sabato 31 gennaio 2004

Recensione NOI ALBINOI

Recensione noi albinoi




Regia di Dagur Kári con Tómas Lemarquis, Throstur Leo Gunnarsson, Elin Hansdóttir, Anna Fridriksdóttir

Recensione a cura di begood

Nòi è un ragazzo islandese che vive con la nonna in una piccola casa in mezzo alla neve, in un paesino dell'isola scandinava. Il padre è un tassista con tramontate aspirazioni musicali, spesso affogate nell'alcol. Della madre non sappiamo nulla. La vita di Nòi trascorre identica giorno dopo giorno, tra la scuola, il più delle volte disertata, una rituale birra, una visita dal libraio con cui gioca a mastermind, i difficili contatti col padre e la cantina di casa, suo piccolo rifugio.
Qualcosa cambia quando al negozio in cui solitamente compra la birra arriva la figlia del libraio, una bella ragazza che suscita l'interesse di Nòi. I due iniziano una timida relazione, accomunati dall'evidente impossibilità di trovare la propria dimensione nel non-luogo in cui vivono. I due progettano persino una fuga insieme, ma Iris, questo il nome della ragazza, non seguirà Nòi che arriverà persino ad essere arrestato dopo il furto di un'auto. Dopo l'uscita su cauzione sarà la cantina in cui il ragazzo cerca di isolarsi a rappresentare la sua salvezza.

Il film di Dakur Kari potrebbe essere semplicemente definito catartico: una pellicola dai toni semplici, netti, candidi come la neve che per tutta la durata del film domina la scena. Il cinema di Dogma, fin troppo spesso pretenzioso, almeno nel suo "capostipite" von Trier, trova in film del genere la sua migliore dimensione: un cinema già definito "minimal-esistenzialista", in una realtà in cui l'uomo è costretto a combattere con la natura per sopravvivere (Nòi riscalda il terreno per scavare una buca nel cimitero del paese, dove il padre gli trova un lavoro; spalare la neve è un atto quotidiano per poter uscire di casa; persino una passeggiata con la propria ragazza è resa impossibile dal freddo).
Tutti i personaggi sono degni rappresentanti di quella che a buon diritto va considerata una poesia della solitudine. Non solo Nòi, infatti, vive tale condizione a cui spesso non sembra pensare, ma anche il padre, che abita solo in un piccolissimo monolocale frustrato per la sua vita e deluso dalla condotta scolastica del figlio; la nonna, che non sentiamo mai parlare se non quando sveglia il nipote al mattino; Iris, appena tornata dalla capitale e, a detta del padre, anch'egli solo, un po' stressata dal "grande centro"; il meccanico del paese, senza nemmeno un aiutante, e che come secondo lavoro legge il futuro nei fondi delle tazze di caffè; lo stesso vale per il preside, gli altri professori e persino gli alunni che non scambiano una parola tra di loro.
Eppure quello che sembra un soggetto quasi insostenibile per la sua crudezza risulta per lunghi tratti una commedia in cui ci si diverte davvero. La pellicola, pur se un'opera prima, con tutti i pregi e i difetti del caso, ha l'indubbio merito di avere un equilibro costituito dal sapiente accostamento di una componente comico-surreale e di un'altra catartico-drammatica, risultando un piccolo saggio di cinema semplice ed essenziale.

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giovedì 29 gennaio 2004

Recensione L'ULTIMO SAMURAI

Recensione l'ultimo samurai




Regia di Edward Zwick con Tom Cruise, Ken Watanabe, William Atherton, Billy Connolly, Darin Fujimori, Seizo Fukumoto

