giovedì 27 gennaio 2005

Recensione IL BUONO, IL BRUTTO, IL CATTIVO

Recensione il buono, il brutto, il cattivo




Regia di Sergio Leone con Clint Eastwood, Eli Wallach, Lee Van Cleef, Rada Rassimov, Aldo Giuffrè

Recensione a cura di paul (voto: 10,0)

Si respira aria di leggenda fin dai titoli di testa, assolutamente innovativi.
Sergio Leone, già campione d'incassi in Italia con i precedenti "Per un pugno di dollari" e "Per qualche dollaro in più" chiude la cosiddetta trilogia del dollaro e conquista il mercato statunitense nonché quello mondiale. Pensate che la trilogia del dollaro incasserà nel 1966, anno dell'uscita de "Il buono il brutto e il cattivo", solo negli Stati Uniti, qualcosa come 165 milioni di dollari, rapportato agli spettatori-incassi di oggi, cosa mai riuscita a nessun regista europeo (e mai eguagliata). Leone non aveva più intenzione di girare western, dopo i due film sul "dollaro", ma spinto dalla United Artists e dal suo sceneggiatore Luciano Vincenzoni, cambiò idea.

"Il buono, il brutto e il cattivo", nonostante sia un film western, vuole anche celebrare l'anarchia e la spensieratezza di tre picari di fronte ad un mondo dominato dalla violenza.
L'umorismo nero che pervade ogni angolo della pellicola rispecchia al massimo la personalità del regista e sarà imitato da centinaia di film successivi, oltre che dai noir di Quentin Tarantino (la cosiddetta sdemonizzazione della violenza). Lo stesso Peckinpah si ispirerà proprio alla violenza dei film di Leone per i suoi "Il mucchio selvaggio" e "Cane di paglia", cosa che farà anche Kubrick, ispirato inoltre dall'uso della musica strettamente legato alla temporalità delle immagini.

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mercoledì 26 gennaio 2005

Recensione PER QUALCHE DOLLARO IN PIU'

Recensione per qualche dollaro in piu'




Regia di Sergio Leone con Clint Eastwood, Lee Van Cleef, Gian Maria Volontè, Mara Krup

Recensione a cura di paul (voto: 10,0)

Dopo il grande successo mondiale ottenuto con "Per un pugno di dollari" Leone entra di diritto nell'Olimpo dei creatori del Mito. "Per qualche dollaro in più", anno 1965, approfondisce quelle tematiche care al regista, già evidenziate nel primo film della famosa trilogia del dollaro. Il protagonista, Clint Eastwood, è il Monco, l'eroe senza nome, con identico poncho della pellicola precedente (che Eastwood per scaramanzia non laverà mai e indosserà anche nel successivo "Il buono, il brutto, il cattivo"), cappello e sigaro in bocca (che accende anche quando piove), ed è affiancato questa volta dal grande Lee Van Cleef (già eccellente cattivo nel bellissimo "Mezzogiorno di fuoco", intramontabile western diretto da Fred Zinnemann e interpretato dall'indimenticabile Gary Cooper).
Entrambi sono dei Bounty Killers -cacciatori di taglie- e il loro scopo è catturare El Indio, un messicano tossico e schizofrenico interpretato da un sempre ineffabile Gian Maria Volonté.
I cacciatori di taglie non sono solamente esseri senza scrupolo, come venivano considerati nell'immaginario comune prima di questa pellicola, ma coloro che "danno dignità alla morte in un mondo che non ne dà più alla vita"; "Where life had no values, death, sometimes, had its price. That's why the Bounty Killers appeared" (dove la vita non aveva più valore, la morte, qualche volta, aveva il suo prezzo. Questo è il motivo per cui apparvero i cacciatori di taglie), recita la scritta all'inizio del film. I due cacciatori di taglie hanno quindi una loro dignità ed un onore che in fondo riscontriamo anche nel cattivissimo Volonté (anch'egli ha un passato sofferente ed anch'egli ha già assaporato il tema della vendetta.)
Si inizia con un sole giallo che campeggia su uno sfondo rosso. Tutto sfuma ed ecco il campo lunghissimo di una vallata americana. Un uomo sta arrivando a cavallo, fischiettando. Ma ecco che si sente il rumore di uno sparo. L'uomo cade a terra esangue, mentre il cavallo fugge. Non ha importanza chi è l'uomo stramazzato a terra, come non è importante sapere chi è che lo ha ucciso. Solo una cosa è certa: a sparargli è stato un Bounty Killer. Da qui parte la sigla: come nel precedente film i titoli di testa sono innovativi, e ad accompagnarli è la musica leggendaria di Ennio Morricone. Si è spesso affermato che sia stato il grande genio Stanley Kubrick il primo regista ad avere saputo dare la giusta collocazione alla musica all'interno del cinema sonoro, una sorta di temporalità musicale rispetto all'azione. Ma in questo caso possiamo dire senza possibilità di essere contraddetti che il vero capostipite della temporalità della musica su grande schermo (temporalità legata all'immagine e all'azione dei suoi protagonisti) sia in verità il nostro Sergio Leone. Come infatti ha sempre confermato Morricone ("ho composto la musica in base al protagonista ed al suo agire e non in base al film"). Il fatto poi che la sigla inizi al suono di un marranzano ci fa già capire quanto il fatto di trovarsi nel Far West conti poco rispetto ai personaggi e al loro modo disincantato di agire.Iniziano i titoli di testa e noi cominciamo a sognare. Il sogno del bambino (in questo caso il west dei cowboys) diventa reale. Ci era già riuscito John Ford a farci sognare ma, rispetto ai grandi western americani, si ha qui una sorta di ribaltamento: Ford aveva fatto sognare l'adulto, Leone il bambino che è in ogni adulto. Ford ci ha fatto sognare con l'eroe buono, senza macchia e senza paura, Leone ci fa identificare con il cacciatore di taglie, un eroe cinico e beffardo, che mentre nel mito oltre frontiera americano dava valore alla vita, nel western di Leone lo dà invece alla morte.

