Recensione la grande illusione
Recensione a cura di Giordano Biagio
In Germania, verso la fine della prima guerra mondiale, precisamente nel 1917, alcuni ufficiali e soldati semplici francesi, russi e inglesi, vengono fatti prigionieri dai tedeschi e rinchiusi in diversi campi di concentramento.
I francesi si contraddistinguono subito per la loro abilità nel fuggire dai campi, a tal punto che i tedeschi si vedono costretti a trasferirli in una fortezza speciale, un maestoso castello di nome Wintesborn, non molto distante dalla Svizzera, da cui è praticamente impossibile evadere.
Le prigioni sono comandate dal nobile aristocratico Von Rauffenstein (Eric von Stroheim), invalido ed eroe di guerra tedesco, asso dell'aviazione. Tra il capitano francese De Boieldieu, facente parte dei nuovi arrivati, e Von Rauffenstein si instaura subito un rapporto di simpatia, fatto in particolare di stima e riconoscimenti per l'appartenenza entrambi a ceti sociali di grande prestigio.
De Boieldieu approfitta dell'amicizia per favorire, con un gesto eroico, la fuga di suoi due connazionali, ma viene ucciso da Von Rauffenstein proprio mentre, ai bordi delle mura della fortezza, cerca di distrarre con la dolce musica di una fisarmonica le sentinelle di turno.
I due francesi che avevano progettato la fuga, Maréchal (Jean Gabin) e Rosenthal (Marcel Dalio), riescono a fuggire e a trovare ospitalità presso una casa contadina abitata da una bella vedova di guerra, di nome Elsa (Dita Parlo), che vive insieme alla sua piccola figlia. Nonostante tra lei e Maréchal nasca subito una storia d'amore, i due decidono dopo qualche giorno di ripartire. Prima della partenza Maréchal lascia ventilare alla donna la possibilità di ritornare un giorno da lei. Seguiti nella neve dai tedeschi, sempre più vicini grazie alle impronte lasciate dai loro stivali, i due riescono a oltrepassare a fatica il confine con la Svizzera, proprio mentre gli inseguitori si accingevano a sparare.
Questo splendido film in bianco e nero uscito nel 1937, ha rappresentato per diverso tempo nella Francia governata dal Fronte popolare una grande speranza di pace e di giustizia democratica.
Sorretto in tutta la sua produzione da un clima politico favorevole alle idee di sinistra di Jean Renoir, il film riesce a sviluppare fino in fondo un'idea antimilitarista dai forti toni umanistici molto cara agli intellettuali comunisti dell'epoca. Renoir costruisce un film di rara bellezza, dallo stile difficilmente oggi eguagliabile, attraversato da un'atmosfera poetica unica, priva di quei violenti contrasti che portano nel cinema all'abituale spettacolo da periferia, e rinvigorita da una sceneggiatura aperta, stesa per appunti, che consente agli attori di esprimersi in una preziosa libertà, fatta soprattutto di sguardi e parole legati a un proprio modo di vivere i personaggi del racconto.
La grande illusione riesce a trasmettere un elevato messaggio etico, scevro da ogni forma di pietismo, e mai del tutto utopistico, capace di richiamare con forza le istituzioni militari di tutto il mondo ad un maggior rispetto delle "regole di guerra" che per Renoir sono l'indice più sicuro del grado di civiltà raggiunto da una nazione.
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