Werner Herzog con Klaus Kinski, Eva Mattes, Wolfgang Reichman

Recensione a cura di Gilles

Woyzeck è il reietto, il respinto per eccellenza. Herzog crea un'opera che rasenta l'entomologia dell'umano, e il suo personaggio di Woyzeck, interpretato da Klaus Kinski e ripreso da una piéce incompiuta di Georg Buchner, rappresenta la forma più vivisezionata, più dissestata e manipolata tra le tante figure dei reietti che abitano usualmente il cinema herzoghiano: Kaspar, Stroszek, Nosferatu, i nani.

Soldato semplice in un mite paesello della Mitteleuropa, Woyzeck conduce un'esistenza scandita dai maltrattamenti continui che gli rivolgono tutti i personaggi secondari: le angherie del suo superiore, le richieste della sua donna, gli esperimenti che un dottore effettua su di lui, gli insulti del tamburmaggiore.
La sua è un'esistenza sbattuta, sempre agitata e tormentata: Kinski si muove sempre, come in preda ad una fretta inestinguibile, corre di qua e di là, da una mansione ad un'altra, da un turbamento ad un altro, è sempre in mezzo a due termini. Ma i suoi turbamenti non provengono solo dalle urgenze dell'altro, bensì anche dalla presenza di qualcosa di misterioso che ossessiona Woyzeck presentandosi occasionalmente a lui come Visione, come voce angosciante, come entità che parla solo a lui.
La sua salvezza e la sua perdizione dipenderanno entrambe da questa voce, che orienterà il suo destino e, in un certo senso, lo riconcilierà con un mondo perduto.

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giovedì 29 ottobre 2009

Recensione BRUNO

Recensione bruno




Regia di Larry Charles con Sacha Baron Cohen, Alice Evans, Candice Cunningham, Clifford Banagale, Ben Youcef

Recensione a cura di pompiere (voto: 4,0)

Il biondissimo, depilatissimo e fashionissimo Brüno vive a Vienna, "la città più figa di Austria", dove presenta un programma tv sulla moda molto alla moda, "Funkyzeit". Sempre in prima fila a tutti i vernissage e alle sfilate più cool, a causa dei suoi estremi tentativi di indossare abiti sempre più impossibili, Brüno arreca un enorme danno durante un défilé a Milano e, per questo, viene allontanato dai ritrovi più "in" e licenziato dalla rete televisiva.
Decide, allora, che l'unica piazza che potrebbe accoglierlo è Los Angeles e pensa di trasferirsi lì. L'obiettivo è, come dice lui, "diventare la più grande star gay del cinema dopo Schwarzenegger" o, comunque, di acquisire la notorietà a qualsiasi costo.

Sasha Baron Cohen/Brüno, credendosi emblema di epicureismo gay, si atteggia per tutto il film con proverbiali polsi spezzati, accento fastidiosamente teutonico, vestiti arditi e sempre smanicati su hot- pants abbassati, circondato da onnipresenti flash fotografici, immagini patinate col flou, bizzarrie comportamentali. Dopo mezz'ora si capisce come possa già aver scocciato.

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Recensione APRILE

Recensione aprile




Regia di Nanni Moretti con Nanni Moretti, Silvio Orlando, Daniele Luchetti, Andrea Molaioli, Agata Apicella Moretti, Pietro Moretti, Silvia Nono

Recensione a cura di JackR

"D'Alema, dì qualcosa di sinistra... D'Alema, dì qualcosa anche non di sinistra, di civiltà, dì qualcosa, reagisci!"

La battuta è passata alla storia ed è stata presa a prestito in innumerevoli contesti. Il grido di Moretti uomo/regista/personaggio racchiude in tre parole l'esasperazione di una parte di Italia di fronte all'avanzata dell'armata Berlusconi e all'incredibile impotenza della sinistra, o di qualsivoglia alternativa politica.
Dopo "Caro diario" Nanni Moretti continua ad impersonare se stesso (giocando molto sull'idea che nel tempo si è creata della sua persona), lasciando definitivamente nel cassetto il suo storico alter-ego Michele Apicella.
Forse non è più tempo di nascondersi dietro a delle maschere; per Moretti la necessità di raccontare qualcosa di personale passa (anche un po' narcisisticamente) dall'esposizione in prima persona.