"Gli Americani hanno sempre dipinto il west in termini romantici, con cavalli che corrono al fischio del padrone. Non hanno mai trattato il West seriamente, come noi non abbiamo mai trattato l'antica Roma seriamente. Forse il più serio dibattito sull'argomento è stato fatto da Kubrick in Spartacus: gli altri film sono sempre stati favole di cartone. E' stata questa superficialità che mi ha colpito e interessato" disse un giorno, non a torto, Sergio Leone.
Differentemente dal cowboy "originale", rappresentato per esempio da John Wayne l'"Uomo senza nome" gioca sporco e non ci pensa due volte a sparare per primo, se questo soddisfa il suo personale senso della giustizia.
Clint Eastwood, l'eroe senza nome. In cerca dello stesso uomo di cui sta andando in cerca il Colonnello Douglas Mortimer. C'è da dire però che Mortimer, come verrà spiegato alla fine, non è in questo caso un Bounty Killer in cerca di una taglia: lui vuole G.M. Volonté perché vuole assaporare quel sentimento da sempre presente negli albori dell'animo umano: la vendetta. La vendetta è un piatto che si serve freddo.Il richiamo a William Shakespeare non è casuale e possiamo tranquillamente dire senza possibilità di contraddizione che già con il suo terzo film Leone può affrontare questo archetipo con la cognizione di causa di un vero genio.
"Per qualche dollaro in più" accentua la violenza già presente nel precedente "Per un pugno di dollari" ma anche l'ironia. I due protagonisti fanno fuori i cattivi senza perdere il loro savoir-faire, anzi con un umorismo che verrà poi praticamente copiato dagli eroi di tutto il cinema mondiale.

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lunedì 24 gennaio 2005

Recensione 36 - QUAI DES ORFÈVRES

Recensione 36 - quai des orfèvres




Regia di Olivier Marchal con Daniel Auteuil, Gérard Depardieu, Valeria Golino, André Dussollier, Roschdy Zem, Daniel Duval

