mercoledì 29 giugno 2005

Recensione L'URLO DI CHEN TERRORIZZA ANCHE L'OCCIDENTE

Recensione l'urlo di chen terrorizza anche l'occidente




Regia di Bruce Lee con Bruce Lee, Nora Miao, Chuck Norris

Recensione a cura di Anakin

"L'urlo di Chen terrorizza anche l'occidente" è uscito a Hong Kong con il titolo inglese "The way of the Dragon" e quello cinese "Menglong guojiang" che tradotto significa "Il Drago feroce attraversa le acque". Ambientato nella nostra Capitale, si tratta del terzo film di Bruce Lee come protagonista e, per la prima volta, è lui stesso a prendere le redini della regia e della sceneggiatura, in quanto erano ormai incrinati i rapporti col regista Lo Wei, dopo il loro secondo film, a causa di divergenze d'opinioni.
Le differenze di sceneggiatura, rispetto alle precedenti pellicole, si notano immediatamente. Nei film diretti da Lo Wei, Bruce Lee interpreta un eroe che si ritrova a combattere quasi suo malgrado e che alla fine riesce a fare giustizia, ma pagandone il prezzo.
In "The way of the Dragon", invece, si evitano arzigogoli e la storia si semplifica ulteriormente: Bruce Lee interpreta l'eroe venuto appositamente dalla Cina per aiutare i suoi cugini, proprietari di un ristorante a Roma, perseguitati da un'improbabile gang "americanizzata". E lo farà a colpi di kung fu!
Questo film si distingue dai precedenti anche per la presenza di situazioni comiche, come quella iniziale in cui il personaggio interpretato da Lee ordina per sbaglio cinque passati di verdura!

Il protagonista, nell'edizione italiana, viene chiamato Chen, come nei precedenti film. In realtà i tre personaggi non hanno niente a che fare l'uno con l'altro e nel terzo film Bruce Lee interpreta un imbranato cinese provinciale, che nell'edizione originale si chiama Tang Lung. Questo personaggio sarebbe dovuto comparire in altri film, sempre in giro per il mondo, ma la prematura scomparsa del celeberrimo attore ha limitato Tang a quest'unica apparizione...

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martedì 28 giugno 2005

Recensione I 3 DELL'OPERAZIONE DRAGO

Recensione i 3 dell'operazione drago




Regia di Robert Clouse con Bruce Lee, John Saxon, Shih Kien, Jim Kelly, Ahna Capri, Robert Wall

Recensione a cura di Anakin

"I tre dell'Operazione Drago" ("Enter the Dragon") è il quarto, e purtroppo ultimo, film in cui Bruce Lee recita come protagonista per l'intera durata della pellicola.

Bruce Lee aveva già iniziato le riprese di "The Death Game" (che sarebbe dovuto essere il suo secondo film di cui avrebbe curato sceneggiatura e regia), quando dagli USA gli arrivò un'offerta che non poteva rifiutare: un colossal internazionale di cui sarebbe stato protagonista!
E' noto che Bruce avesse già tentato di sfondare in occidente, senza riuscirvi. In seguito, i produttori americani devono essersi mangiati le mani, quando hanno constatato che il celeberrimo attore era riuscito, senza di loro, a farsi una fama mondiale nel giro di breve tempo. Questa sorta di "dietro front" era sicuramente ipocrita, ma Bruce Lee accettò l'offerta.
Fu così che la Golden Harvest di Hong Kong e l'americana Warner Bross girarono questo colossal in coproduzione, cercando di trovare un compromesso, nella storia, che accontentasse sia i gusti del pubblico occidentale, che di quello orientale.

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lunedì 27 giugno 2005

Recensione CRIMEN PERFECTO - FINCHE' MORTE NON LI SEPARI

Recensione crimen perfecto - finche' morte non li separi




Regia di Alex De La Iglesia con Guillermo Toledo, Mónica Cervera, Luis Varela, Enrique Villén, Fernando Tejero, Javier Gutiérrez, Kira Miró, Rosario Pardo, Gracia Olayo

Recensione a cura di peucezia

"Crimen Perfecto" (titolo originale "Crimen Ferpecto" come curioso omaggio al personaggio di Obelix creato da Goscinny, ma anche sottile richiamo ai sovvertimenti inaspettati che hanno luogo nella trama) è un film spagnolo di Alex de la Iglesia, regista iberico degli ultimi anni con al suo attivo un paio di pellicole grottesche e dissacratorie ("La Comunidad, El dìa de la bestìa").

