venerdì 30 luglio 2004

Recensione BUONGIORNO, NOTTE

Recensione buongiorno, notte




Regia di Marco Bellocchio con Maya Sansa, Luigi Lo Cascio, Pier Giorgio Bellocchio, Giovanni Calcagno, Paolo Briguglia

Recensione a cura di fromlucca

Film molto interessante, visto anche con un ottica didattica (magari integrata prima da qualche lettura sul fatto narrato) e di istantanea su un cruciale periodo storico italiano: il rapimento di Aldo Moro.

Il racconto ha un punto di vista originale, decisamente al femminile, cioè tramite gli occhi di Chiara, una giovane brigatista.
Ma non è certo solo un film didattico ed è molta la simbologia, che come spettatori possiamo intravedere: un film che accenna alla pazzia, sugli ideali che spingono fuori dal proprio seminato e rinchiudendo in prigioni dell'anima, invece che liberare.
Ricorre spesso la canzone dei Pink Floyd "Shine on you, crazy diamond".(Crazy=Pazzo)

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giovedì 29 luglio 2004

Recensione GROSSO GUAIO A CHINATOWN

Recensione grosso guaio a chinatown




Regia di John Carpenter con Kurt Russell, Kim Cattrall, Dennis Dun, James Hong, Victor Wong, Kate Burton, Donald Li, Carter Wong, Peter Kwong, James Pax

Recensione a cura di cash (voto: 10,0)

Carpenter vive nell'apparente contraddizione di essere sia regista di culto, sia regista dalla nota fama, rispettato e cullato dalla non trascurabile massa di fan che attendono con ansia ogni suo film. E raramente si resta delusi; Carpenter è un cantastorie, ed evidentemente sa bene quale sia il suo più spiccato talento: non tanto quello di essere regista dalle scelte impeccabili o dalle sequenze memorabili, bensì quello di avere in mente una buona storia e di saperla raccontare al meglio. Benché il suo nome sia facilmente accostabile al genere horror-thriller (suo il capostipite degli hack & slash, ovvero "Halloween"; e suo uno dei più bei horror di tutti i tempi, cioè "Il signore del male"), ogni tanto Carpenter si è dilettato ad esplorare generi ben diversi, come la fantascienza (in "Dark Star") e la commedia. E qui arriviamo al film oggetto di questa recensione, "Grosso guaio a chinatown".

Una commedia, appunto, ma non solo. Tanti sono gli aggettivi che la potrebbero qualificare. Sarebbe più corretto classificarlo come una commistione di generi diversi e ottimamente amalgamati fra loro. Molti sono gli elementi di cui si nutre la pellicola; il fantastico, leggende cinesi, magia, arti marziali, botte, e mostri, il tutto condito con tonnellate di sana ed efficace ironia. Ma, si sa, anche le migliori intenzioni falliscono se non degnamente supportate da attori capaci di sobbarcarsi il peso di tali raffinatezze. Per intenderci, una battuta di per sé divertente detta da un attore che non fa ridere, fallisce miseramente, e manca il bersaglio di chilometri. Ma per fortuna Carpenter ha avuto la giusta intuizione di far lavorare in questo film, in veste di attore principale, il suo attore feticcio, Kurt Russel. Esso è notoriamente un attore più che completo, capace di destreggiarsi più che degnamente all'interno di vari generi, e in più possessore di quell'elemento fondamentale per l'ottima riuscita del film; la faccia da schiaffi, l'atteggiamento della persona che tutto sa fare e tutto fallisce. In effetti si potrebbe dire che, tranne per il finale, il personaggio principale fallisca in tutto. È un uomo sballottato dagli eventi che non riesce (né vuole) comprendere. Si trascina dietro l'amico Wang (l'eccellente Tennis Dun), vero personaggio in grado di risolvere e sbloccare le situazioni, insieme al mago Egg Shen (Victor Wong).

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martedì 27 luglio 2004

Recensione LE DONNE VERE HANNO LE CURVE

Recensione le donne vere hanno le curve




Regia di Patricia Cardoso con America Ferrera, Lupe Ontiveros, Ingrid Oliu, George Lopez, Brian Sites

Recensione a cura di peucezia

Tratto da una commedia teatrale di successo scritta dalla messicana Josephine Lopez, il film diretto dalla colombiana Patricia Cardoso ha vinto nel 2002 il Sundance film festival rassegna di cinematografia indipendente voluta da Robert Redford.