Recensione a cura di GiorgioVillosio

Nel linguaggio specialistico dei cinefili francesi è comunemente impiegato il termine, a noi pressoché sconosciuto, di Polar. Questo definisce un genere particolare, come crasi di due parole: "poliziesco e letterario". Un genere che ha illustri tradizioni, nel paese di origine, soprattutto nel cinema in bianco e nero dell'anteguerra e del primo dopoguerra. Interprete più celebre, al di sopra di tutti, il mitico Jean Gabin; anche se tutti i più grandi "caratteristi" del cinema di oltralpe di ogni tempo ci si sono cimentati: da Belmondo a Alain Delon, da Eddie Constantin a Yves Montand. Questo tipo di cinematografia ha sempre avuto, in effetti, uno strettissimo legame con la produzione letteraria, come dimostra il caso emblematico dei gialli di Simenon, con il famoso Ispettore Maigret. Come sempre nei generi espressivi fortemente connotati, diventa quasi impossibile sfuggire a tecniche e riferimenti di maniera, con l'impiego di cliché obbligati, a tutti i livelli: di sceneggiatura, nella caratterizzazione dei personaggi, nello sviluppo del racconto e nell'impiego di effetti speciali (per spiegarci pensate ad esempio agli inseguimenti in macchina o alle scene di violenza dei film americani). Il racconto "di maniera", però, anche se divertente per gli amatori, tende sovente a difettare di originalità, proprio perché la struttura generale dell'opera tende a risultare voluta, artefatta e precostruita (come ad esempio succede col cinema western americano). Dunque diventa difficile parlarne in termini di "artisticità" o di "estetica", ma più logicamente di "gradevolezza" e di "divertimento".

La premessa per introdurre il discorso a proposito di "36 Quai d'Orfèvres", un noir Polar apparentemente alla francese, ma invece fortemente ibridato con modalità espressive di oltreoceano. Della tradizione transalpina il film mantiene la peculiarità dei personaggi, monumenti di francesità, come Gèrard Depardieu e Daniel Auteuil, decisamente convincenti nella difficile parte; ed ancora la pretesa di scavare nella psicologia dei personaggi, evidenziandone una certa umanità di antieroi e persone comuni (se pur con esiti discutibili). Mentre per il resto il film sembra sfuggire alla matrice gallica di Polar, ibridandosi in eccesso con modalità espressive all'americana, di difficile credibilità.
Surreale, ad esempio, risulta la banda dei banditi dei furgoni, che appaiono come robots meccanizzati, paradossali per il loro agire nelle scene di violenza (come negli album dell'Intrepido o nei fumetti di Diabolik). Ma anche il conflitto/rivalità tra i due ispettori, Depardieu ed Auteuil, risulta in effetti ben poco probabile, per l'eccesso di cinismo e di mancanza di scrupolo del primo: uno scontro tra "buono e cattivo", mutuato pari pari dal cinema western, dove il tutore della legge sembra appartenere ad un ordine manicheo iper-umano.

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lunedì 17 gennaio 2005

Recensione CHE PASTICCIO, BRIDGET JONES!

Recensione che pasticcio, bridget jones!




Regia di Beeban Kidron con Renée Zellweger, Colin Firth, Hugh Grant, Jim Broadbent, Gemma Jones, Jacinda Barrett, James Callis, Shirley Henderson, Lucy Joyce, Sally Phillips

Recensione a cura di peucezia

Dopo il grande successo del primo film "Il diario di Bridget Jones" ecco il sequel con le nuove avventure della simpatica "single" inglese (interpretata però da una texana) dalle forme un po' generose con lo stesso cast dell'edizione precedente e un cambio alla regia (Beeban Kidron al posto di Sharon Maguire).
Come in tutti i sequels però anche in questo film la delusione trionfa imperiosa sin dalle prime battute.