La nuova pellicola, diretta da de la Iglesia dopo una pausa di un paio di anni, è meno fuori dagli schemi rispetto alle prime opere ma non per questo risulta essere meno caustica delle precedenti.
Ambientato quasi interamente nei grandi magazzini madrileni Yeyo's, il film unisce molti generi: la satira, la parodia, la commedia nera e anche alcuni omaggi a maestri spagnoli ed europei della cinematografia e della letteratura.

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giovedì 23 giugno 2005

Recensione LE CONSEGUENZE DELL'AMORE

Recensione le conseguenze dell'amore




Regia di Paolo Sorrentino con Toni Servillo, Olivia Magnani, Adriano Giannini, Raffaele Pisu, Angela Goodwin

Recensione a cura di GiorgioVillosio

La noia, l'indifferenza, la solitudine, l'incapacità di comunicare, il pessimismo, sono temi molto consueti nel pensiero contemporaneo. Nel loro insieme si rifanno alla corrente filosofica esistenzialistica; questo tipo di pensiero, peraltro, non è certamente nuovo, ma punto di arrivo di una sensibilità che da sempre accompagna l'uomo nel doloroso cammino del vivere. Dal canto dei lirici greci, agli anni "matti e disperatissimi" di Leopardi, dai dolori giovanili del Werther al pessimismo cosmico di Shopenauer, per arrivare alle "nausee sartriane", alle "noie moraviane" e al suicidio di Camus e Pavese, l'arte letteraria non ha mai trascurato di raccontare "il dolore del vivere". Ma anche altre muse sentono e cantano il problema dell'esistenza, come la musica dei blues o, ad esempio, il cinema di Antonioni e di certa nouvelle vague francese.

Al di là della chiave artistica, certe problematiche si ritrovano anche in chiave psicologica e analitica, ma descritte in altri termini: autismo per la solitudine estrema, depressione per il pessimismo globale, mancanza di progettualità per la noia esistenziale, inconscio per la parte sepolta di noi. Di tutti questi elementi c è traccia nel film del giovane regista napoletano, alla sua seconda opera; a partire dalla affermazione che "ognuno di noi è portatore di qualche segreto inconfessabile". Nella fattispecie il protagonista nasconde al mondo una nutrita serie di cose: si droga in segreto da oltre 20 anni, se pur in modo contenuto e regolare, ha avuto drammatici rovesci finanziari e traffica valuta per conto della mafia per salvarsi la pelle. Il tutto richiuso per anni all'interno di un alberghetto di Chiasso, senza comunicare con alcuno, in completa solitudine.

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giovedì 16 giugno 2005

Recensione L'OCCHIO DEL DIAVOLO

Recensione l'occhio del diavolo



Regia di Ingmar Bergman con Jarl Kulle, Bibi Andersson

Recensione a cura di chi@ra

Un proverbio irlandese recita: "La verginità di una donna è un orzaiolo nell'occhio del diavolo".
Al diavolo duole un occhio; sulla Terra una giovane ragazza si appresta ad arrivare illibata al matrimonio. Scandalizzato e preoccupato della possibile vittoria delle potenze "di sopra", Satana decide di proporre un patto al famoso seduttore Don Giovanni: se riuscirà sedurre la ragazza nel tempo di una notte ed una mattina, si vedrà condonata la sua pena di trecento anni e avrà garantite notti senza incubi. Don Giovanni accetta e scende sulla Terra con il suo servitore Pablo e un diavolo vestito da frate. Giunti al "Paradiso Terrestre" incontrano il padre della ragazza, un ingenuo Pastore, che vede nel fortuito incontro il volere di Dio e li invita a cena.
Don Giovanni, nonostante molti fascinanti tentativi, non riesce a portare a termine la sua missione; Britt Marie gli resiste, proclamando la forza del suo amore per il fidanzato ma, dimostrandosi leggera e infantile, gli concede per gioco un bacio.
Pablo invece riesce a far breccia nel cuore della moglie del Pastore, facendo leva sulla sua fragilità e noia. Il Pastore, che nel frattempo è riuscito con un abile trucco a intrappolare il diavolo vestito da frate in una armadio, scopre il tradimento della moglie e la perdona. Il loro rapporto acquista un nuovo valore, nel desiderio di un nuovo inizio.
Il mattino seguente Don Giovanni incontra Britt Marie e le dichiara il suo amore. La ragazza rimane indifferente; le parole del seduttore hanno risvegliato in lei desiderio ma non amore, l'esperienza l'ha resa adulta e pronta per sposarsi. Don Giovanni sconfitto torna all'inferno. Il diavolo si dichiara vinto e medita di lasciare il suo posto ma, durante la prima notte di nozze, la ragazza mente al marito affermando di non aver mai baciato nessun uomo. L'occhio di Satana guarisce in un attimo e tutto torna alla normalità.