Recensione a cura di Speedy

Siamo nell'America del generale Caster, delle stragi di indiani e di un capitano Nathan Algren interpretato da Tom Cruise, stanco della sua vita, della sua pistola, di tutti quei morti innocenti; un uomo che ha perso il contatto con la sua anima, un uomo che vive di incubi in una bottiglia di whisky. Un giorno, vuoto come tanti, riceve un'offerta: insegnare, in unGiappone che vuole crescere, a dei ragazzi come sanare una rivolta di un rivoluzionario, Katsumoto. Parte solo per i soldi, per un viaggio che cambierà l'intera sua esistenza.
Perchè a differenza di molti suoi colleghi e superiori, un cuore, il capitano Nathan Al Gren lo aveva ancora, e ben presto lo avrebbe riscoperto. Catturato dai nemici rivoluzionari, comincerà avivere in questo piccolo villaggio, ospitato dalla moglie di un combattentesamurai ucciso da lui stesso. Comprenderà con il passare dei giorni, quella società per lui strana, quegli uomini spinti da invincibili tradizioni che combattono con la forza di spade e di mani, che non hanno paura del fuoco dei fucili, che sono pronti a morire in nome dell'onore. Scoprirà l'amore di due bambini che hanno perso il loro papà e di una vedova che non riuscirà ad odiarlo. Scoprirà pian piano quanto quella gente, che ben presto sarebbe diventata la sua famiglia, meritava più rispetto di quei vecchi comandanti americani pronti a puntare un dito contro dei bambini e delle donne indifese. Si alleerà al loro fianco in nomedi una causa che a detta del loro capo Katsumoto (interpretato da Ken Watanabe), era per l'imperatore. In una battaglia finale si scoprirà samurai, non solo nell'aspetto, ma nell'ardore, nella passione, nella ricerca e nella lotta per l'onore.

Come tutti i film del genere L'ultimo samurai evidenzia il classico americanismo nella produzione: grandi scenari, grandi battaglie; Tom Cruise sembra vagamente vestire i panni dell'impavido eroe di Braveheart, ma il regista Edward Zwick (produttore di importanti pellicole come Mi chiamo Sam, Abandon e Shakespeare in love) ha posto molta attenzione alle tradizioni, agli usi e i costumi di un Giappone in fase di sviluppo. Ha voluto evidenziare quanto una piccola casta di uomini era pronta a combattere contro un esercito di migliaia di soldati addestrati "americanamente", senza tirarsi indietro, ha voluto dipingere il ritratto di quel Giappone che lottava contro l'omologazione, che cercava di proteggere il proprio passato, contro un futuro tutt'altro che roseo.

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martedì 27 gennaio 2004

Recensione L'ATTIMO FUGGENTE

Recensione l'attimo fuggente




Regia di Peter Weir con Robin Williams, Robert Sean Leonard, Ethan Hawke, Josh Charles, Gale Hansen

Recensione a cura di Speedy

Ci sono film che hanno scritto realmente la storia dei nostri tempi, film che si ricordano anno dopo anno, che hanno lasciato un segno, una parola, una frase, un motto, una filosofia di vita. "Carpe diem": anche solo per un?ora è stato ed è fortunatamente il grido di ragazzi di tutto il mondo che da "l?Attimo Fuggente" hanno tratto ispirazione.

Girato nel Delaware e campione di incassi del 1989 vanta la partecipazione di grandi attori, a parte il grande Robin Williams compaiono dietro i banchi Ethan Hawke e Robert Sean Leonard, conosciuto principalmente a Broadway.
L?attimo fuggente (la regia è di Peter Weir che ha collezionato negli anni tre nomination agli oscar per "L?Attimo fuggente", "The Truman Show" e "Witness il testimone") racconta di Welton, uno di quei collegi maschili severi e chiusi al libero arbitrio, alla fantasia, all?immaginazione.

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Recensione IL SIGNORE DEGLI ANELLI: IL RITORNO DEL RE

Recensione il signore degli anelli: il ritorno del re




Regia di Peter Jackson con Elijah Wood, Cate Blanchett, Ian Holm, Ian McKellen, Orlando Bloom, Billy Boyd, Christopher Lee, Dominic Monaghan, Viggo Mortensen, John Rhys-Davies, Andy Serkis, Liv Tyler, Hugo Weaving, Sean Astin

Recensione a cura di Cristina3455

Terza e ultima parte dell'imponente opera cinematografica "Il signore degli anelli" tratta dall'omonimo romanzo di Tolkien.

