Recensione dogville
Recensione a cura di Pietro Salvatori
La minuscola cittadina di Dogville in realtà non esiste. Non perchè sia un nome di fantasia o chissà cosa. Non esiste proprio sullo schermo. Non c'è. Gli interpreti si muovono su un palco, sul cui suolo sono scritti i nomi delle case, delle strade, delle panchine e perfino dei cespugli di uvaspina. Ed è proprio questa afisicità dello spazio, questa estrema libertà dello sguardo a rendere il film claustrofobico. Dopo le provocazioni del "Dogma 95", in cui von Trier predicava l'assoluta "verginità" del regista, ovvero tutta una serie di condizioni per cui la macchina da presa doveva riprendere solo quello che c'era, così com'era, il cineasta danese fa un passo avanti, e tenta una nuova provocazione.
Dodville è un connubio di cinema, teatro e prosa letteraria. La macchina da presa gira una storia introdotta, commentata e vissuta da una voce narrante, che la suddivide in nove capitoli più un prologo. E la scena, come già accennato, si svolge interamente su un palcoscenico, dove le case sono rappresentate da una scritta di gesso e uno scrittoio, la chiesa da quattro panche e un organo, la miniera da un'architrave di legno.
La parte cinematografica si inserisce discretamente nella riproduzione dei rumori naturali (i passi sulla strada, le porte che si aprono e chiudono) e in un uso sapiente, e mai abbandonato dal regista, della telecamera a spalla.
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