venerdì 25 luglio 2008

Recensione L'IMPERATORE DI ROMA

Recensione l'imperatore di roma


Regia di Nico D'Alessandria con Gerardo Sperandini, Giuseppe Amodio, Fulvio Meloni

Recensione a cura di Hal Dullea

La Roma degradata che fu già raccontata da Pasolini, squallida periferia di rovine, immondizie, drogati e prostitute, è attraversata da Gerry (G. Sperandini che fa se stesso), biondo vichingo tossicodipendente e schizofrenico che si proclama imperatore (e camminatore) d'una città senza più domìni né dignità. Gerry, nel delirio d'una notte insonne, s'immagina d'essere un sovrano dell'Urbe tornato a portare la vita dopo la fine del mondo.

Faticosamente girato nell'arco di cinque anni, "L'imperatore di Roma" è il film d'esordio di Nico D'Alessandria, cineasta indipendente della capitale. Presentato in pochissime sale e fugacemente in alcuni Festival, è stato in cartellone ad "Anteprima" 1989 di Bellaria. "Lo girai muto, in 35 mm, eravamo in tre, io, l'operatore Roberto Romei e Giuliana Mancini, lo sonorizzai dopo con le voci dei protagonisti, e lo montai personalmente. La pellicola era la più economica, la ORWO, che mi feci mandare dalla Germania Est. Con 6000 metri feci il film. Quando iniziai, il protagonista Gerardo Sperandini era internato all'ospedale psichiatrico di Aversa, dove il padre, maresciallo di polizia, lo aveva fatto rinchiudere andandosi a raccomandare personalmente dal giudice ("Per un po' di tempo" - diceva - "perché si riprenda" - come ho raccontato nel film) e mi fu affidato dal magistrato di sorveglianza... Abbiamo vissuto insieme per 30 giorni, il periodo delle riprese, anche di notte perché era assolutamente rischioso lasciarlo da solo. Gerry, cioè Gerardo Sperandini, è morto di recente, 20 giorni prima di Vittorio Cavallo [il protagonista de "L'amico immaginario", secondo lungometraggio del regista, girato nel 1994]. Ogni tanto, o meglio spesso, mi vengono alla mente i loro gesti, i loro modi di fare; per esempio Gerry beveva la birra, era sempre come se suonasse la tromba...".

[...]

Leggi la recensione completa del film L'IMPERATORE DI ROMA su filmscoop.it

Recensione DENTI

Recensione denti




Regia di Mitchell Lichtenstein con Jess Weixler, Hale Appleman, Paul Galvan, Julia Garro, John Hensley, Trent Moore, Josh Pais Ava Ryen Plumb, Ashley Springer

Recensione a cura di paul (voto: 8,0)

Arriva sugli schermi italiani "Denti", già piccolo cult tra gli appassionati di genere e caso cinematografico del cinema indipendente 2008: etichettato da molti come horror puro, ma in realtà da identificarsi più come un ulteriore manifesto femminista portato sul grande schermo, una via di mezzo tra "Ms 45" di Abel Ferrara e "Non violentate Jennifer".
Il regista, Mitchell Lichtenstein, qui al suo debutto cinematografico, noto ai più come attore in ruoli importanti come quello nel film di Robert Altman, "Streamer" (con il quale vinse in qualità di Miglior Attore al Festival di Venezia nel 1983) e nel film di Ang Lee "The wedding banquet", ci tiene a precisare che "Denti" non è e non vuole essere solamente un horror, ma una pellicola grottesca, imperniata di humour e di metafore.
Quale infatti essa è.