Frodo e il fedele Samwise proseguono il cammino verso Mountdoom, con lo scopo distruggere l'anello nella stessa torre-roccaforte in cui era stato creato...
L'infido Smeagol (che in questo film non viene più chiamato Gollum, ma riprende il suo vecchio nome di hobbit), smanioso di impadronirsi nuovamente del suo "tesoro" li guida nell'insidioso percorso.
Avvelenato dal potere maligno dell'anello, da lui conservato per quasi 500 anni (un periodo troppo lungo... nel film viene mostrata l'orribile trasformazione del suo corpo, da semplice hobbit a creatura mostruosa, ma anche lo sconvolgimento della sua mente, perché il terribile gioiello ha il potere di accendere e alimentare la malvagità e l'avidità di potere di chiunque lo indossi...), non riesce a resistere al richiamo del malefico oggetto e decide così di tradire Frodo, guidandolo con l'inganno verso la morte certa.
La trasformazione di Smeagol, che appare fin dalle prime scene del film, illustra pienamente la metafora del potere, che seduce, corrompe e distrugge...

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lunedì 26 gennaio 2004

Recensione LE IENE

Recensione le iene




Regia di Quentin Tarantino con Harvey Keitel, Tim Roth, Chris Penn, Steve Buscemi, Lawrence Tierney, Michael Madsen, Eddie Bunker, Quentin Tarantino

Recensione a cura di niko

Un gruppo di criminali viene assoldato dal vecchio malavitoso Joe per rapinare una gioielleria. Il piano viene preparato nei minimi dettagli, ma qualcosa va storto, la banda si separa e, uno ad uno, si ritrovano nel luogo che era stato prestabilito per ritrovarsi dopo il colpo, un garage. Qui cominciano a maturare l'idea che fra di loro vi sia un infiltrato...

Era il lontano 1994 quando uno sconosciuto di nome Quentin Tarantino, cresciuto in una videoteca e grandissimo appassionato di cinema, soprattutto di kung-fu e di Sergio Leone, decise di prendere in mano la macchina da presa, dopo aver scritto la sceneggiatura, e, grazie ad una serie di strepitose coincidenze, come quella di incontrare Harvey Keitel che conosceva il boss della Miramax, Lawrence Bender, riuscì a realizzare il suo primo film e, a onor del vero, il suo primo capolavoro.

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Recensione LE INVASIONI BARBARICHE

Recensione le invasioni barbariche



Regia di Denys Arcand con Remy Girard, Stéphane Rousseau, Dorothee Berryman, Louise Portal, Dominique Michel

Recensione a cura di begood

Film d'assoluto valore per gli amanti del cinema "parlato" e di riflessione di matrice francese.
Denys Arcand, già regista di ottime pellicole come Il declino dell'impero americano, realizza un capolavoro del genere, un film cinico quanto serve (da sottolineare le stilettate contro gli USA, contro i sindacati, contro Berlusconi, ecc.), lontano dai benpensanti resi ubriachi dal bombardamento mediatico. Idee personali, quelle del regista, ma finalmente fuori dal coro.
Soggetto bellissimo quello del film franco-canadese che ha riscosso notevoli consensi all'ultima edizione della Croisette. In poche parole lo si potrebbe definire un film sul senso della vita (senza scomodare i grandi Python) e sulla migliore morte che ognuno può immaginare per se stesso. Non va dimenticato, però, che la pellicola può essere letta anche come opera sull'amicizia, sulla cultura, sulla capacità di vivere, e tanto altro.

Rémy, professore universitario amante della vita e delle donne, poco più che cinquantenne (come Arcand), soffre di un male incurabile. La ex-moglie gli è vicino. E' lei a chiamare i figli: Sebastian, uomo d'affari di successo che da Londra, nonostante il contrastato rapporto con il padre che gli rimprovera una formazione totalmente diversa dalla sua, arriva a Montreal con la fidanzata, mentre la sorella, in navigazione nel Pacifico, può mandare solo alcuni videomessaggi. Dopo i primi battibecchi, Sebastian trasforma gli ultimi giorni di vita del padre in uno dei periodi più belli della sua vita, trovando con lui un legame di rara profondità. Egli riesce a contattare gli amici e le amanti più care a Rémy e a farli arrivare al capezzale del padre; privo di scrupoli sul come ottenere la felicità del genitore, non si ferma davanti agli intoppi burocratici grazie anche ad un incredibile savoir faire capitalistico che gli permette di avere il meglio in ogni senso (stanza privata in un'ala dell'ospedale allestita per l'occasione, ambulanze private per il trasporto dal Canada agli Stati Uniti, eroina per alleviare i dolori, ecc.).