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Recensione IL RACCONTO DEI RACCONTI

Recensione il racconto dei racconti




Regia di Yuri Norstein con -

Recensione a cura di Ciumi (voto: 10,0)

Chi ha cercato la propria cognizione del mondo e della vita nell'arte, spesso sarà incappato in faticose ricerche senza conclusione, implicandosi talvolta in cunicoli che, invece di riportare alla luce, gettavano altro buio e nuova profondità al proprio percorso personale. Magari s'allietava d'essersi perduto. Rimaneva giorni e giorni a ragionare sui cavilli stilistici che la poesia contemporanea gli proponeva e che, invero, occultavano il nocciolo che andava ricercando; e che a momenti del tutto poteva essere scordato.
Ci si ferma così a sbucciare la scorza spinosa di quei frutti dolci/amari; ma prima di arrivare a quel nocciolo luminoso, ecco che esso s'è già spento; oppure esausti ci abbiamo noi stessi rinunciato.
Di che sostanza era fatto quel nucleo? Era poi davvero tanto importante arrivarci? Non era sufficiente averne gustato pienamente la polpa?

Un giorno, nell'intenzione di trascorrere un'oretta di puro relax, e preparandosi alla vista d'un film d'animazione d'un autore pressoché sconosciuto, può accadere però che una luce abbagliante d'improvviso ci sorprenda, quando meno s'aspettava d'incontrarla; e di ritrovare in quei pochi minuti immensi ciò che certa poesia aveva in noi dissipato: la Poesia; quel nocciolo che s'era perduto e altrove a lungo ricercato.
Ed è a quel punto che ci si accorge di trovarsi dinnanzi ad una delle opere più semplici e più complesse a cui si abbia mai assistito, forse visivamente parlando la più bella, e che si è scelto d'introdurre con questa che più che una prefazione, vuole essere una sorta di nota del traduttore, dove la seguente traduzione, se tale si può definire, sarà solamente suggerita, poiché l'idioma originale dell'opera lo conosciamo bene tutti: è quello dei sogni, della malinconia, dell'infanzia, della memoria.

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mercoledì 28 ottobre 2009

Recensione JULIE & JULIA

Recensione julie & julia




Regia di Nora Ephron con Amy Adams, Meryl Streep, Jane Lynch, Stanley Tucci, Mary Lynn Rajskub, Vanessa Ferlito, Dave Annable, Chris Messina, Casey Rose Wilson, Marceline Hugot

Recensione a cura di JackR

"Julie & Julia", ispirato a due storie vere e tratto dal libro di Julie Powell, mostra sin da subito, se ci fosse ancora qualche dubbio, perché Meryl Streep sia considerata la migliore attrice in circolazione.
Semplicemente, è capace di scomparire nel suo personaggio, dare vita e credibilità a qualunque emozione, qualunque sia il film, il tempo concessole sullo schermo e la battuta da recitare.
E dire che stavolta era dura: Julia Child, il personaggio da lei interpretato, è famosa per aver scritto un libro di cucina francese indirizzato agli americani (fatica sprecata, comunque) quindi, tutto sommato, la vita e i tempi di una signora di mezza età che impara a cucinare in Francia negli anni cinquanta ha davvero ben poco di interessante.

Il film procede su due piani temporali distinti, alternando la vita della Child, appunto, e quella di Julie Powell, trentenne fragile e frustrata dei giorni nostri (Amy Adams, un po' meno convincente del solito) che decide di sperimentare tutte ma proprio tutte le ricette di Julia in un anno esatto e scrivere su un blog la sua esperienza, che piano piano si trasforma in un'ossessiva sfida con se stessa.
Il confronto tra due generazioni di donne - non coetanee, va detto, quindi un po' pretestuoso - risulta impietoso nei confronti delle nostre contemporanee (un po' come quello tra le due attrici): Julie mette a repentaglio il suo matrimonio per un'impresa che da svago momentaneo diventa l'unico metro per la sua realizzazione personale, l'ultima spiaggia per dimostrare di non avere un grande futuro già tutto dietro le spalle.
La struttura narrativa della storia di Julie procede secondo il consolidato schema "idillio - problema - rottura - riconciliazione e morale finale". La solita storia insomma: non si fa che aspettare che la gigantesca Julia-Meryl torni in scena ad illuminare il film.

