lunedì 29 dicembre 2014

Recensione THE IMITATION GAME - L'ENIGMA DI UN GENIO

Recensione the imitation game - l'enigma di un genio




Regia di Morten Tyldum con Benedict Cumberbatch, Keira Knightley, Mark Strong, Rory Kinnear, Charles Dance, Allen Leech, Matthew Beard, Matthew Goode, Tuppence Middleton, Steven Waddington, Hayley Joanne Bacon, Tom Goodman-Hill, Hannah Flynn, Matthew Beard, Ancuta Breaban, James Northcote, Victoria Wicks, Bartosz Wandrykow, Alex Lawther, Leigh Dent, Grace Calder, Lese Asquith-Coe, William Bowden, Jack Bannon, Luke Hope, Alexander Cooper, Joseph Oliveira, Joseph Oliveira, Guna Gultniece, Lauren Beacham, Nicola-Jayne Wells

Recensione a cura di JackR

Il professor Alan Turing, genio matematico esperto di crittografia, è arruolato dall'esercito britannico per far parte di una task force che deve trovare la chiave del funzionamento di Enigma, il codice crittografico impiegato dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. Il codice cambia tutti i giorni e l'elevato numero di combinazioni rende praticamente impossibile decifrarlo prima che esso cambi e invalidi tutto il lavoro fatto. L'approccio di Turing è radicale: per battere una macchina occorre una macchina, che sia programmabile e in grado di scorrere le combinazioni a velocità impossibile per il cervello umano. Il progetto visionario di Turing incontra resistenze enormi, e la sua difficoltà a interagire con le altre persone e con i superiori complica ulteriormente la vita al geniale matematico, che nasconde un drammatico segreto.

Seguendo pedissequamente il format del biopic all'americana, la vita e le opere di Alan Turing vengono rielaborate, condensate e stravolte a fini drammatici al punto che della verità storica (per tacer di quella biografica) resta davvero poco. L'artificio del cinema in fondo è questo: trasmettere autenticità attraverso la costruzione di una finzione, ma in "The Imitation Game" si va oltre, arrivando a distorcere persino i fatti elencati (sempre come si conviene) in sovrimpressione a fine film, quando si afferma che il lavoro di Turing accorciò la durata del conflitto mondiale di circa due anni, con buona pace del contributo di tutte le altre centinaia di persone che lavoravano sulla crittografia in quel periodo.

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martedì 23 dicembre 2014

Recensione DUE GIORNI, UNA NOTTE

Recensione due giorni, una notte




Regia di Luc Dardenne, Jean-Pierre Dardenne con Marion Cotillard, Fabrizio Rongione, Pili Groyne, Simon Caudry, Catherine Salée

Recensione a cura di Stefano Santoli (voto: 8,0)

Il cinema dei fratelli Dardenne si è sempre contraddistinto per l'intima sostanza etica racchiusa sotto una scorza di impegno civile. Il loro tema fondamentale, centrale sin dai tempi del bellissimo esordio del 1996 "La promessa", è il tema della Scelta.
La Scelta che implica responsabilità, impegno morale. Se i contesti in cui i registi ambientano i loro film sono spesso stati di degrado sociale e la società verso la quale hanno sempre puntato l'obiettivo è quella dei ceti più umili, il loro interesse non sta nel denunciare le iniquità sociali, i soprusi dei più forti, che pure ci sono sempre, nel loro cinema. Ma spesso i più forti rimangono ai margini (come anche in questo loro ultimo film), decentrati rispetto al cuore del problema, la Scelta.

