mercoledì 1 giugno 2005

Recensione I COLORI DELL'ANIMA - MODIGLIANI

Recensione i colori dell'anima - modigliani




Regia di Mick Davis con Andy Garcia, Elsa Zylberstein, Hippolyte Girardot, Omid Djalili, Udo Kier, Eva Herzigova

Recensione a cura di mirko nottoli

La Parigi d'inizio secolo, la Belle époque, la Ruche, i cafè chantant, i ritrovi di letterati, poeti, artisti squattrinati. E' qui che intorno ad un tavolo troviamo Pablo Picasso, Max Jacob, Jean Cocteau, Diego Rivera e Amedeo Modigliani. Nulla di strano. Peccato solo che ogni volta che ci troviamo di fronte ad un gruppo di artisti al bar la sensazione è sempre quella della barzelletta dove ci sono un francese, un tedesco, un inglese e un italiano.
Sarà perché se ne stanno lì con il loro bel nome e cognome stampigliato in fronte come fosse una didascalia, come se nel nome già si esaurisse tutta la loro complessità interiore, riducendoli a figure bidimensionali senz'anima, macchiette contraddistinte da due nomi propri la cui fama desta sempre facile scalpore. Romanzando anche il non romanzabile, saturando i toni al limite del feuilleton, scolpendo ritratti con la scure, prendendosi libertà illegittime, l'operazione de "I colori dell'anima" è radicale e impietosa. Pablo Picasso sembra la parodia di Al Capone, con Jacob e Cocteau a fargli da scagnozzi, dispettoso e pronto a cogliere ogni provocazione quando invece era lui a provocare, genio assoluto e inarrivabile. Allo stesso modo Modigliani diventa lo stereotipo del "peintre maudit", romantico e ribelle, che insieme ad altri due classici "peintre maudit", Maurice Utrillo e Chaim Sautine, se ne va in giro di notte come una banda di rubagalline. Che problemi ha Modì, che pronuncia frasi sconnesse (io amo la pioggia), passa le notti sdraiato in terra a scrivere, bere vino e accarezzare un gatto, che urla, matto d'un italiano, gigioneggiando in controluce per le vie della città? Forse la tubercolosi? Una figlia che non può mantenere? Delle responsabilità difficili da prendere? E l'arte? L'arte sembra qualcosa di marginale, di secondario, un accessorio pittoresco da bohémien, non certo quel bisogno che assorbe completamente tutte le energie, quell'esigenza in cui io ci rischio la vita e la mia ragione vi si è consumata per metà, come scrisse Van Gogh, due giorni prima di spararsi una pallottola in corpo.

In questo tripudio di stucchevolissimi luoghi comuni e drammatizzazioni d'eventi degni della peggior soap, non ci viene risparmiato neppure Utrillo legato con quattro catene in una cella di manicomio, immerso in una bella luce verde spettrale, e il vecchio Auguste Renoir con le sue dite anchilosate. Ci mancavano solo i pennelli legati ai polsi, Van Gogh che si taglia l'orecchio e lo porta alla prostituta, Caravaggio che sguaina la spada e si azzuffa con chicchessia, Giorgio Morandi nella sua stanza di via Fondazza a Bologna che dipinge una bottiglia, Toulouse-Lautrec che beve assenzio insieme a Valentin Le Désossé, Michelangelo che perde la vista mentre dipinge la Sistina, Andy Warhol che arriva allo Studio 54 con Grace Jones e Bianca Jagger.

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