Lo spunto è quello classico della commedia etnica tanto di moda negli ultimi anni (da "Sognando Beckham" in Inghilterra a "Il mio grosso grasso matrimonio greco" negli Stati Uniti): la contrapposizione socio-culturale in una famiglia di emigrati con i genitori ancorati alle tradizioni del proprio paese (soprattutto a quelle più negative e retrive) e i figli desiderosi di affermarsi e di vivere una maggiore integrazione con la popolazione locale.
In questa pellicola però i temi affrontati sono vari: Ana, la protagonista (interpretata da una valida giovane attrice America Ferrera) è una diciottenne alle prese con i problemi classici dell'età, contrasto con la madre con cui vive una relazione controversa di amore-odio, prime avventure sentimentali, scelte per il futuro.
A questi problemi comuni alle sue coetanee si aggiungono il problema della sua linea non propriamente da silfide che viene vissuto in parte con gioia perché contribuisce a darle una personalità ben assestata e la sua appartenenza alla comunità ispanica di Los Angeles.

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giovedì 8 luglio 2004

Recensione TRE COLORI - FILM ROSSO

Recensione tre colori - film rosso


Regia di Krzysztof Kieslowski con Irène Jacob, Jean-Louis Trintignant, Frédérique Feder, Jean-Pierre Lorit, Samuel Le Bihan

Recensione a cura di cash (voto: 10,0)

Con questo film si conclude la fortunata trilogia di Kieslowski dedicata ai tre colori della bandiera francese. Siamo di fronte ad un' opera poco classificabile; ultimo film del regista polacco in assoluto, e probabilmente involontaria summa in cui convergono tutte le poetiche a lui chiare. E' proprio per questo motivo che per molti si tratta del suo miglior film in assoluto, come se ci trovassimo di fronte ad un bignami, ad un piccolo prontuario d' intuizioni e concetti già espressi in passato con altri film. Ma è solo con "Film Rosso" che finalmente si ottiene un'armonizzazione delle varie parti; la sua struttura linguistica attinge in pieno dal grande paradigma della filosofia kieslowskiana, creando così un film che mette fine al complesso pensiero del regista. Torna il tema del doppio, del rapporto e messa in discussione del proprio io, il tema del condurre una vita che non si avverte come propria. E torna anche Irene Jacob, già protagonista de "La doppia vita di Veronica", affiancato da uno strepitoso Jean-Louis Trintignant.

Una delle domande chiave del film, se non LA domanda, è "si può vivere la vita di un altro in maniera del tutto simile, tranne che per piccolissimi particolari che la rendono drasticamente differente"? E in effetti, entrano in gioco due coppie.
Valentie e il vecchio giudice, Auguste e la sua ragazza. La prima coppia è dominata da quella che può essere definita una drammaturgia della voce. Essa è infatti il mezzo con cui Valentie comunica con il suo uomo per telefono, sempre assente. Ciò è dichiarato sin dall'inizio del film, quando una splendida sequenza ci mostra il "percorso" della linea telefonica, da un capo all'altro; ma è anche il mezzo con il quale il vecchio giudice in pensione decide di ascoltare le persone del suo quartiere. Con delle macchine per l'intercettazione telefonica, in maniera assolutamente illegale. Con quest'atto non si voglia intendere il gesto in sé come mero voyeurismo "telefonico"; è piuttosto un mezzo con il quale l'uomo può essere in grado di capire, per la prima volta nella sua vita, con assoluta certezza, dove risieda la verità. Evidentemente quest'uomo non è stato affatto soddisfatto dalla sua passata professione; il dubbio che inequivocabilmente comporta il fatto di giudicare le azioni di una persona, di poter disporre in quel dato momento di un potere che non si riesce a controllare; può un singolo uomo poter disporre della vita di una persona semplicemente ascoltando varie versioni di una stessa storia? Lo stesso giudice affermerà in seguito a Valentine che per ogni singolo caso, in quelle stesse condizioni, avrebbe fatto tutto ciò che avevano fatto le persone da lui giudicate e condannate. E si può, ritenendosi persona al di sopra delle parti ed onesta, abusare di tale potere? Per ciò che concerne il giudice indubbiamente sì, nel momento in cui veniamo messi al corrente che lui stesso non ha avuto esitazioni, una volta avuta l'occasione di vendicarsi dell'uomo che gli aveva in precedenza sottratto la donna amata... Il giudice si sente quindi giudicato a sua volta, da sé stesso in primis, da Valentie poi. Decide quindi di dedicare la sua vita intercettando le telefonate del quartiere. Sa tutto, conosce tutto ciò che la gente si dice, tutto ciò che la gente pensa. Ora finalmente riesce ad ottenere uno sguardo oggettivo nei confronti dei fatti. Ma a due condizioni: facendosi da parte, rinunciando di fatto alla sua presenza, e quindi del corpo; e rinunciando infine a giudicare. Il giudice, prendendo piena consapevolezza dell'assoluta e inequivocabile verità, inevitabilmente si sottrae alla realtà dei fatti. E' più di un osservatore esterno, è semplicemente un'astrazione dell'entità giudicante. Forse, farsi un'idea di come stanno le cose, anche le più semplici, oppure cose che riteniamo scontate, è più arduo del previsto. Il nostro coinvolgimento, a qualunque livello, tende già a mutare il concetto di verità.