Il ritmo brioso della prima pellicola è sostituito da battute stentate, situazioni misere e tirate per i capelli mentre gli interpreti che erano riusciti tanto bene ne "Il diario.." non sembrano più tanto convinti.
Colin Firth nel ruolo dell'aristocratico Mark Darcy -neofidanzato di Bridget- è più rigido e freddo che mai (un vero peccato perché nel primo film il ruolo pareva stare a pennello al suo interprete) e Hugh Grant (Daniel Cleaver -l'ex capo di Bridget- donnaiolo e "simpatica canaglia") prosegue stancamente a recitare un ruolo già visto anche se forse è il migliore tra i tre interpreti principali; persino la Zellweger che aveva attirato le simpatie di tutte le post-trentenni in carne nonostante la faticosa dieta al contrario non riesce a bissare il successo precedente anzi in alcune (piuttosto rare) scene più coinvolgenti suscita una serpeggiante antipatia.
L'azione è lenta, la colonna sonora zeppa di brani di successo interrotti e rimontati grezzamente che si susseguono uno dietro l'altro senza un fine né un metodo e lo spettatore assiste stancamente in attesa di vedere una scena più simpatica delle altre o una battuta degna di nota invece, niente di tutto questo.
Forse il problema di fondo può essere attribuito alla regista non troppo nota che ha scelto di seguire fedelmente il romanzo di Helen Fielding senza però dare un ritmo valido, elemento necessario per far funzionare l'intreccio cinematografico.Se la prima parte può sia pur lontanamente ricordare il film precedente, nella seconda l'azione si sgretola del tutto per scadere nello scontato più ovvio nelle scene ambientate in Thailandia.
Qui l'estro della regista si spegne descrivendo il paese solo come attrattiva turistica e persino una possibile denuncia sociale (Bridget è in una gremitissima cella con una pesante accusa sulle spalle) si perde nel nulla con le detenute che si comportano come allegre collegiali in vacanza e Bridget che sfoga il suo "impegno sociale" regalando cosmetici e reggiseni.

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venerdì 14 gennaio 2005

Recensione CONFIDENZE TROPPO INTIME

Recensione confidenze troppo intime




Regia di Patrice Leconte con Fabrice Luchini, Sandrine Bonnaire, Michel Duchaussoy, Anne Brochet, Gilbert Melki

Recensione a cura di peucezia

Ritorna Patrice Leconte già regista di successo con "Il marito della parrucchiera", "Tandem" e "L'uomo del treno" ma questa volta non sceglie più come suo attore principale il grande Jean Rochefort.

Raccontare la trama di un film di Leconte è impresa ardua e facile al tempo stesso, la base è quasi sempre la stessa: un incontro tra due persone assai diverse che si sviluppa in modo tale da far cambiare le esistenze dei due soprattutto spiritualmente.
Stessa cosa avviene in "Confidenze troppo intime": qui l'incontro è tra una giovane donna (Sandrine Bonnaire) e un fiscalista (Fabrice Luchini, ineffabile maschera purtroppo poco conosciuto da noi in Italia). Lei è Anna che, diretta ad un appuntamento con uno psicanalista, per errore entra nello studio di William, il fiscalista, lui, dapprima per gioco poi attratto dalla vita misteriosa e intrigante di lei, finisce con l'ascoltare le intime confidenze della donna.

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giovedì 13 gennaio 2005

Recensione MATRIMONI E PREGIUDIZI

Recensione matrimoni e pregiudizi




Regia di Gurinder Chadha con Aishwarya Rai, Martin Henderson, Daniel Gillies, Naveen Andrews, Indira Varma, Nadira Babbar, Anupam Kher, Meghna Kothari

Recensione a cura di peucezia

Liberamente ispirato al romanzo di Jane Austen "Orgoglio e pregiudizio" (Pride and Prejudice), infatti il titolo originale del film è "Bride and Prejudice", il film parla delle manovre matrimoniali di una madre di famiglia indiana che cerca di accasare quattro figlie in età da marito.

La regia di questa pellicola è di Gurinder Chadha, reduce dai fasti di "Sognando Beckham" che questa volta inizia lo spettatore allo stile "Bollywood".
Gli attori principali sono poco conosciuti per noi italiani: Aishwa Rya Rai, attrice di successo in India e candidata a miss Mondo nel 1994 e il neozelandese Martin Henderson, già visto in "The Ring" e "Torque" nel ruolo di Darcy (suo predecessore illustre sir Lawrence Olivier in una pellicola dei primi anni Quaranta).
L'intento della regista è sicuramente lodevole: far rivivere un classico della letteratura inglese in chiave moderna e trasportare l'azione in India perché l'India borghese di oggi è assai vicina per mentalità all'Inghilterra contemporanea a Jane Austen, peccato però che le buone intenzioni si perdano purtroppo per strada.

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mercoledì 12 gennaio 2005

Recensione FERRO3 - LA CASA VUOTA

Recensione ferro3 - la casa vuota




Regia di Kim Ki-duk con Seoung-yeon Lee, Hee Jae

Recensione a cura di Susanna!