Bergman, partendo da un proverbio della tradizione nordica, costruisce una commedia semplice e grottesca, divisa in tre atti, intervallati da un ironico narratore che ne spiega la scena. L'opera ha un sapore teatrale e i lunghi dialoghi sono la parte più interessante e riuscita. Affrontano alcune tematiche essenziali dell'opera Bergmaniana: l'amore, la morte, il peccato e la lotta tra il bene e il male. Nell'evoluzione dei personaggi sta la chiave di lettura inedita, che non comparirà in altre sue opere: Don Giovanni scopre il sentimento e rinuncia al disprezzo e all'indifferenza, pronto ad accettare le pene dell'inferno perché "niente è abbastanza crudele per colui che ama"; la moglie del Pastore, donna subdola ed insoddisfatta, scopre la compassione per il marito e diviene una buona moglie; il Pastore, da ingenuo che era, apre gli occhi e smaschera i raggiri del diavolo. Solo il personaggio di Britt Marie riporta integri i classici contenuti del suo autore. Le analogie caratteriali tra lei e Don Giovanni, all'apparenza superate dal profondo sentimento verso il fidanzato, si rivelano nel finale, dove la bugia la rende uguale a tutte le altre, tornando al tema del matrimonio come adulterio potenziale.

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lunedì 13 giugno 2005

Recensione SIN CITY

Recensione sin city




Regia di Frank Miller, Robert Rodriguez con Bruce Willis, Jessica Alba, Clive Owen, Mickey Rourke, Brittany Murphy, Rosario Dawson, Nick Stahl, Elijah Wood, Benicio Del Toro, Jaime King, Devon Aoki, Alexis Bledel, Michael Clarke Duncan, Carla Gugino, Josh Hartnett, Michael Madsen

Recensione a cura di cash (voto: 3,0)

Sin City: la città del peccato di Miller. Fosca, cupa, senza speranza, "maledetta". Tocca a Rodriguez portarla su grande schermo.
Con una campagna pubblicitaria in grande stile, il progetto Rodriguez-Miller viene alla luce e trascina con se i paladini del fumetto pronti ad immolarsi per difendere le ragioni del regista; regista che, diciamoci la verità, non ha mai brillato e se lo ha fatto non è stato mai per luce propria. 'El Mariachi' e 'Desperado'? Pallidi tentativi di emulare i nostri "spaghetti western", per l'occasione ribattezzati "burrito western". E dite la verità, in 'Desperado' c'è qualcosa da ricordare, oltre al nudo di Salma Hayek? Rispondetevi ma siate onesti. 'Dal tramonto all'alba' è stato miracolato da Mr. Tarantino in persona ed il risultato è più di Mr. Pulp che non di Mr. Burrito, tant'è che il film somiglia più a 'Pulp Fiction' che a qualsiasi altro lavoro di Rodriguez. 'C'era una volta in Messico' è invece la prova di come il regista messicano riesca nella mirabile impresa di far fallire clamorosamente un film con un cast di un certo rilievo (viene in mente Verbinski che riuscì incredibilmente a far fallire 'The Mexican' con la Roberts e Pitt). I vari 'Spy Kids' sono invece serviti a Rodriguez per destreggiarsi con il digitale, ma a ben vedere sarebbe meglio dire giocare con il digitale, visti i videoludici risultati.
Con queste premesse, il nostro regista messicano ha probabilmente ritenuto di aver raggiunto la saggezza digitale necessaria per il "porting" del famoso fumetto di Miller.