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mercoledì 7 luglio 2004

Recensione TRE COLORI - FILM BIANCO

Recensione tre colori - film bianco


Regia di Krzysztof Kieslowski con Zbigniew Zamachowski, Julie Delpy, Janusz Gajos, Jerzy Stuhr

Recensione a cura di cash (voto: 8,0)

E' questo il titolo del secondo film della trilogia "Tre colori". Bianco come la neve della Polonia, bianco come il cielo plumbeo di Parigi, bianco come il vestito da sposa di Dominique. E Bianco come il secondo colore della bandiera francese, simbolo dell'uguaglianza. Storia di un uomo che, per sventura, smette di essere uguale agli altri uomini. Semplicemente non si sente più all'altezza di status di uomo, inteso in senso lato. Non riesce infatti ad aver rapporti sessuali con sua moglie; ma non da sempre, non è la sua condizione naturale. Solo da quando si è sposato. Prima di addentrarci in seno alla trama, sarebbe bene dire che "Film Bianco" è tra i tre il meno valutato, a causa del suo essere manifestamente commedia pura, una semplice storia con poche pretese, ben lontano dalla riflessiva e filosofica verve del regista. In realtà, se è pur vero che si potrebbe definire "Film Bianco" il più leggero della trilogia, è probabile che tale giudizio nasca proprio dalla magniloquenza degli altri due, veri e propri "monoliti", pure idee e concetti espressi magistralmente attraverso un geniale uso del mezzo filmico. "Film Bianco" è leggero per l'universo Kieslowskiano, e tale confronto risulta evidente solo all'interno della sua filmografia. Questa breve introduzione solo per dire che è il film meno amato del regista polacco. E, a dirla tutta, lo stesso Kieslowski si sentì in dovere di rinunciare a molte scene puramente ironiche, dando effettivamente l'impressione che qualcosa manchi, ma con l'enorme pregio (voluto?) di trasformare il comico in grottesco, in una sorta di commedia nera.

Tornando alla trama, come si è già accennato, c'è quest'uomo, Karol, che si ritrova all'improvviso impotente. Da dove deriva quest' impotenza? Probabilmente, ma lo capirà con un certo ritardo, dall'assoluta idealizzazione della moglie. Quando un amore si trasforma in pura contemplazione estatica, quando solo il contatto visivo inebria ed ubriaca la mente dell'amante, quando l'oggetto d'amore è il puro spirito, l'immagine della persona desiderata, c'è il rischio che il corpo, escluso dall'atto stesso del desiderio, smetta di funzionare. Ed è interessante come, per quanto Karol adori sua moglie, a noi appaia antipatica ed estremamente cattiva. La vediamo infatti, per la prima volta, in un'aula di tribunale, intenta a divorziare da Karol proprio per il fatto che il matrimonio non è stato consumato. Tutto ciò avviene in Francia, non l'ambiente natio del protagonista, ma della moglie Dominique. Karol è infatti polacco, e ama visceralmente la sua terra. Al di fuori si sente sperduto, senza protezione. E per seguire la moglie, si trasferisce in Francia, ambiente che si configura subito come ostile. Karol dà infatti la colpa della sua impotenza alla terra straniera, al fatto di non sapersi esprimere correttamente, al fatto di non sapersi ambientare. Scena simbolo di questa ostilità: di fronte al tribunale Karol fissa una colomba con un sorriso, e questa, in tutta risposta, le defeca addosso.