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Recensione PRIMA DELL'ALBA

Recensione prima dell'alba




Regia di Richard Linklater con Ethan Hawke, Julie Delpy, Andrea Eckert, Hanno Poschl

Recensione a cura di Mimmot

Ci sono certi momenti della vita che sono vissuti come molto particolari e che più tardi, visti con gli occhi dei ricordi (o dei rimpianti), gelosamente conservati nelle pieghe della nostra memoria, diventano momenti veramente straordinari.
Non importa quali essi siano: se i momenti di un viaggio senza meta oppure quelli di un incontro estremamente importante; se quelli di un amore totalizzante oppure quelli di una passione travolgente; importante è che quei momenti siano vissuti lasciando che accadano le cose che devono accadere.
Ricordi (o rimpianti) che attraversano le nebbie del tempo e che, come certe fotografie fissate alle parete della nostra stanza - simili a finestre che si aprono sull'immensità dell'orizzonte - segnano gli attimi delle nostre emozioni, che abbiamo cercato e cerchiamo ancora nelle nostre lunghe notti insonni, imprigionate dall'ansia e dalla malinconia.
Importante è saper riconoscere quei momenti in cui la magia ci sfiora, per saperla cogliere al volo e viverla fino in fondo. Senza remore, senza farsi troppe domande, senza chiedersi se è giusto o sbagliato, senza paura di commettere errori e di rimanerne feriti perché, nelle questioni di cuore, non è detto che tutto ciò che si sente di dover fare deve avere assolutamente un senso. Come tutto quello che viene dal profondo e riempie l'animo.
Liberi dalla zavorra delle convenzioni, lasciandosi alle spalle sicurezze, diffidenze e difese. Tanto non servono e andranno perdute.

Vincitore dell'Orso d'argento per la miglior regia al Festival di Berlino 1995, "Prima dell'alba" è, forse, il film più maturo e intelligente che Richard Linklater, all'epoca poco più che trentenne, abbia girato nella sua carriera. Ma è anche il film che, in modo semplice e venato di romantica malinconia, racconta della magia e dell'emozione assoluta di un debutto, che spacca il cuore e si offre come il più impagabile dei doni.
Un film che è la cronaca della nascita di un amore giovane, un amore che non è mai uguale a quello precedente e a quello successivo, pieno di ansie e di malinconie, di magia e di fascino, di tristezza e di speranze. Pieno di tutto ciò che solo l'amore sa offrire.
Un desiderio inedito, il silenzio dell'anima, un sogno, una meraviglia, una liberazione, un incanto. Occhi che cercano altri occhi, sguardi che si perdono in altri sguardi, attimi brevissimi, densi e preziosi, in cui ci si offre ad un'altra o ad un altro sperando che quell'altra o quell'altro faccia altrettanto.
Slanci trattenuti dall'ansia e dalla paura di soffrire, che prendono alla gola e bloccano il respiro, ma che danno la vera misura di se stessi, il sogno irraggiungibile dell'utopia, nudi nell'anima, pronti a farsi guardare dentro, a esporre un'essenza liberata da ogni protezione, da ogni finzione.
Il film è la storia, racchiusa tutta nell'arco di una notte, dell'incontro, dell'innamoramento e della separazione di due ragazzi fino ad allora sconosciuti, ai quali accade qualcosa che prima non c'era e che non ha ritorno, perché il poi sarà certamente diverso dal prima.

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Recensione IL COLOSSO DI RODI

Recensione il colosso di rodi




Regia di Sergio Leone con Rory Calhoun, Lea Massari, Georges Marchal, Conrado San Martin

Recensione a cura di pompiere (voto: 5,5)

Rodi è l'isola della pace, delle rose e delle belle donne. Almeno questa è la visione che hanno del luogo il sovrano e i suoi tirapiedi.
Ma il popolo è, in realtà, ridotto in schiavitù e versa sudore e sangue, lottando per la libertà. I reali di Rodi pensano in grande, come pervasi da un senso di folle megalomania; la posizione al centro dei mari è preziosa e l'idea è quella di diventare lo scalo più protetto del Mediterraneo, nella certezza di potersi svincolare da Atene grazie all'alleanza con i Fenici.
Il paese è in pericolo perché sta per essere venduto allo straniero, oltretutto all'insaputa del Re Serse. L'unico che sembra in grado di salvare il destino dell'isola è Dario (Rory Calhoun), coraggioso ateniese vincitore dei Persiani.