La frase finale del film, che recita «è difficile dire se il mondo in cui viviamo è sogno o realtà», è studiata apposta per lasciare nello spettatore molti dubbi sull'interpretazione dell'opera.

La storia - quasi del tutto priva di dialoghi, del tutto senza parole fra i protagonisti, salvo un significativo «ti amo» pronunciato da lei – si svolge per buona parte all'interno di case che il ragazzo da solo prima, in compagnia di lei poi, viola senza nessun fine illecito se non quello di trovare rifugio per qualche ora, il tempo di rifocillarsi e dormire, ricambiando poi per l'ospitalità ricevuta facendo il bucato e riparando gli elettrodomestici rotti.

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martedì 11 gennaio 2005

Recensione MELINDA E MELINDA

Recensione melinda e melinda




Regia di Woody Allen con Chiwetel Ejiofor, Will Ferrell, Jonny Lee Miller, Radha Mitchell, Amanda Peet, Gene Saks, Chloë Sevigny, Wallace Shawn

Recensione a cura di GiorgioVillosio

Non stupiamoci se, al 38° appuntamento registico, anche la vena di un grande come Woody Allen denoti una certa stanchezza. E non tanto per gli aspetti formali, altrettanto validi ma pur sempre ineccepibili ed eleganti, quanto per la sostanza stessa dei contenuti. Nel film, infatti, continua a prorompere con prepotenza l'ego strabordante del regista, quasi non esistesse mondo al di fuori di lui; e tutti i personaggi, per quanto scintillanti, non risultano altro che la visione speculare della sua personalità. Intendiamoci, è naturale che un'opera parli sostanzialmente della vita psico-intellettual-emotiva dell'autore! Ma, in genere, il lavoro diventa grande quando il tasso di soggettività si desume a livello subliminale, quasi non esistesse, per la capacità di volare più alto e riconoscersi in un universo allargato. Conscio di questo, forse, Woody Allen cerca di ovviare nel film in questione con due stratagemmi: affidando la parte tradizionalmente da lui interpretata ad un altro attore (Will Ferrel), e riflettendo ad alta voce proprio sulle problematiche sopraccitate. Cioè su quanto influisca nello sviluppo di un racconto la soggettività dell'autore; di qui la genesi di "Melinda e Melinda", dove due scrittori, seduti al tavolo di un bar, discutono su come costruire il personaggio di un copione in comune: se comico o drammatico. L'idea, fin troppo cerebrale, da comédie savante, è molto curiosa, e va letta in chiave metaforica; anche perché la personalità degli individui, e la vita in genere, sono in effetti la risultante di una serie di componenti di segno opposto, bontà e cattiveria, bellezza e bruttezza, carnalità e spiritualità, e, per finire, risi,sorrisi e pianti!

Da cui le due facce di Melinda, che i due autori potrebbero rendere, ad libitum, allegra o triste, felice o infelice, comica o drammatica; quasi disponessero, per un prodigio del caso, delle facoltà "fatali" degli dei greci, cui toccava il diritto di concedere o meno la loro benevolenza ai poveri mortali. Vista in tal senso l'idea di Woody Allen assume ben altra nobiltà di quella apparente, suonando come riflessione filosofica più profonda ed elevata di quanto a lui solito. Forse che, invecchiando, il suo genio ebreo voglia librarsi maggiormente in alte sfere, distaccandosi dalla prospettiva minimalista della nevrosi quotidiana dei piccoli individui; ed è quello che, magari, ci aspetteremmo tutti, dopo 38 film, da uno dei registi universalmente più amati ed apprezzati.

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lunedì 10 gennaio 2005

Recensione CLOSER

Recensione closer




Regia di Mike Nichols con Julia Roberts, Jude Law, Natalie Portman, Clive Owen, Nick Hobbs, Colin Stinton

Recensione a cura di Susanna!

Londra, un incidente, un incontro casuale, fortuito, destinato a trasformarsi in un amore travolgente e dolorosissimo. Parallelamente la storia di un'altra coppia, nata dalle suggestioni della prima, anch'essa destinata a perigliosi travagli. Il tutto condito da una buona dose di cinismo, dai calcoli egoistici di amanti troppo protesi a far valere i propri sentimenti per comprendere quelli altrui.