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lunedì 5 luglio 2004

Recensione TRE COLORI - FILM BLU

Recensione tre colori - film blu


Regia di Krzysztof Kieslowski con Juliette Binoche, Benoît Régent, Florence Pernel, Charlotte Véry, Philippe Morier-Genoud

Recensione a cura di cash (voto: 10,0)

"Film blu" è il primo della più importante serie (beninteso, oltre al "Decalogo") di Kieslowski. Essi sono film blu, bianco e rosso, con evidenti richiami ai tre colori della bandiera francese, colori che a loro volta rimandano ai principi della rivoluzione francese, e cioè libertà, uguaglianza e fratellanza. Chiaramente sarebbe abbastanza arduo il fare un film impregnato unicamente su uno di questi concetti; piuttosto si può parlare di componente più preponderante. Se nel "Decalogo" i 10 comandamenti venivano filtrati dalle gesta e vicissitudini di gente senza relazione fra loro e abitanti in un unico condominio, "tre colori" si prefigge di indagare in che modo i tre concetti espressi dalla bandiera francese inflazionino il modo di relazionarsi in un contesto più sociale o affettivo che filosofico.
Chiaro, sempre di Kieslowsi stiamo parlando, e, per definizione, il suo nome non può essere scisso da una certa "poetica della filosofia"; ma questi tre film sono molto più intimistici che razionali; le conclusioni universali che si possono trarre passano necessariamente attraverso un'esperienza vissuta dai protagonisti, non sono retaggio di chissà quale teoria che Kieslowski si premura di illustrarci; il regista non ci spiega come va il mondo, ma come va secondo le figure principali che sono costretti a vivere tali storie. Non c'è niente di pretenzioso, niente di egoistico. Se, alla fine, ci dovessimo sentire d'accordo con quanto da lui enunciato, allora tanto meglio.

Il blu simboleggia la libertà. Non la libertà comunemente intesa, cioè la possibilità di fare tutto ciò che ci aggrada; bensì della libertà dai sentimenti. Fino a che punto si può prescindere da essi, vivere la propria vita imparando a non ascoltare la loro voce? In fin dei conti, per quando l'uomo sia un essere razionale, le sue gesta dipendono in gran parte da un sentire che egli ha nei confronti degli eventi a cui la vita lo sottopone. Si può vivere in uno stato che si potrebbe definire di apatia, di passività nei confronti del "sentire" il fluire della vita stessa?
E' esattamente quello che si prefigge di fare Julie. Subito, nella prima inquadratura, vediamo viaggiare una macchina per strada, in montaggio alternato con il dettaglio della mano di un ragazzo che cerca di far stare in equilibrio una pallina legata ad un bastoncino. Quando ci riesce, sentiamo un botto, che è quello prodotto dall'impatto della macchina contro un albero. Un incidente quindi; l'incidente che avvierà la storia. E qui, assistiamo probabilmente ad una delle più belle immagini che il cinema ci abbia mai donato: Kieslowsi ci introduce il suo personaggio con un dettaglio molto ravvicinato della sua pupilla, nel quale vediamo riflessa la figura di un dottore che le sta comunicando che suo marito e sua figlia sono purtroppo decedute nell'incidente.
E' un'immagine di straordinaria bellezza quanto di forte evocatività; in questo modo abbiamo la possibilità di entrare nel corpo di Julie, ma di percepire comunque le cose mantenendo la nostra identità di spettatore. Il nostro punto di vista (o meglio quello dell'istanza narrante), non il suo. Con questa inquadratura, Kieslowski discredita la soggettiva, mettendosi dalla parte dello spettatore. E' una dichiarazione (importante) di oggettività, di volontà di analisi oggettiva nei confronti di ciò che sta per accadere. Una volta uscita dall'ospedale, Julie cerca di attuare il suo piano. Sfuggire al dolore per la perdita cercando di non provare più nulla, non sentire più nulla. Di soffocare qualunque sentimento sul nascere. Ciò provoca spaesamento nei domestici della villa in cui abita. Vediamo Julie avvicinarsi alla governante che sta piangendo. "perché piangi?", le chiede. E la governante: "perché lei non piange". Appare quindi evidente che il tentativo di Julie abbia buone probabilità di successo, dal momento in cui le persone che la circondano non riescono a capacitarsi della sua pressoché totale apatia. Compie addirittura un ulteriore passo, cioè quello di sbarazzarsi di tutte le sue proprietà e trasferendosi in un più modesto appartamento. Ma se lei sembra aver dimenticato la figlia e suo marito, per il resto della nazione (e forse del mondo) non è così. Suo marito era infatti un noto compositore dalla fama mondiale, morto lasciando un'opera incompiuta, opera che stava Julie man mano rivedeva e impreziosiva, a giudicare da tutte le sue correzioni apportate allo spartito. Il film ci lascia col dubbio che sia lei in realtà la vera mente dietro alle composizioni del marito.

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