In verità è tutto assolutamente identico alle tavole di Miller, lui stesso coregista del film (Rodriguez da solo non ci vuole mai stare) e quando si dice tutto lo si dice senza iperboli alcune. Nulla è lasciato al caso: i cerotti di Marv sono proprio lì dove dovrebbero stare, e non vi è differenza alcuna tra inquadrature e vignette; anche le didascalie sono pressoché identiche. Come si diceva, nulla è lasciato al caso, tranne un particolare, più o meno di un certo rilievo: il film stesso.
Rodriguez e Miller, folgorati sulla via di Damasco e ossessionati dall'idea del porting perfetto, non trovano nulla di meglio che sfruttare i fumetti originali, trattandoli come fossero sceneggiature già perfettamente funzionali e collaudate e non rendendosi conto che fumetto e cinema fanno riferimento a campi semantici estremamente diversi; appartengono entrambi all'insieme del racconto visivo, ma i codici paradigmatici dispiegati nel mostrare e nel narrare non sono gli stessi. Il cinema, in questo film, abdica letteralmente in favore del racconto concepito per essere narrato sulle tavole di una pagina, e non c'è nulla di più avvilente per l'arte cinematografica del fatto di rinunciare alle proprie peculiarità per entrare a far parte di una "grande sintagmatica" che non gli appartiene. In questo modo non solo ne esce mal ridotto il Cinema (con la C maiuscola), ma anche il fumetto.
Va detto che l'opera di Miller, giocata su chiaro-scuri contrastatissimi, si realizza con onnipresenti didascalie che, in un processo di osmosi, si fondono con la vignetta; ma una didascalia, concepita come "voice over" di un personaggio narrante su carta, può non funzionare se trasposta su pellicola. Va anche detto, per onestà, che Miller non è proprio maestro dell'evolversi dell'azione che nelle sue tavole procede a scatti, non levigata e quindi non fluida; ogni azione viene tracciata per forza di sintesi e con poche velleità artistiche per ciò che concerne il punto di vista dell'entità narrante. Rodriguez non nota tutto ciò e si adegua all'estenuante "fissità" delle tavole di Miller; il risultato è una serie di inquadrature granitiche che solo il montaggio frenetico -effetto "spazio bianco tra una vignetta e l'altra"- riesce a movimentare.
Si ha la netta conferma che per una trasposizione perfetta non si debba necessariamente ricopiare senz'anima tutto ciò che si vede, ma che un minimo di pianificazione registica e cinematografica debba sempre essere necessariamente inclusa. Si rischia, ed è appunto il caso di Sin City, di incappare in pura forma senza contenuto, di puro significante senza significato, in cui perfino il concetto stesso di noir viene a mancare. Attenzione, infatti; benché Sin City sia spacciato per film noir, di noir non ha assolutamente nulla. Non si venga a dire che Rodriguez reinventa il genere; a parte che il genere non ha nessun bisogno d'essere reinventato, semmai avrebbe bisogno d'essere innovato e di innovazione qui non v'è traccia alcuna, perché per innovare qualcosa la si deve soprattutto possedere; il genio gioca con i codici stessi di un genere nutrendo ogni componente con l'altra, ma per farlo è richiesta una fortissima conoscenza dei codici intrinseci al genere stesso. Rodriguez non possiede nulla di tutto ciò, in quanto colpevole di aver confezionato un film-fumetto che non va a parare assolutamente da nessuna parte, che non appartiene a nessun genere ma piuttosto ne attraversa molti superficialmente, e quando vuole sembrare profondo è perché incastra molte di queste superfici.
Altro errore clamoroso è la città stessa, che risulta essere semplicemente lo sfondo nel quale i personaggi agiscono. Non è una città viva, non pulsa, non urla; è semplicemente un contesto. Non bastano 2 inquadrature in croce di una strada di collina e di un bar malfamato con annesso viottolo per far vivere di vita propria una città: si pensi al miracolo che è la città di 'Blade Runner', che è il vero ed unico ricettacolo in cui converge tutta la storia di Scott.

