Recensione provincia meccanica
Recensione a cura di GiorgioVillosio
Sappiamo tutti bene che cos'è una coperta patchwork: un insieme di pezzi e pezzetti vari di tutte le stoffe, colori e formati; una cosa che possiamo apprezzare, perché calda, e sicuramente curiosa e divertente. Cioè a dire: comunque coerente e funzionale al suo uso proprio, quello di riscaldare. Ma un racconto, letterario come cinematografico, è ben altra cosa, e deve rispondere a vari requisiti: fare riflettere, suggestionare, stimolare emozioni, agire per transfert con il fruitore, oltre che, ove possibile, divertire. Il tutto, possibilmente, con una certa coerenza, di stile e di modi.
Dunque il collage degli elementi più diversi non conferisce in se attestato di valore, inducendo al contrario un doveroso scetticismo sulla chiarezza di idee e sulla improbabile vocazione espressiva dell'autore. E, per fare un facile esempio, provate a pensare ad un concerto dove si miscelassero insieme, senza ordine né intenzionalità, respiri sinfonici, improvvisazioni jazzistiche, cori popolari di montagna, melodie bi-folk all'italiana e gorgheggi alla Orietta Berti!
Proprio questo ci è venuto da pensare, dopo aver visto "Provincia meccanica", dove, se vogliamo, già il titolo avrebbe dovuto insospettirci. Che c'entra infatti l'assonanza col famoso film di Kubrick?
In cosa le due "vicende" sarebbero assimilabili?... Forse perché il contesto operaio ravennate avrebbe toni violenti e drammatici come la fatidica "Arancia"? Manco per sogno, invece; anche perché la neuro-psicotica interprete del film, moglie del povero operaio, è di magnanimi lombi, e figlia di una alto borghese con tanto di puzza sotto il naso. Ne emerge, quindi, l'ulteriore elemento di taglio psicanalitico, dell'inestricabile conflitto edipico madre-figlia; come pure inciampiamo in elementi "animalisti" di accatto, come il povero cane e lo sfortunatissimo iguana, miseramente affamati nella casa di famiglia. E poi elementi di folclore, come il drudo ungherese dall'aria gitana, di critica antiburocratica, contro l'inflessibile assistente sociale, di profilo alla Conrad, come il vecchio capitano costretto a terra nel porto sulla sua schiumarola, e di denuncia politico-sociale, come nelle panoramiche sulla dirompente edilizia popolare. Per non parlare ancora della figura del mago truffaldino, della suora cattiva o della povera assistente nelle mani di un convivente Paccianiano. Non tutto, ma di tutto, come in bazar surreale, visto con l'occhio malato di una crisi psichedelica; prospettiva che probabilmente ha formato l'autore, nel corso di una formazione culturale estetico-espressiva maturata dalla più tenera infanzia con la cloche dei video giochi in mano. Faceva il documentarista, un tempo il regista del nostro film; e magari ci riusciva, in presenza di vicende e realtà già esistenti, che non gli toccava inventare.
Ma creare, scrivere e raccontare è ben altra cosa! E neppure gli strumenti che già si possiedono risultano sufficienti, in mancanza di una ispirazione narrativa; come dimostra la fotografia approssimativa e forzata, il taglio nevrotico delle immagini, scimmiottato dai video clips, i primi piani di maniera degli interpreti e i ritmi inconsulti, talora lunghi all'esasperazione, talora, invece, inutilmente frenetici. Uno zibaldone, dunque, dove non si saprebbe che cosa salvare: se non, la colonna sonora, in sé valida, e in parte, ma con beneficio di inventario e l'onere di altre prove, l'interpretazione di Valentina Cervi. Sicuramente non quella di Stefano Accorsi, fino ad oggi abbastanza apprezzabile: nel film, invece, stucchevole, manierato e troppo convenzionale nell'espressione. Quanto meno gli consiglieremmo un'attenta lettura dei copioni, prima di accettare una parte, stante il suo attuale momento di fortuna.
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