Considerato il debutto di Sergio Leone (anche se egli aveva già codiretto "Gli ultimi giorni di Pompei"), "Il colosso di Rodi" ha in sé i germi di quelli che in seguito saranno le pellicole aventi propositi di kolossal, quelle che animeranno in specie gli ultimi anni di lavoro del grande regista italiano.
Girato con l'idea di divertirsi e basta, ma soprattutto con lo scopo di procurarsi denaro, si inserisce in modo un po' anomalo nel filone dei film di genere storico-mitologici visto che Leone fa di tutto per ridimensionare i contenuti tipici di questo movimento.
L'attendibilità storica viene lasciata volutamente fuori della porta: il soggetto allude alle recenti guerre persiane combattute, in realtà, dagli ateniesi solo nel secolo precedente la costruzione del colosso di Rodi.

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martedì 27 ottobre 2009

Recensione LEBANON

Recensione lebanon




Regia di Samuel Maoz con Oshri Cohen, Michael Moshonov, Zohar Strauss, Reymond Amsalem

Recensione a cura di kowalsky (voto: 8,0)

"Dove, si pensa spesso, dov'è adesso lo spettro della guerra, l'immagine dell'assassinio e il volto dei morti, il volto degli altri che a quest'ora vagano come animali braccati, un fagotto sotto il braccio, la disperazione nel cuore, e dove sono le citta' fumanti? non vedo niente..."
Max Frisch "Fogli dal tascapane"

Giugno, 1982: prima guerra in Libano.
Un carro armato avanza verso un villaggio, destinazione sconosciuta. Un "frammento di guerra", liberato dalle immagini del "Redacted" di De Palma, una scheggia impazzita che percorre le ultime immagini - non animate - di "Valzer con Bashir".
Quattro soldati affrontano il conflitto desiderando tutti un precoce ritorno a casa: ma sarà sufficiente riconoscersi nei limiti umani di quattro uomini in guerra per dare al film vincitore dell'ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia una sua attendibilità antimilitarista? Probabilmente no.

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Recensione LOVE EXPOSURE

Recensione love exposure




Regia di Sion Sono con Takahiro Nishijima, Hikari Mitsushima, Sakura Ando, Makiko Watanabe, Atsuro Watabe, Yûko Genkaku, Itsuji Itao, Mitsuru Kuramoto, Shinji Miyadai, Mami Nakamura

Recensione a cura di Anna Maria Pelella

"Tutti i pervertiti sono stati creati uguali".

Yu è un liceale la cui madre, profondamente devota, poco prima di morire gli regala una statuetta della Vergine Maria e gli fa promettere di ispirarsi a lei nella ricerca della sua anima gemella.
Suo padre, alla morte della moglie, si converte alla religione cattolica e si fa prete. Intanto Kaori, incomincia a frequentare la chiesa e, lentamente si insinua nella vita dei due. Dopo poco però le cose degenerano e Yu, per attirare l'attenzione del padre depresso dall'abbandono della donna, si inventa di sana pianta peccati da confessargli. Ma quando il padre si accorge delle sue bugie lo manda via, e a Yu non resta altro da fare che peccare davvero. Si unisce così a una banda di giovani che gli presenta un maestro che gli insegnerà l'arte del Tousatsu. E dopo poco Yu si trova a compiere esaltanti acrobazie in stile samurai per fotografare le mutandine delle ragazze in strada. In uno di questi momenti incontra Koike, membro della chiesa Zero, che decide di insinuarsi nella sua vita. Vita che viene ulteriormente complicata dal ritorno di Kaori, che ha portato con sè la figliastra Yoko. Yu incontra Yoko quando è vestito da Sasori, per via di una scommessa con gli amici, e ne rimane affascinato, mentre la ragazza, che odia gli uomini, sembra interessarsi a lui credendolo una donna.