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venerdì 10 giugno 2005

Recensione PICCOLI AFFARI SPORCHI

Recensione piccoli affari sporchi




Regia di Stephen Frears con Audrey Tautou, Chjwetel Ejiofor, Sergi López

Recensione a cura di peucezia

Stephen Frears regista inglese noto in Italia per pellicole come "My beautiful Laundrette", "Relazioni pericolose" (trasposizione filmica del romanzo di Cloderlos de Laclos) e "Sammy e Rosie vanno a letto" firma questa pellicola del 2002 con interpreti per la maggior parte non anglosassoni.
"PICCOLI AFFARI SPORCHI" è ambientato a Londra ma per chi è stato nella capitale britannica per turismo la città non risulterà affatto familiare. Frears si è fermato nella parte più sconosciuta della città, quella popolata dagli immigrati di ogni colore ed etnìa, inghiottiti e nascosti nei meandri di una città che può significare salvezza, libertà ma anche prigione ed inferno.

Gli inglesi, quelli autentici, a denominazione d'origine controllata si vedono solo in superficie, loro dominano, fanno lavorare gli altri e ne raccolgono i frutti ed anche l'elegante albergo dove il protagonista Okwe (Chiwetel Ejiofor, già visto in "Amistad", va a lavorare di notte, è visto solo di sfuggita, sempre con gli occhi di chi ci lavora, ripulisce le stanze e si occupa soprattutto dei lavori più sporchi, quelli che nessuno vuole fare.
A primo acchito il film è una storia di immigrati clandestini costretti a svolgere i lavori più umili (talvolta più di uno), sempre guardinghi, sempre spaventati.

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mercoledì 8 giugno 2005

Recensione PRISCILLA, LA REGINA DEL DESERTO

Recensione priscilla, la regina del deserto




Regia di Stephan Elliott con Terence Stamp, Hugo Weaving, Guy Pearce, Bill Hunter

Recensione a cura di Pasionaria (voto: 8,0)

Uno di quei film, questo, che ti lascia con un sorriso impresso sul viso, con un senso d?allegrezza nel cuore, con la consapevolezza di avere goduto di una storia semplice, ma coloratissima e divertente.

La commedia del giovane regista Stephan Elliot, uscita nel 1994, racconta il viaggio nei magnifici scenari del deserto australiano, di tre singolari personaggi, due drag queen e un anzianotto transessuale.
I tre protagonisti lasciano un difficile passato alle spalle (si licenziano dal locale di Sidney dove si esibiscono) e grazie ad un nuovo ingaggio in una cittadina del centro Australia, partono alla ricerca di un futuro che dia un senso, anche economico, alla loro disordinata vita.
Viaggiano su di una corriera sgangherata rosa shocking, battezzata appunto Priscilla, stracolma d?abiti di scena stravaganti, paillettes, piume di struzzo, parrucche.

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lunedì 6 giugno 2005

Recensione STAR WARS: EPISODIO III - LA VENDETTA DEI SITH

Recensione star wars: episodio iii - la vendetta dei sith




Regia di George Lucas con Ewan McGregor, Hayden Christensen, Natalie Portman, Ian McDiarmid, Samuel L. Jackson, Christopher Lee, Anthony Daniels, Kenny Baker, Peter Mayhew, Frank Oz, Jimmy Smits

Recensione a cura di mirko nottoli

Ce n'è voluta per arrivare al dunque, per capire cioè come il Jedi "prescelto" Anakin Skywalker abbia ceduto al famoso "lato oscuro" e si sia trasformato nel malefico Darth Vader (Lord Fener in italiano). Tranquilli, se eravate tra quelli che si chiedevano il perché di quella maschera, di quel respiro affannoso, di Yoda eremita, della fine degli Jedi, di quella bestia orripilante di Chewbacca, tutte le domande troveranno qui risposta. La questione però non è tanto questa, quanto piuttosto se le risposte valgono le domande. E la risposta è no! O almeno non del tutto.

