Recensione addio al linguaggio
Recensione a cura di Stefano Santoli (voto: 9,0)
Jean-Luc Godard, maestro della Nouvelle Vague, impertinente e impenitente genio della sperimentazione visiva e intellettuale, sforna a 84 anni un provocatorio "Addio al linguaggio" che, anziché opera di chiusura e addio come da titolo, è film che apre e scardina. A cominciare da un uso del 3D che, se non potrà certo essere preso a modello e imitato alla lettera, dimostra però quante possano essere le possibilità celate e ancora da inventare (in-venio, rinvenire) di questa tecnica e dunque, per esteso, del linguaggio cinematografico tutto.
"Addio al linguaggio" (che, sia chiaro, non ha una trama: come tutta o quasi l'opera o quasi di Godard dai tardi anni '60 in poi, è antinarrativo per statuto) è film tutto incentrato sui temi del doppio e della separazione.
La pellicola ha un'idea centrale molto forte che potremmo forse definire "dialettica priva di sintesi", nel senso di tramonto delle possibilità comunicative. Genialmente, Godard si avvale della tridimensionalità per spiegare il concetto (ribadendolo continuamente attraverso gli ostacoli che pone alla visione).
Tutto è doppio. Anzitutto lo sguardo. Che è la sintesi della diversa prospettiva di 2 occhi. Da lì nasce la tridimensionalità. E, dunque, la profondità. Ecco: la sintesi. Godard vuole affermare che la sintesi è divenuta difficoltosa, se non impossibile: perciò scinde tutto, lasciando i suoi doppi separati, privi di sintesi.
Tutto è scisso - a partire dallo sguardo - in "Addio al linguaggio". Il film è costellato di doppi; ogni doppio è un contrasto, una dicotomia, una sovrapposizione e una scissione. L'eventuale ricongiunzione è affidata a un cane (al cui latrato si sovrappone, prima dei titoli di coda, il vagito di un bambino: ennesima sovrapposizione/scissione).
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