Ci si imbatte nella scelta morale qualunque sia la condizione economico-sociale in cui ci troviamo. E se la sorte ci ha già vessato, non ci si può sottrarre per questo di certo all'obbligo di scegliere. In "Due giorni, una notte", di fronte alla Scelta si trovano tutti i colleghi di Sandra. E' quasi un sondaggio, il film, condotto attraverso interviste che implicano una scelta diretta, concreta, immediata.
Al posto di ciascuno dei colleghi ci potremmo essere noi. E, a ogni tappa di questo calvario, ci chiediamo come reagiremmo noi; se avremmo il coraggio di rinunciare al bonus in ciascuna delle diverse condizioni umane che ci vengono presentate, in cui quel denaro è più o meno indispensabile.
In apparenza, siamo chiamati a identificarci con Sandra, ma nel profondo l'identificazione che i fratelli ci chiedono è con le sue controparti. Se avessimo il coraggio di accettare la sfida che ci viene lanciata, cosa ci diremmo, messi di fronte allo specchio? L'interrogativo è lanciato, come un seme, a germinare nel cuore di ognuno. Sta a noi raccoglierlo o meno.

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lunedì 22 dicembre 2014

Recensione ADDIO AL LINGUAGGIO

Recensione addio al linguaggio




Regia di Jean-Luc Godard con Kamel Abdeli, Héloise Godet, Zoé Bruneau, Richard Chevallier, Jessica Erickson

Recensione a cura di Stefano Santoli (voto: 9,0)

Jean-Luc Godard, maestro della Nouvelle Vague, impertinente e impenitente genio della sperimentazione visiva e intellettuale, sforna a 84 anni un provocatorio "Addio al linguaggio" che, anziché opera di chiusura e addio come da titolo, è film che apre e scardina. A cominciare da un uso del 3D che, se non potrà certo essere preso a modello e imitato alla lettera, dimostra però quante possano essere le possibilità celate e ancora da inventare (in-venio, rinvenire) di questa tecnica e dunque, per esteso, del linguaggio cinematografico tutto.

"Addio al linguaggio" (che, sia chiaro, non ha una trama: come tutta o quasi l'opera o quasi di Godard dai tardi anni '60 in poi, è antinarrativo per statuto) è film tutto incentrato sui temi del doppio e della separazione.
La pellicola ha un'idea centrale molto forte che potremmo forse definire "dialettica priva di sintesi", nel senso di tramonto delle possibilità comunicative. Genialmente, Godard si avvale della tridimensionalità per spiegare il concetto (ribadendolo continuamente attraverso gli ostacoli che pone alla visione).
Tutto è doppio. Anzitutto lo sguardo. Che è la sintesi della diversa prospettiva di 2 occhi. Da lì nasce la tridimensionalità. E, dunque, la profondità. Ecco: la sintesi. Godard vuole affermare che la sintesi è divenuta difficoltosa, se non impossibile: perciò scinde tutto, lasciando i suoi doppi separati, privi di sintesi.
Tutto è scisso - a partire dallo sguardo - in "Addio al linguaggio". Il film è costellato di doppi; ogni doppio è un contrasto, una dicotomia, una sovrapposizione e una scissione. L'eventuale ricongiunzione è affidata a un cane (al cui latrato si sovrappone, prima dei titoli di coda, il vagito di un bambino: ennesima sovrapposizione/scissione).

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giovedì 18 dicembre 2014

Recensione L'AMORE BUGIARDO - GONE GIRL

Recensione l'amore bugiardo - gone girl




Regia di David Fincher con Ben Affleck, Rosamund Pike, Neil Patrick Harris, Kim Dickens, Emily Ratajkowski, Tyler Perry, Patrick Fugit, Carrie Coon, David Clennon

Recensione a cura di JackR

Nel giorno del suo quinto anniversario di matrimonio, Nick Dunne (Ben Affleck) scopre che sua moglie Amy (Rosamund Pike) è scomparsa e in casa ci sono segni di effrazione e di violenza. Mentre la giustizia fa il suo corso, il processo mediatico emette la propria sentenza, condannando Nick, che non riesce a dimostrare la propria estraneità ai fatti. Non tutto è come sembra, ma il confine tra verità e apparenza è molto labile...