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giovedì 22 gennaio 2004

Recensione C'ERA UNA VOLTA IN MESSICO

Recensione c'era una volta in messico




Regia di Robert Rodriguez con Antonio Banderas, Salma Hayek, Johnny Depp, Willem Dafoe, Mickey Rourke, Enrique Iglesias

Recensione a cura di Mr Black

Terzo capitolo della trilogia di Robert Rodriguez sulle gesta di El Mariachi, suonatore di chitarra e pistolero, ambientate in un Messico dai sapori fortemente western. Dopo il primo capitolo "El Mariachi" ed il suo remake hollywoodiano "Desperado", forte della presenza della star latina Antonio Banderas, attore caro ad Almodovar, Rodriguez ci riprova con un ideale seguito del precedente, utilizzando attori del calibro di Antonio Banderas e Salma Hayek (un fantasma in tutto il film, nonostante sia presente nei titoli di testa in primo piano), già presenti in Desperado, Willem Dafoe, Mickey Rourke (ogni tanto riappare!), il cantante Enrique Iglesias e la star del momento, Johnny Depp.

La trama, piuttosto complicata e confusa in alcuni punti del film, è incentrata completamente sul fascino dei due attori protagonisti: Banderas e Depp. Il primo si presenta come il solito abile ed invincibile pistolero, orfano stavolta dell'ironia che lo caratterizzava nel precedente capitolo, sostituita da un'eterna aria di malinconia dovuta alla morte dell'amata; il secondo è un agente della CIA con deliri di onnipotenza, corrotto ed allo stesso tempo scorretto, convinto di poter gestire una situazione più grande di lui che andrà a cambiare l'intera faccia politica del Messico. Lo scontro tra i due personaggi si conclude, artisticamente parlando, a favore del secondo, complice un ruolo molto più interessante e ricco di sfaccettature rispetto a quello dell'eroe leggendario. Ancora una volta Depp riesce ad entrare nel personaggio e riesce a caratterizzarlo in maniera brillante, un po' come aveva fatto per il suo pirata cialtrone nel recente "La maledizione della terza luna". Da parte sua, invece, Banderas non riesce a catturare la simpatia dello spettatore come aveva già fatto in Desperado, film non perfetto nel suo genere ma molto godibile dal punto di vista delle scene di azione a colpi di pistola. Qui invece il giocattolo di Rodriguez sembra essersi rotto ed il Mariachi, pur essendo pieno di fascino e magnetismo animale, non trasmette con la sua pistola le stesse sensazioni che riesce invece a suscitare la stessa arma nelle mani di Depp. Gli altri attori poi, compreso uno sprecato Dafoe, sono solo ridotti a delle comparsate, anche se talvolta piuttosto lunghe.

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mercoledì 21 gennaio 2004

Recensione NASHVILLE

Recensione nashville




Regia di Robert Altman con Robert Arkin, Barbara Baxley, Richard Baskin, Ned Beatty, Karen Black, Ronee Blackley, Keith Carradine, Geraldine Chaplin, Shelley Duvall, Henry Gibson, Scott Glenn, Lily Tomlin, Michael Murphy, Jeff Goldblum, Elliott Gould

Recensione a cura di Pietro Salvatori

In una cittadina americana qualunque, Nashville, si prepara una due giorni elettorale per un candidato alla presidenza degli Stati Uniti. Il carrozzone che gli si muove intorno si va a scontrare con la realtà quotidiana di Nashville, i suoi problemi, le sue aspettative, le sue incomprensioni ed ambizioni. Un caleidoscopio di personaggi, situazioni, sensazioni e scenari, la descrizione di un mondo che c'è, ma che ci sfugge sotto il naso.

