Regia di
Frank Miller, Robert Rodriguez con Bruce Willis, Jessica Alba, Clive Owen, Mickey Rourke, Brittany Murphy, Rosario Dawson, Nick Stahl, Elijah Wood, Benicio Del Toro, Jaime King, Devon Aoki, Alexis Bledel, Michael Clarke Duncan, Carla Gugino, Josh Hartnett, Michael Madsen
Recensione a cura di cash (voto: 3,0)
Sin City: la città del peccato di Miller. Fosca, cupa, senza speranza, "maledetta". Tocca a Rodriguez portarla su grande schermo.
Con una campagna pubblicitaria in grande stile, il progetto Rodriguez-Miller viene alla luce e trascina con se i paladini del fumetto pronti ad immolarsi per difendere le ragioni del regista; regista che, diciamoci la verità, non ha mai brillato e se lo ha fatto non è stato mai per luce propria. 'El Mariachi' e 'Desperado'? Pallidi tentativi di emulare i nostri "spaghetti western", per l'occasione ribattezzati "burrito western". E dite la verità, in 'Desperado' c'è qualcosa da ricordare, oltre al nudo di Salma Hayek? Rispondetevi ma siate onesti. 'Dal tramonto all'alba' è stato miracolato da Mr. Tarantino in persona ed il risultato è più di Mr. Pulp che non di Mr. Burrito, tant'è che il film somiglia più a 'Pulp Fiction' che a qualsiasi altro lavoro di Rodriguez. 'C'era una volta in Messico' è invece la prova di come il regista messicano riesca nella mirabile impresa di far fallire clamorosamente un film con un cast di un certo rilievo (viene in mente Verbinski che riuscì incredibilmente a far fallire 'The Mexican' con la Roberts e Pitt). I vari 'Spy Kids' sono invece serviti a Rodriguez per destreggiarsi con il digitale, ma a ben vedere sarebbe meglio dire giocare con il digitale, visti i videoludici risultati.
Con queste premesse, il nostro regista messicano ha probabilmente ritenuto di aver raggiunto la saggezza digitale necessaria per il "porting" del famoso fumetto di Miller.
In verità è tutto assolutamente identico alle tavole di Miller, lui stesso coregista del film (Rodriguez da solo non ci vuole mai stare) e quando si dice tutto lo si dice senza iperboli alcune. Nulla è lasciato al caso: i cerotti di Marv sono proprio lì dove dovrebbero stare, e non vi è differenza alcuna tra inquadrature e vignette; anche le didascalie sono pressoché identiche. Come si diceva, nulla è lasciato al caso, tranne un particolare, più o meno di un certo rilievo: il film stesso.
Rodriguez e Miller, folgorati sulla via di Damasco e ossessionati dall'idea del porting perfetto, non trovano nulla di meglio che sfruttare i fumetti originali, trattandoli come fossero sceneggiature già perfettamente funzionali e collaudate e non rendendosi conto che fumetto e cinema fanno riferimento a campi semantici estremamente diversi; appartengono entrambi all'insieme del racconto visivo, ma i codici paradigmatici dispiegati nel mostrare e nel narrare non sono gli stessi. Il cinema, in questo film, abdica letteralmente in favore del racconto concepito per essere narrato sulle tavole di una pagina, e non c'è nulla di più avvilente per l'arte cinematografica del fatto di rinunciare alle proprie peculiarità per entrare a far parte di una "grande sintagmatica" che non gli appartiene. In questo modo non solo ne esce mal ridotto il Cinema (con la C maiuscola), ma anche il fumetto.
Va detto che l'opera di Miller, giocata su chiaro-scuri contrastatissimi, si realizza con onnipresenti didascalie che, in un processo di osmosi, si fondono con la vignetta; ma una didascalia, concepita come "voice over" di un personaggio narrante su carta, può non funzionare se trasposta su pellicola. Va anche detto, per onestà, che Miller non è proprio maestro dell'evolversi dell'azione che nelle sue tavole procede a scatti, non levigata e quindi non fluida; ogni azione viene tracciata per forza di sintesi e con poche velleità artistiche per ciò che concerne il punto di vista dell'entità narrante. Rodriguez non nota tutto ciò e si adegua all'estenuante "fissità" delle tavole di Miller; il risultato è una serie di inquadrature granitiche che solo il montaggio frenetico -effetto "spazio bianco tra una vignetta e l'altra"- riesce a movimentare.
Si ha la netta conferma che per una trasposizione perfetta non si debba necessariamente ricopiare senz'anima tutto ciò che si vede, ma che un minimo di pianificazione registica e cinematografica debba sempre essere necessariamente inclusa. Si rischia, ed è appunto il caso di Sin City, di incappare in pura forma senza contenuto, di puro significante senza significato, in cui perfino il concetto stesso di noir viene a mancare. Attenzione, infatti; benché Sin City sia spacciato per film noir, di noir non ha assolutamente nulla. Non si venga a dire che Rodriguez reinventa il genere; a parte che il genere non ha nessun bisogno d'essere reinventato, semmai avrebbe bisogno d'essere innovato e di innovazione qui non v'è traccia alcuna, perché per innovare qualcosa la si deve soprattutto possedere; il genio gioca con i codici stessi di un genere nutrendo ogni componente con l'altra, ma per farlo è richiesta una fortissima conoscenza dei codici intrinseci al genere stesso. Rodriguez non possiede nulla di tutto ciò, in quanto colpevole di aver confezionato un film-fumetto che non va a parare assolutamente da nessuna parte, che non appartiene a nessun genere ma piuttosto ne attraversa molti superficialmente, e quando vuole sembrare profondo è perché incastra molte di queste superfici.
Altro errore clamoroso è la città stessa, che risulta essere semplicemente lo sfondo nel quale i personaggi agiscono. Non è una città viva, non pulsa, non urla; è semplicemente un contesto. Non bastano 2 inquadrature in croce di una strada di collina e di un bar malfamato con annesso viottolo per far vivere di vita propria una città: si pensi al miracolo che è la città di 'Blade Runner', che è il vero ed unico ricettacolo in cui converge tutta la storia di Scott.
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