Qualcosa non torna. Lo suggeriscono i racconti dei protagonisti, troppo discordanti, lo suggerisce la nostra esperienza con i thriller, lo suggerisce la stupefacente colonna sonora di Trent Reznor, che distrae, turba e aliena lo spettatore, portandolo ad ascoltare gli effetti sonori dietro la melodia - a cercare la verità dietro le immagini e le parole. Lo suggerisce l'intenso inizio, che mostra una deserta provincia americana che ha visto tempi migliori e si avvia verso una lenta e inarrestabile decadenza. "L'Amore Bugiardo", (terribile titolo italiano di "Gone Girl") ultima fatica di David Fincher, è un cattivo e (viene da credere) divertito affondo a tutto ciò che connota la nostra epoca fatta di immagine e promozione di sé. Complemento ideale di "The Social Network", Fincher ci mostra l'altro lato della medaglia dell'epoca social: siamo quello che proiettiamo all'esterno, ma il povero Zuckerberg non è l'unico colpevole. La kafkiana vicenda di Nick Dunne, sospettato numero uno della scomparsa della moglie Amy è un incastro poco credibile, ma sarebbe superficiale cercare nell'intreccio il valore del film. Quando Fincher decide di rivelare cosa è realmente successo ad Amy non lo fa certo per rispettare i canoni dello storytelling di genere: non siamo al gran finale, ma circa a metà film. Destrutturando lo schema del racconto giallo, "L'Amore Bugiardo" sfugge alle semplici classificazioni da videoteca: c'è un cinismo divertito da black comedy, c'è un solido intrigo, c'è una critica spietata ai mass media (ma soprattutto alle masse), c'è il racconto di un amore iniziato bene e finito in un matrimonio che non sopravvive ai cambiamenti: la coppia ideale di scrittori di New York diventa una coppia di estranei disoccupati del MidWest. Tutto è collegato: il giallo della scomparsa è il fil rouge che consente a Fincher di analizzare tanti elementi senza dimenticare la visione d'insieme. Non siamo impermeabili alle condizioni esterne: crediamo di manipolare l'ambiente scegliendo quali elementi di noi condividere, ma "L'Amore Bugiardo" ci mostra come sia l'ambiente stesso a scegliere cosa far emergere, a seconda delle circostanze.

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mercoledì 17 dicembre 2014

Recensione YVES SAINT LAURENT

Recensione yves saint laurent




Regia di Jalil Lespert con Pierre Niney, Guillaume Gallienne, Charlotte Lebon, Laura Smet, Nikolai Kinski, Marie de Villepin, Astrid Whettnall, Alexandre Steiger

Recensione a cura di Giordano Biagio (voto: 8,0)

Parigi, 1957. Yves Saint Laurent ha 21 anni, è uno stilista di moda che ha già dimostrato alcune sue qualità artistiche ricevendo apprezzamenti da persone competenti e molto influenti; un giorno viene chiamato con sua grande gioia e sorpresa a prendere il posto del defunto noto stilista Christian Dior.
Lo attendono elaborazioni di progetti sulla moda in cui è in assoluto l'ideatore e uno dei protagonisti dello stesso marketing. Il successo pieno non tarda ad arrivare, già l'uscita della prima serie di modelli lo pone all'attenzione della grande moda parigina che rappresenta un'importante trampolino di lancio per affermarsi in tutto il mondo occidentale. Il notevole interesse suscitato lo incoraggia a proseguire sul binario innovativo delle sue rivoluzionarie scoperte stilistiche proposte al pubblico con aggressività seduttiva.

Le opere di Yves Saint Laurent interessano soprattutto l'abbigliamento femminile, prospettano una sua combinazione in forme stilistiche nuove che rompono con una certa lunga tradizione che concepiva il modo di vestire femminile separato dalla strada e immerso esteticamente in un mondo, che seppur vario e ricco di invenzioni, rimaneva completamente chiuso a sé.
Yves Saint Laurent immette nella moda più storicamente femminilizzata, lineamenti estetici presi dal modo di vestire maschile, oppure da etnie diverse, o dalla strada con tutti i suoi riverberi stilistici emessi da classi molto diverse, anche povere. Inoltre Yves Saint Laurent omaggia grandi artisti come Mondrian e Picasso, prendendo spunto dalle loro opere per disegnare modelli cromaticamente e formalmente di grande interesse compositivo che ben si abbinano con le altre forme estetiche presenti nella modernità.