Solo Altman poteva pensare, girare, realizzare un'opera così. Un'opera senza un vero protagonista, anzi, dove la musica è la vera protagonista (tanto che, essendo registrato a ventiquattro (24!!!) piste non si è mai potuto doppiare). Una musica che unisce, non nel bene, ma nel sentire comune. Una musica che traina oltre tutto, al di là della sofferenza, della morte, ci invita a "lasciare che sia".

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lunedì 19 gennaio 2004

Recensione ARANCIA MECCANICA

Recensione arancia meccanica




Regia di Stanley Kubrick con Malcolm McDowell, Patrick Magee, Michael Bates, Warren Clarke, John Clive, Adrienne Corri

Recensione a cura di _Orion

Un film controverso, c'è chi l'ha eletto a proprio culto senza averne visto mai neanche un fotogramma, altri lo ritengono un incredibile incitamento alla violenza e poi c'è chi con una visione meno superficiale vi ha saputo vedere dell'altro.

Ispirato al romanzo A Clockwork Orange di Anthony Burgess, il film di Kubrick è una grande riflessione sull'uomo, sulla sua natura a contatto con i condizionamenti della cultura.

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mercoledì 14 gennaio 2004

Recensione TOSCA E ALTRE DUE

Recensione tosca e altre due




Regia di Giorgio Ferrara con Franca Valeri, Adriana Asti, Carlo Cecchi, Franco Interlenghi, Maria Pia Ionata, Alessandro Safina, Armando Ariostini, Cochi Ponzoni

Recensione a cura di coccinella

Una spumeggiante Adriana Asti, milanese a Roma per amore e interesse è Iride, navigata attrice allegra che ha dato l'addio alla vita e alla carriera per rincorrere una più alta felicità nella città pontificia diventando la sposa di Sciarrone, gendarme e picchiatore al servizio del barone Scarpia.
Brillante e estremamente concreta, una Franca Valeri invecchiata, appesantita da anni di carriera, ma mai messa in ombra dalla compagna di scena, è Emilia, portinaia discreta (più per convenienza che per vocazione) di palazzo Farnese, al servizio del barone di cui vuol sentir parlare solo di lode.
Il bel Cavaradossi, pittore sovversivo è sottoposto ad indicibili torture da parte del barone Scarpia che, accecato d'amore per la bella Tosca, non accetta che quest'ultima ami a sua volta il rivoluzionario.
Tosca si sacrifica per il suo amato e decide di cedere al ricatto morale che il barone le impone: lei per il termine delle torture. Nonostante la scelta coraggiosa, la donna non sopporta neppure la sola vista del barone, quindi rimasti soli, con un gesto estremo e disperato lo uccide.

In una carrellata delle scene madri, rapida e efficace, si ripercorre l'opera pucciniana e le arie più famose, così mentre ai piani alti di palazzo Farnese si consuma la tragedia, nella modesta portineria si realizza il connubio tra le due donne così diverse, ma tanto vicine in quella notte da sembrare quasi amiche.
Le spettatrici del dramma sono le protagoniste della commedia. Si scopre la finta bigotteria della Valeri - che nasce forse solo dall'ambito di una Roma ottocentesca e molto pontificia - trattenuta a stento dal farsi trascinare nella vita briosa della Asti, attrice, soubrette e dama di facili costumi.
Iride con la sua voglia di confidarsi e essere apprezzata, con la sua voglia di vivere e le divertenti esplosioni di dialetto ha una visione ammirata e quasi invidiosa dei personaggi che popolano la notte del sontuoso palazzo.
Emilia si ritrova controvoglia a dover condividere una sera in compagnia della signora Sciarrone gretta e ignorante non fosse altro per il nome che porta. Nel lungo scorrere della notte, mentre porgono un orecchio a ciò che accade ai piani alti, Iride rende partecipe dei suoi sogni e delle sue speranze la sua nuova amica che, dopo aver ascoltato mal celando una bonaria stizza non può far altro che aiutarla a fuggire da Roma, dal marito e da una vita che un a volta sperimentata non le pare più così affascinante come sembrava.

