Recensione io e annie
Recensione a cura di mariano
È il 1977 l'anno in cui appare nelle sale cinematografiche "Annie Hall" (in Italia tradotto in "Io e Annie"), settimo lungometraggio diretto da Woody Allen, vincitore di quattro premi Oscar (miglior film, miglior regia, migliore attrice protagonista Diane Keaton, migliore sceneggiature originale).
Allen al tempo è già un affermato attore, regista e autore teatrale: le battute argute, la consapevolezza con cui ricalca gli stilemi della comicità slapstick, specie nell'uso del corpo (vedi "Il Dormiglione", 1973), la novità di un linguaggio che sa essere estremamente divertente, alludendo di continuo alle nevrosi e ai conflitti della modernità, ne fanno un personaggio seguito e stimato.Già nella produzione precedente Allen aveva inserito riferimenti colti e umoristiche ma pungenti riflessioni esistenziali, spingendosi oltre la comicità puramente demenziale (valga come esempio "Amore e Guerra" del 1975, pieno zeppo di richiami bergmaniani e di citazioni dai grandi romanzi russi ottocenteschi).
Con "Annie Hall" si inaugura però un secondo e diverso periodo della sua carriera, all'insegna di un umorismo colto, intriso di malinconia, romanticismo e, non di rado, amarezza. L'influsso di Bergman si realizzerà pienamente quando Allen si deciderà a girare dei veri e propri drammi, come "Interiors" (1978), di poco successivo. È in ogni caso proprio nel singolare mix di linguaggio ben pensato e raffinato, comicità straripante, romanticismo agrodolce e pessimismo filosofico che il genio di Allen si esprime appieno, caratterizzando "Annie Hall" come uno dei suoi capolavori di sempre.
Ma veniamo al film. Windsor bianco su nero, questa volta nessuno swing di sottofondo, la prima inquadratura è tutta per lui: Alvy – Allen , davanti alla macchina da presa fissa, in primo piano, su uno sfondo anonimo e piatto, si confessa. È subito metacinema, ed è un uso del camera look molto schietto e diretto, senza filosofemi e sovrastrutture, confidenziale. Sembra dar voce ad una esigenza impellente di contatto e di sfogo; ma sa anche di egocentrismo.
Alvy, vero alter – ego di Allen, vuol racchiudere in due battute le sue verità sulla vita e sull'uomo: l'esistenza – dice - non è per niente esaltante, eppure ci si lamenta che duri troppo poco... non sarà forse che, come suggerisce Groucho Marx, abbiamo così poca stima in noi stessi, che cercheremo sempre di aggirare ciò che ci potrebbe rendere davvero felici?
"Non vorrei mai entrare a far parte di un club che contasse uno come me fra i suoi membri" e questa battuta di Groucho è esplicitamente collegata al "genio di Freud".
Alvy è timido, nervoso, irrequieto: a tratti ci guarda negli occhi, poi con piccoli scatti fugge lo sguardo della macchina da presa, che lo fissa imperterrito, per riprendere infine il confronto con se stesso: ha paura della vecchiaia, già si vede solo e disperato, con la bava alla bocca e incapace di intendere e di volere. Ma è irresistibilmente comico e, a prima vista, troppo sveglio e intelligente per fare una fine così.
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