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martedì 16 dicembre 2014

Recensione LO HOBBIT - LA BATTAGLIA DELLE CINQUE ARMATE

Recensione lo hobbit - la battaglia delle cinque armate




Regia di Peter Jackson con Martin Freeman, Richard Armitage, Aidan Turner, Hugo Weaving, Stephen Fry, Billy Connolly, Orlando Bloom, Evangeline Lilly, Benedict Cumberbatch, Robert Kazinsky, Graham McTavish, Stephen Hunter, Mark Hadlow, Peter Hambleton, Sylvester McCoy, James Nesbit

Recensione a cura di JackR

I nani di Thorin (Richard Armitage) hanno risvegliato Smaug (Benedict Cumberbatch), il drago della Montagna Solitaria, che è uscito dal suo nascondiglio e si dirige minaccioso verso Pontelagolungo, dove si trovano Bard, Tauriel (Evangeline Lilly) e alcuni dei nani rimasti indietro. A Dol Guldur, Gandalf (Ian McKellen) è in fin di vita, prigioniero del Negromante (sempre Benedict Cumberbatch) e degli orchi di Azog. Bilbo Baggins (Martin Freeman), rimasto con Thorin nella Montagna, assiste alla progressiva perdita di lucidità del re dei nani che, ossessionato dall'Arkengemma, non mantiene fede alla parola data agli uomini, rischiando di scatenare una guerra. Al piccolo hobbit resta una sola possibilità di evitare la catastrofe, ma forze oscure stanno muovendo verso Erebor e la guerra potrebbe essere comunque inevitabile...

"There and Back Again": il sottotitolo originale de "Lo Hobbit" di J.R.R. Tolkien doveva essere il titolo del terzo capitolo dell'adattamento cinematografico sul viaggio di Bilbo e i nani. Più opportunamente, è stato invece scelto "La Battaglia delle cinque armate": gran parte dei 144 minuti della durata del film è infatti occupata dalla grandiosa battaglia alle porte di Erebor tra nani, uomini, elfi, orchi e animali. Nel libro, la Battaglia delle Cinque Armate occupa lo spazio di pochissime pagine, e - poiché il punto di vista è sempre quello di Bilbo - alcuni eventi sono solo raccontati a posteriori al piccolo hobbit, che per gran parte della battaglia è privo di sensi. Il lavoro di adattamento di Peter Jackson è pertanto più evidente in questo capitolo che forse negli altri cinque messi insieme, ma è coerente con la sua visione dell'universo tolkieniano e soprattutto con la scelta di rendere Lo Hobbit un prequel del "Signore Degli Anelli" coerente con esso anche stilisticamente e tematicamente, molto più di quanto non lo sia l'opera originale. Le scelte operate in questo senso nell'arco della trilogia hanno portato ad alcune forzature e un po' troppe ripetizioni e rivisitazioni di scene e concetti già visti dieci anni fa (la "bromance" di Gimli e Legolas diventa vera e propria "romance" con Fili e Tauriel, solo per citare il rimando più evidente e il meno riuscito). Altre aggiunte jacksoniane sono il personaggio di Azog e la sottotrama del Negromante, che portano spesso il film lontano dal personaggio che dà il nome all'opera. Il risultato è un affresco corale, una storia epica che trova degna conclusione in questo ultimo capitolo, nel quale ogni sottotrama giunge a compimento.