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lunedì 12 gennaio 2004

Recensione BARRY LYNDON

Recensione barry lyndon




Regia di Stanley Kubrick con Ryan O'Neal, Marisa Berenson, Patrick Magee, Hardy Krüger, Steven Berkoff, Gay Hamilton

Recensione a cura di agentediviaggi

Irlanda XVIII secolo. Dopo la morte del padre in un duello il giovane Redmond Barry rimane solo con la madre. Innamoratosi della cugina Nora Brady sfida a duello il suo pretendente, il capitano Quin, un ufficiale inglese. Convinto di averlo ucciso Barry fugge a Dublino con 20 ghinee dategli dalla madre, ma sulla strada incontra dei ladri che gli rubano tutto. Barry allora è costretto ad arruolarsi nell'esercito inglese. Prende parte così alla guerra dei sette anni e viene a sapere da un suo vecchio amico, il capitano Grogan, che Quin non è morto e ha sposato Nora. Barry diserta e incontra nel suo viaggio un alleato prussiano il capitano Potzdorf, che lo smaschera costringendolo ad arruolarsi nel suo esercito. Barry si comporta valorosamente in battaglia salvando la vita del suo capitano il quale, riconoscente, lo elegge a suo attendente. Viene quindi incaricato di spiare il cavaliere di Balibari, un baro, irlandese come Barry. Quest'ultimo alla presenza di un compatriota si commuove e gli rivela lo scopo della sua missione. Il cavaliere lo porta con sé in giro per l'Europa dove i due si mantengono giocando d'azzardo. Ad un tavolo da gioco Barry incontra Lady Lyndon, un'aristocratica sposata ad un marito anziano ed invalido. Barry diventa il suo amante e, alla morte del marito, la sposa, acquisendo così il titolo nobiliare. I due hanno un bambino ma la vita familiare si rivela molto difficile per Barry il quale è odiato da Lord Bullingdon, il primogenito di Lady Lyndon e non è ben accetto in società per via delle sue origini plebee. Durante un alterco in pubblico con il figliastro Barry perde ogni possibilità di accedere ad un proprio titolo nobiliare. Dopo la morte accidentale (una caduta da cavallo) dell'amatissimo figlio Bryan Lady Lyndon tenta il suicidio. Barry sconvolto passa le sue giornate a bere e giocare fino a quando non viene sfidato a duello da Lord Bullingdon. Barry viene ferito gravemente e perde una gamba. Lord Bullingdon lo costringe a lasciare l'Inghilterra in cambio di un vitalizio. Il film si conclude sul viso affranto di Lady Lyndon che firma il solito assegno annuale per il marito.

William Makepeace Thackeray aveva scritto The luck of Barry Lyndon nel 1843. Nel 1856, Thackeray effettuò delle modifiche e ripubblicò il libro in una miscellanea di sue opere con il titolo Memoirs of Barry Lyndon (in Italia, Le memorie di Barry Lyndon). La storia di Barry Lyndon si inserisce alla perfezione nella visione desolata, ironica e oscura che Kubrick aveva dell'uomo. Redmond Barry è un vagabondo irlandese che insegue uno status sociale elevato e lo raggiunge sposandosi con l'aristocratica Lady Lyndon, salvo poi tornare alle sue umili origini. Se nel precedente film Arancia Meccanica il regista aveva creato un antieroe cinematografico, Alex, che doveva rappresentare il XX secolo, Barry Lyndon appartiene di diritto alla sempre più cupa visione del mondo di Kubrick e della società del passato. La struttura narrativa del film è molto simile a quella di Arancia Meccanica. Il critico francese Michel Ciment parla, a ragione, di struttura geometrica che si ripete reiteratamente in tutte le opere di Kubrick. Così mentre in Arancia Meccanica il percorso umano di Alex è dapprima negativo e successivamente positivo, in Barry Lyndon il protagonista segue un percorso inverso. All'inizio lo vediamo giovane e sprovveduto, ma dotato di un sentimentalismo e una passione che lo metteranno nei guai. In seguito Barry acquista sicurezza in se stesso fino a diventare un giocatore d'azzardo cinico e baro che seduce l'aristocratica Lady Lyndon. Una volta raggiunto lo status sociale Barry pensa di avere raggiunto il suo obiettivo e di avere allontanato da sé i conflitti quotidiani a cui era stato sottoposto ma scopre che la sua casa è un teatro di guerra altrettanto duro.