Ultimo episodio di una trilogia inutile per i primi due terzi, "La vendetta dei Sith" risulta senza dubbio migliore rispetto agli altri in quanto, avvicinandosi all'obiettivo inseguito da troppo lontano, a giocare un ruolo preponderante è il fattore nostalgia, di chi il primo Star Wars se lo ricorda bene. Ecco allora che i nodi vengono al pettine e il tanto sospirato aggancio tra passato e futuro avviene, con un piccolo brivido che passa lungo la schiena quando nel finale ci ritroviamo in un paesaggio lunare noto, con un igloo e due soli all'orizzonte, i due gemelli separati alla nascita, Luke e Leila, la Morte Nera in costruzione, Lord Fener nella posizione che gli spetta, dritto e a braccia conserte. Ma legami affettivi a parte, l'ultima fatica di Lucas delude per la superficialità della trama e la semplicistica riduzione degli snodi narrativi cruciali ad eventi isolati e privati: scopriamo così che la congiura che coinvolge l'intera federazione interstellare è giostrata e messa in atto da un solo personaggio che di nascosto la fa in barba a tutti, e che l'attrattiva del maligno non è poi così attraente, visto che il prode Anakin vi cede più a fin di bene che di male, come se Lucas non se la fosse sentita di spingere il pedale fino in fondo (magari qualcuno avrebbe potuto accusarlo di immoralità!) e abbia pertanto deciso di lasciare una traccia di umanità nel suo eroe. Insomma il tutto si svolge in maniera molto casalinga e contingente, a dispetto della pretesa di universalità che la vicenda pretende di possedere, dimostrando il fallimento di Lucas come narratore, incapace di infondere alla sua storia una dimensione corale di ampio respiro.

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mercoledì 1 giugno 2005

Recensione QUO VADIS, BABY?

Recensione quo vadis, baby?




Regia di Gabriele Salvatores con Gigio Alberti, Angela Baraldi, Luigi Maria Burruano, Elio Germano, Andrea Renzi, Claudia Zanella

Recensione a cura di GiorgioVillosio

Il titolo, indubbiamente curioso, sembrerebbe idoneo al prossimo ciclo di "Vacanze di Natale"; si rifà, invece, ad un caposaldo del cinema di tutti i tempi: il celebratissimo "Ultimo Tango a Parigi" del grande Bertolucci.
Aprire con una espressa citazione cinematografica, chiarisce da subito i modi e gli intenti del regista con questo film: estendere la sua eclettica ricerca in nuovi ambiti, e provarci con un genere per lui inusitato, allacciandosi, per doverosa modestia, a precedenti illustri.
Limitato a questo, "Quo vadis, baby?" potrebbe risultare un semplice divertissement intellettuale, un esperimento fine a se stesso, e l'ennesima prova di bravura di un regista estremamente vario e mutevole; cui il forte impegno sociale delle origini, non impedisce di muoversi sul cammino estetizzante di frontiere sempre inesplorate.
Cinema per il cinema, dunque, ma non solo: in realtà "Quo vadis" propone in aggiunta una ricca serie di problematiche molto profonde dell'umano, della memoria, e degli abissi della nostra psiche.

Tratteremo dunque la materia del film sui due piani diversi, in successione, a partire dalla matrice puramente cinematografica. Qui è d'obbligo rifarsi al cinema espressionista in genere, in particolare tedesco; ricordando innanzitutto che il cinema, tra le varie arti coinvolte dal movimento, arrivava a tempo giusto, come "strumento tecnico" privilegiato, in aiuto a personaggi che si muovevano trasversalmente, da una musa all'altra (come Salvatores, che viene dal teatro ma si è pure "contaminato con pubblicità e TV"). L'espressionismo, poi, mirava a trascurare la descrizione oggettiva del reale, tentando di comunicare effetti emotivi intensi con modalità stilistiche, cromatiche e scenografiche, surreali e deformate; come succede infatti nel film, con effetti sonori particolari, il baluginare di sottili lame di luce nell'oscurità, e la visione "geometrica" di video e monitor. E, con grande onestà intellettuale, il buon Salvatores non si perita di nascondere i vari influssi, citando invece espressamente il decano Fritz Lang; come pure altrettanto il Bertolucci dell' "Ultimo tango a Parigi", leit motiv del titolo e dei protagonisti.
Un richiamo, volendo, si potrebbe fare anche ad Hitckok, maestro di un genere noir, non propriamente horror. (Grazie a Salvatores, per avere seguito questa linea senza fare... il Dario Argento!!).