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lunedì 15 dicembre 2014

Recensione SCEMO E PIU' SCEMO 2

Recensione scemo e piu' scemo 2




Regia di Bobby Farrelly, Peter Farrelly con Jim Carrey, Laurie Holden, Angela Kerecz, Kathleen Turner, Jeff Daniels

Recensione a cura di JackR

Da vent'anni Harry (Jeff Daniels) fa visita ogni settimana a Lloyd (Jim Carrey) nella casa di cura in cui è ricoverato dopo esser precipitato in uno stato catatonico a causa della delusione d'amore patita alla fine del primo film. E' solo l'ennesimo scherzo assurdo di cattivo gusto: quando Harry rivela a Lloyd che non potrà più venire a trovarlo, per un grave problema di salute, Lloyd non può fare a meno di dire la verità e tornare a casa con l'amico di sempre. I due partono alla ricerca di una soluzione al problema di Harry e sulla loro strada troveranno vecchie amanti, figlie che non sapevano di avere, e criminali senza scrupoli...

Nel 1994 "Scemo e più Scemo" dei fratelli Farrelly consacrò Jim Carrey al termine di un anno fenomenale che lo aveva visto già protagonista con "The Mask" e "Ace Ventura". Un nuovo tipo di comicità basata sull'assurdo e sulla capacità di spostare progressivamente l'asticella del disgustoso s'imponeva nel vuoto che stavano lasciando gli astri della commedia anni ottanta, tutti in parabola discendente (Woody Allen era in pieno scandalo Soon-Yi, Eddie Murphy stava esaurendo il tocco magico) o proiettati verso nuovi percorsi artistici (Bill Murray). L'effetto dirompente del primo Scemo e più Scemo è superiore alle qualità obiettive del film, ma è innegabile. Da "American Pie" a "Una Notte da Leoni", tutta la comicità americana degli ultimi vent'anni discende in qualche modo dalla formula proposta dai fratelli Farrelly. Dopo uno sfortunato prequel senza Carrey e Daniels e una serie infinita di epigoni dalle alterne fortune, il ritorno di Lloyd e Harry sembrava, soprattutto, fuori tempo massimo. Rivedere Jim Carrey e Jeff Daniels, invecchiati e pluripremiati, con lo stesso look di vent'anni fa, mettersi una mano nel sedere per la gag del "Culo Libre" farebbe quasi tenerezza... se non facesse così tanto ridere. Il segreto di "Scemo e più Scemo 2" è infatti quello di non avere alcun segreto. Il candore dei due protagonisti è completamente irreale e irresistibile. Non si può non ridere, anche se più la trama prende tempo alle gag più il film arranca. C'è una manciata di gag divertentissime ed altre nobilitate solo dalla bravura di Carrey e Daniels, che rientrano alla grande nei panni dei due idioti, invecchiati solo fisicamente, ma stupidi esattamente come vent'anni fa.

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venerdì 12 dicembre 2014

Recensione MOMMY

Recensione mommy




Regia di Xavier Dolan con Anne Dorval, Antoine-Olivier Pilon, Suzanne Clément, Patrick Huard

Recensione a cura di Stefano Santoli (voto: 8,0)

"Mommy" è il quinto film dell'enfant prodige del cinema canadese Xavier Dolan (autore a tutto tondo, che i film se li scrive e spesso - non in questo caso - li interpreta).  "Mommy" - prima opera di Dolan a esser distribuita in Italia - si è aggiudicato il Gran Prix della giuria all'ultimo festival di Cannes, ex aequo con "Adieu au language", l'ultima, sperimentale provocazione (in 3D) di un autore che giovane lo è rimasto dentro: l'ottantaquattrenne Jean Luc Godard. Ma se Godard, che non ha mai smesso di sperimentare, lo fa sorvegliando le sue creazioni con il piglio rigoroso dell'intellettuale, la peculiarità di Dolan sta nel suo irrefrenabile temperamento emotivo. Una foga priva di freni e di pudore, avida di vita. Il cinema di Dolan è al contempo ingenuo e geniale, specialmente nell'uso delle musiche, in un'accondiscendenza alla cultura visiva delle clip video che invece di apparire kitsch risulta squisitamente genuina.