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venerdì 9 gennaio 2004

Recensione MINORITY REPORT

Recensione minority report




Regia di Steven Spielberg con Tom Cruise, Colin Farrell, Samantha Morton, Max Von Sydow, Lois Smith, Peter Stormare, Tim Blake Nelson, Steve Harris, Kathryn Morris, Mike Binder, Daniel London, Spencer Treat Clark, Jessica Capshaw, Neil McDonough, Richard Coca, Patrick Kilpatrick

Recensione a cura di begood

Anno 2054 a Washington D.C. Qui John Anderton è a capo della polizia pre-criminale, un'istituzione che in sei anni ha praticamente ha annullato il numero di omicidi in città. Il sistema funziona grazie ai "Precog", tre persone su cui esperimenti scientifici hanno generato la particolare capacità di prevedere azioni delittuose. John ricostruisce gli omicidi visti dai Precog e riesce a neutralizzarli poco prima che vengano commessi.
John è un uomo che crede in questo progetto, anche perchè? coinvolto da vicende personali: la scomparsa di suo figlio di sei anni Sean ha modificato la sua vita, è stato lasciato dalla moglie, ha iniziato ad assumere droghe e vive nel ricordo del passato.
Tutto viene messo in discussione quando John scopre l'esistenza di un "rapporto minoritario" (quello che dà il titolo al film), una sorta di disaccordo tra le tre previsioni dei Precog.

Qualunque commento al film non può prescindere da un sonoro "ed ora basta!". Steven Spielberg continua a "sprecare" soggetti di altissimo livello realizzando film che non convincono, che si presentano come capolavori tecnici intrisi di aggiunte buoniste di cui non si sente assolutamente il bisogno.
Agli appassionati di cinema non resta che rimpiangere il mancato affidamento di un soggetto di questo tipo ad altri registi che avrebbero colto meglio la weltanschauung di Philip Dick (chi scrive pensa a David Cronenberg, ma non solo).
Tutti ricordiamo quanto fatto da Spielberg all'ultimo capolavoro in nuce di Stanley Kubrik, quell'A.I. che con il regista statunitense si è trasformato in una semplice favola tecnologica a metà tra Pinocchio e E.T. A Spielberg non è bastato, e pensare che in varie interviste rilasciate aveva più volte precisato che era giunto il momento di fare film che piacessero a lui e non più solo al pubblico, come gli avevano chiesto fino a quel momento: delle due l'una, o quello che piace a lui ormai coincide totalmente con le esigenze del botteghino (e quindi non vediamo alcuna differenza), oppure non ha più nulla da comunicare tranne un perfezionismo tecnico che gli va comunque riconosciuto. E poi, in una superproduzione come questa c'era veramente il bisogno di alcune pubblicita così poco occulte?

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lunedì 5 gennaio 2004

Recensione LA MEGLIO GIOVENTU'

Recensione la meglio gioventu'




Regia di Marco Tullio Giordana con Luigi Lo Cascio, Adriana Asti, Sonia Bergamasco, Maya Sansa, Fabrizio Gifuni, Jasmine Trinca, Alessio Boni, Camilla Filippi, Valentina Carnelutti, Andrea Tidona, Lidia Vitale, Greta Cavuoti, Riccardo Scamarcio

Recensione a cura di Pietro Salvatori

La meglio gioventù non è, come molti hanno detto, la storia di trentacinque anni d'Italia, ma la storia di una famiglia nell'Italia di quegli anni.
Il film di Giordana ha in potenza tutte le caratteristiche per gridare al capolavoro, ma non le esplica fino in fondo. Sofferto, ridondante, allegro, stucchevole, pomposo e discreto, il film somma tutti gli aspetti positivi e negativi di un'opera a così ampio respiro.

Pensata in un primo momento per la televisione, visto il grande successo riscontrato a Cannes, l'opera è stata distribuita al cinema in due parti, due atti. La fruibilità, però è stata minima (due biglietti, sei ore di cinema) e non alla portata di tutti.
Peggio mi sento a pensare alla messa in onda televisiva. Divisa in quattro parti e stuprata in continuazione dalla pubblicità, La meglio gioventù è stata ulteriormente messa alle corde.

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