Amara, intelligentissima riflessione sull'innamoramento, sulla sua incapacità di trasformarsi in amore vero, fermo sull'attimo inebriante del primo incontro, "Closer" è la trasposizione filmica di una pièce teatrale di grande successo, tradotta in 30 lingue e messa in scena in oltre 100 città. Il regista Mike Nichols ha compiuto il miracolo di trasformare in uno straordinario film un testo di cui ha mantenuto i dialoghi curatissimi, interpretati in maniera perfetta da Julia Roberts, Jude Law, Natalie Portman e Clive Owen.

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martedì 4 gennaio 2005

Recensione IL MISTERO DEI TEMPLARI

Recensione il mistero dei templari




Regia di Jon Turteltaub con Nicolas Cage, Justin Bartha, Sean Bean, Diane Kruger, Harvey Keitel, Christopher Plummer, David Dayan Fisher, Oleg Taktarov, Mark Pellegrino, Annie Parisse

Recensione a cura di stefano76 (voto: 5,0)

Benjamin Franklin Gates (Nicholas Cage) è l'ultimo discendente di una famiglia che per anni è andata alla ricerca, inutilmente, dell'inestimabile Tesoro di Alessandria. Trovato ai tempi delle crociate da alcuni soldati, autonominatisi Cavalieri dei Templari, e da loro custodito per secoli, l'ubicazione del tesoro è stata tenuta nascosta per anni da una società segreta denominata Massoneria, che ha disseminato il globo di criptici indizi per poterlo raggiungere.
Indizio dopo indizio, Gates trova, con un gruppo di amici, una nave tra i ghiacci dell'Antartico, che dovrebbe finalmente contenere il preziosissimo carico, ma si imbatte nell'ennesimo indizio che, una volta decifrato, rivela l'incredibile: la mappa per raggiungere il Tesoro di Alessandria è incisa sul retro del documento storico più importante d'America, la Dichiarazione di Indipendenza! Tradito dai suoi compagni, che intendono rubare il prezioso documento e poi distruggerlo, Gates, insieme all'unico dei compagni rimastogli fedele e a una bellissima esperta di documenti antichi (Diane Kruger), dovrà anticipare ogni mossa del suo nuovo nemico e riuscire a mettere le mani sul tesoro prima di lui.

Uscito, con un tempismo perfetto, nel periodo della mania da "Codice da Vinci", "Il mistero dei Templari" rispolvera il classico tema cinematografico e letterario della caccia al tesoro alla Indiana Jones, proponendoci un intrepido Nicholas Cage al posto dell'allora atletico Harrison Ford. Il film risulta francamente un mero prodotto concepito a tavolino per raggranellare quanti più soldi fosse possibile, e lo dimostra il fatto che sfrutta una serie di situazioni e di stereotipi talmente banali e già visti, che durante la visione si è in grado di anticipare ogni mossa del nostro protagonista e, viceversa, dell'antagonista.
I deejavù che si hanno durante la visione sono di notevole intensità: il film principale da cui trae maggiormente spunto è naturalmente il primo "Indiana Jones e il predatori dell'Arca Perduta", da cui eredita addirittura l'intera struttura e disposizione dei personaggi (avventuroso protagonista, amico sfigato dell'avventuroso protagonista, bella compagna dapprima ostile e poi innamorata dell'avventuroso protagonista, antagonista che ruba sempre gli oggetti importanti all'avventuroso protagonista che li ha faticosamente recuperati). Ma non solo: se a questo ci aggiungiamo un pizzico di "The Score" e "Mission Impossible" o, comunque, del classico tema del colpo impossibile, uno spicchio di "Allan Quatermain e le miniere di Re Salomone" e una spruzzatina di "Codice da Vinci" con annessi Templari e Massoni (a tal proposito, patetica la traduzione del titolo da parte della distribuzione italiana, che vuole far credere, dopo il successo del Codice da Vinci in Italia, che l'intero film sia incentrato sui Templari, quando non è affatto così), otteremo quindi il cocktail esplosivo, ma prevedibile, di cui è composta questa pellicola.

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