Con "Mommy", Dolan, classe 1989, raccontando del tormentato rapporto con la propria madre Diane da parte di un quindicenne affetto da deficit di attenzione, Steve, è tornato sulla materia del suo primo film - scritto a 16 anni e diretto a 20 - "J'ai tué ma mère" (2009). Fu il suo esordio alla regia, e lì vi recitava anche, nelle vesti del protagonista. Nocciolo del film, scopertamente autobiografico, era il rapporto edipico tra un sedicenne e sua madre. Se nel film d'esordio Dolan decise appunto d'interpretare il ruolo del figlio, adesso opta per un distacco maggiore con il personaggio, lasciato alla straordinaria verve di Antoine Olivier Pilon. Il ruolo della madre, invece, a sottolineare senza remore la linea di continuità fra i due film, è affidato ad Anne Dorval, la medesima attrice che fu la madre in "J'ai tué ma mère".

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mercoledì 10 dicembre 2014

Recensione GRACE DI MONACO

Recensione grace di monaco




Regia di Olivier Dahan con Nicole Kidman, Tim Roth, Paz Vega, Frank Langella, Roger Ashton-Griffiths, Parker Posey, Milo Ventimiglia, Derek Jacobi

Recensione a cura di Giordano Biagio

A metà degli anni '50 il principe Ranieri III, sovrano del Principato di Monaco, vede crescere la sua preoccupazione per le cattive condizioni economiche e sociali del proprio paese che sembra non avere più un futuro; il famoso Principato con 10.000 abitanti residenti, quasi nulla produce e quasi nulla esporta, vive di commercio turistico, rendite immobiliari e finanziarie, e spende molto in servizi, ha, gestito dalle banche, un buon mercato finanziario basato su prestiti e compra vendita di titoli di borsa che sono frutto della funzione di paradiso fiscale svolta di fatto dal Principato.
L'orfanotrofio è privo di manutenzione, praticamente al collasso, le scuole e l'ospedale sono privi di fondi, i servizi pubblici carenti.
Inoltre il governo monegasco è periodicamente pressato dal Presidente francese Charles De Gaulle, che insiste nel chiedere una soppressione della libertà fiscale di cui godono i capitali provenienti dalla Francia.

Il Principe decide quindi di fare qualche riforma in grado di rilanciare un'economia diversa; l'idea principale è di promuovere nel mondo un'immagine del suo piccolo stato del tutto nuova: non più smodatamente gioiosa e sognante, ma laboriosa e densa di raffinatezze culturali, non solo divertente e ricca di comodità per pochi, ma impegnata a risolvere al proprio interno problemi sociali di giustizia e solidarietà, il tutto favorendo, attraverso una maggiore penetrazione dei media tra la popolazione locale e internazionale, un'identificazione con la vita e la morale della famiglia regale, quest'ultima basata sull'unità, l'amore dovuto, e su valori tradizionali cristiani come l'impegno verso il prossimo e la sacralità del matrimonio. Si vuole dare della famiglia una immagine più bella che rimanda a virtù e responsabilità pienamente valorizzati dal Principato e non disgiunti da forme comportamentali eleganti. Inoltre il Principato vuol proporre a tutto il paese scelte religiose libere e laiche mantenendo il potere statale al di sopra di ogni credo e ideologia integraliste.

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lunedì 1 dicembre 2014

Recensione MELBOURNE

Recensione melbourne




Regia di Nima Javidi con Payman Maadi, Negar Javaherian, Mani Haghighi, Shirin Yazdanbakhsh, Elham Korda, Roshanak Gerami

Recensione a cura di JackR

"L'Australia non è meglio di qui, Butch"
Robert Redford, "Butch Cassidy", 1969

Amr e Sarah stanno per lasciare l'Iran, destinazione Melbourne. I preparativi fervono, ci sono i mobili da consegnare al rigattiere, gli amici da salutare, le chiavi da restituire al padrone di casa.
L'agitazione e l'entusiasmo per un cambiamento così importante si infrangono nella terribile scoperta che la piccola figlia del vicino, che Sarah aveva accettato di tenere in casa per qualche ora, giace senza vita nel letto in cui era stata adagiata. Mentre l'orario della partenza si avvicina, Amr e Sarah cercano di capire come affrontare la tragedia che rischia di rovinare la loro vita...

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