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Recensione I RACCONTI DELLA LUNA PALLIDA D'AGOSTO

Recensione i racconti della luna pallida d'agosto




Regia di Kenji Mizoguchi con Sakae Ozawa, Kinuyo Tanaka, Masayuki Mori, Machiko Kyo

Recensione a cura di Ciumi (voto: 10,0)

Se si pensa a quante pellicole del maestro del cinema Kenji Mizoguchi, a quali meraviglie destinate all'immortalità, a quanti capolavori, per dura legge degli eventi, si è dovuto per sempre rinunciare, non si può che provare nell'approccio alla sua opera, assieme alla debita ammirazione, un certo senso di rammarico.
Già il terremoto che colpì la capitale giapponese nel 1923 disperse gran parte dei suoi primi lavori; e ad assumere il ruolo di distruttrice definitiva fu ancora una volta la guerra - la Tokio bombardata. Nondimeno, il tempo e il clima hanno fatto la loro parte, riducendo ulteriormente la sterminata filmografia del maestro.
Per fortuna però - quasi sto anticipando involontariamente il miracolo dei vasi, che vedremo più avanti - qualche superstite è rimasto, e nel dopoguerra Mizoguchi ha sfornato (casualmente il termine è più che appropriato) una serie di capolavori di "intatta" bellezza e spiritualità.
Intatta, ma tra le virgolette; poiché lo stesso "I racconti della luna pallida d'agosto" arriva in verità ai nostri giorni mutilato di circa 47 minuti, perduti irreparabilmente anch'essi, ma ciononostante reduce di tutto il proprio fascino e della propria grazia infinita.

Come il chiarore della discreta luna (già il titolo è di per sé emblematico: si è nel limpido agosto, ma la luna è pallida) Mizoguchi rischiara le campagne devastate dalla guerra, inargenta l'acque desolate e spettrali del lago Biwa, alle cui rive opposte, finemente raccontati e musicati, destini differenti s'intrecciano, spiriti convivono con personaggi reali, vi si trovano assorti simboli quotidiani e al contempo magici come i già citati vasi.

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lunedì 26 ottobre 2009

Recensione GILDA

Recensione gilda




Regia di Charles Vidor con George Macready, Glenn Ford, Rita Hayworth

Recensione a cura di pompiere (voto: 9,0)

Una chioma di folti capelli che spunta dal nulla. Una donna quasi violata nella sua intimità domestica. Ma sul volto di lei compare un sorriso magico e incantatore; un'euforia contagiosa e una bellezza infinita che possono far sognare, così come possono esser capaci di dannare per sempre l'anima che osasse avvicinarsi. Quest'ultima non sarebbe più in grado di pensare ad altro, prigioniera di un sortilegio.
La bellissima donna, dallo sguardo letale e affilato come una lama, si chiama Gilda e si è appena sposata con tale Ballin Mundson, possessore di una sfarzosa casa da gioco in quel di Buenos Aires.
Il caso vuole che Johnny Farrell, astuto giocatore, truffatore incallito ed ex amante di Gilda, fosse stato assunto poco tempo prima proprio da Ballin come suo braccio destro...

Nata il 17 ottobre 1918 a Brooklyn col nome di Margarita Carmen Cansino, Rita Hayworth (che dopo questa interpretazione rimarrà "Gilda" per sempre) iniziò a ballare da professionista all'età di 12 anni.
La Hayworth veniva da esperienze cinematografiche con alcuni registi importanti quali Hawks, Cukor, Mamoulian e lo stesso direttore di origini ungheresi Charles Vidor, regista di "Gilda".
A sua volta Glenn Ford (Johnny Farrell) aveva già lavorato con la Hayworth e Vidor in "Seduzione" (1940). Entrambi gli attori avevano partecipato a opere discrete, ma solo con questa entrarono nell'olimpo delle star hollywoodiane per eccellenza.
Classico intramontabile della Columbia, "Gilda" è stato restaurato grazie all'intervento della UCLA Film and Television Archive. Tipico film noir con la peculiare ambientazione "esportata" in paesi esotici o lontani (in questo caso l'Argentina), con atmosfere ambigue e arbitrariamente provocanti, dove il modello dell'uomo venuto da una società avanzata naufraga nello smarrimento e nella tentazione della perdita di sé, resta a tutt'oggi un capolavoro del genere.
Fondamentale nella creazione di queste atmosfere un po' "malate" è la bella fotografia di Rudolph Mate', un bianco e nero tanto radioso e straordinario da rendere il melodramma pomposo senza risultare eccessivo e seducente al punto giusto.
Anche il ridoppiaggio, avvenuto nel 1978 per poter consentire alla televisione la messa in onda della pellicola (che soffriva di una traccia sonora originaria molto consunta), mantiene intatto il suo fascino. Le voci di Pino Colizzi (Johnny) e Vittoria Febbi (Gilda) sono autorevoli ed efficacemente rispondenti alle cadenze primigenie.

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