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Recensione I COLORI DELL'ANIMA - MODIGLIANI

Recensione i colori dell'anima - modigliani




Regia di Mick Davis con Andy Garcia, Elsa Zylberstein, Hippolyte Girardot, Omid Djalili, Udo Kier, Eva Herzigova

Recensione a cura di mirko nottoli

La Parigi d'inizio secolo, la Belle époque, la Ruche, i cafè chantant, i ritrovi di letterati, poeti, artisti squattrinati. E' qui che intorno ad un tavolo troviamo Pablo Picasso, Max Jacob, Jean Cocteau, Diego Rivera e Amedeo Modigliani. Nulla di strano. Peccato solo che ogni volta che ci troviamo di fronte ad un gruppo di artisti al bar la sensazione è sempre quella della barzelletta dove ci sono un francese, un tedesco, un inglese e un italiano.
Sarà perché se ne stanno lì con il loro bel nome e cognome stampigliato in fronte come fosse una didascalia, come se nel nome già si esaurisse tutta la loro complessità interiore, riducendoli a figure bidimensionali senz'anima, macchiette contraddistinte da due nomi propri la cui fama desta sempre facile scalpore. Romanzando anche il non romanzabile, saturando i toni al limite del feuilleton, scolpendo ritratti con la scure, prendendosi libertà illegittime, l'operazione de "I colori dell'anima" è radicale e impietosa. Pablo Picasso sembra la parodia di Al Capone, con Jacob e Cocteau a fargli da scagnozzi, dispettoso e pronto a cogliere ogni provocazione quando invece era lui a provocare, genio assoluto e inarrivabile. Allo stesso modo Modigliani diventa lo stereotipo del "peintre maudit", romantico e ribelle, che insieme ad altri due classici "peintre maudit", Maurice Utrillo e Chaim Sautine, se ne va in giro di notte come una banda di rubagalline. Che problemi ha Modì, che pronuncia frasi sconnesse (io amo la pioggia), passa le notti sdraiato in terra a scrivere, bere vino e accarezzare un gatto, che urla, matto d'un italiano, gigioneggiando in controluce per le vie della città? Forse la tubercolosi? Una figlia che non può mantenere? Delle responsabilità difficili da prendere? E l'arte? L'arte sembra qualcosa di marginale, di secondario, un accessorio pittoresco da bohémien, non certo quel bisogno che assorbe completamente tutte le energie, quell'esigenza in cui io ci rischio la vita e la mia ragione vi si è consumata per metà, come scrisse Van Gogh, due giorni prima di spararsi una pallottola in corpo.

In questo tripudio di stucchevolissimi luoghi comuni e drammatizzazioni d'eventi degni della peggior soap, non ci viene risparmiato neppure Utrillo legato con quattro catene in una cella di manicomio, immerso in una bella luce verde spettrale, e il vecchio Auguste Renoir con le sue dite anchilosate. Ci mancavano solo i pennelli legati ai polsi, Van Gogh che si taglia l'orecchio e lo porta alla prostituta, Caravaggio che sguaina la spada e si azzuffa con chicchessia, Giorgio Morandi nella sua stanza di via Fondazza a Bologna che dipinge una bottiglia, Toulouse-Lautrec che beve assenzio insieme a Valentin Le Désossé, Michelangelo che perde la vista mentre dipinge la Sistina, Andy Warhol che arriva allo Studio 54 con Grace Jones e Bianca Jagger.

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Recensione LE CROCIATE

Recensione le crociate




Regia di Ridley Scott con Orlando Bloom, Eva Green, Liam Neeson, Jeremy Irons, Brendan Gleeson, Edward Norton, Marton Csokas, Alexander Siddig, Michael Fitzgerald, David Thewlis

Recensione a cura di mirko nottoli

Baliano è un fabbro, corroso dal dolore per il suicidio della moglie. Il riscatto gli si presenta nell'improvviso ritorno del padre, Goffredo di Ibelin, che se lo porta con sé alle Crociate. Alla sua morte il giovane Baliano erediterà le terre del padre, si farà ben volere dalla popolazione e difenderà Gerusalemme dall'assalto del feroce Saladino.

Ridley Scott c'ha preso gusto con cavalli, cavalieri e battaglie all'arma bianca. Non è l'unico ultimamente. Probabilmente nostalgico del successo del suo ultimo film ci riprova prendendo un po' da Il Gladiatore, un po' da Troy, un po' da Alexander e mescolando tutto ben bene. Nello specifico: la fotografia azzurrata e i campi di grano da Il Gladiatore; le battaglie e i saraceni mille anni dopo da Alexander (senza Raz Degan però); le acconciature e una buone dose di kitsch da Troy.

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