La trama è molto semplice: Dawn (nome non casuale, sebbene il personaggio appaia "quasi" normale e solo lontanamente parente in quanto ad emarginazione alle note Carrie di De Palma o Zoe Lund de "L'Angelo della vendetta") è una studentessa di liceo che si impegna, anche pubblicamente, a preservare la propria e dell'altrui castità all'interno di un comitato scolastico con ideali analoghi; fino a quando, eccessivamente "forzata" da un suo compagno di classe ad avere un rapporto sessuale, scopre a sue spese di avere una vagina dentata.
Mentre Dawn indaga su antichi miti che raccontano come quella di una vulva coi denti sia una paura ancestrale più riguardante gli uomini, facciamo anche conoscenza di Brad, il burbero fratellastro, e della famiglia più o meno problematica della nostra eroina.
Dawn, inseguendo i miti, realizza che per riuscire a risolvere il proprio problema ha bisogno di un cavaliere, un eroe che sappia affrontare il nodo della questione (ovvero, che possa penetrarla) senza paura al riguardo; qualcuno che possa amarla sul serio.
Ma quando scopre che il ragazzo di cui si è invaghita le ha tirato in realtà un brutto scherzo, userà il suo "strumento" proprio per vendicarsi di quel mondo maschile che tanto usa il gentil sesso perchè "vuole solo quella cosa lì" (e in questo caso, di contraltare, è d'obbligo la citazione,a discolpa del genere maschile, del sempreverde "Quell'oscuro oggetto del desiderio", di Luis Bunuel).

[...]

Leggi la recensione completa del film DENTI su filmscoop.it

mercoledì 23 luglio 2008

Recensione LUCI DELLA CITTA'

Recensione luci della citta'




Regia di Charles Chaplin con Charles Chaplin, Harry Myers, Virginia Cherrill, Florence Lee

Recensione a cura di emans (voto: 10,0)

"Luci della città", una delle più note opere di Charlie Chaplin, viene proiettato per la prima volta nel 1931, quando il cinema "sonoro" ha ormai sostituito il "muto".
Molti artisti che sfruttavano alla perfezione quel cinema fatto solo di immagini iniziano un rapido declino, non riuscendo a replicare il successo guadagnato durante l'epoca del muto (per tutti valga l'esempio di Buster Keaton); Chaplin invece, malgrado il fratello Sydney avesse provato a dissuaderlo, era deciso a continuare a girare film muti, credendo che il sonoro avesse vita breve. Egli peraltro non vedeva nel "vagabondo" delle possibilità "vocali": per far notare il suo disagio sociale e per far sorridere il pubblico non riteneva necessario il parlato: la matrice dalla quale era nato era muta come gli stracci che portava.

Furono diversi i problemi da affrontare per portare avanti questa coraggiosa scelta.
Dall'esplosione del sonoro, arrivata gia da tre anni, gli attori avevano quasi del tutto abbandonato le tecniche recitative per pantomime; oltretutto, Chaplin dovette affronatre anche la difficoltà di trovare un'attrice adatta ad interpretare il ruolo della protagonista, una ragazza che doveva essere bella e risultare allo stesso tempo credibile come cieca. Fu quasi per caso che Chaplin conobbe Virginia Cherrill; la scelse subito malgrado questa non avesse nessun tipo di esperienza. A tale proposito, Chaplin ebbe a dichiarare: "E' esattamente ciò che voglio, se sapessi recitare dovresti dimenticarti tutto quello che hai imparato. Io lavoro a modo mio, ed è diverso da tutti gli altri".
Il rapporto tra i due fu però assai burrascoso, tanto che nel bel mezzo del film la Cherrill venne licenziata per essere arrivata in ritardo alle prove.
Per sostituirla, Chaplin arruolò quindi Georgia Hale, già protagonista de "La febbre dell'oro", e con lei girò la famosa scena finale (quella che secondo il regista era la peggior scena girata dalla Cherrill); si rese ben presto conto però del tempo che avrebbe perso a rigirare tutte le scene già definite e soprattutto dei metri di pellicola che aveva gia utilizzato, e fu pertanto costretto a richiamare la Cherrill.
L'ostacolo più grande Chaplin lo trovò però nel girare la scena dell'incontro tra i due protagonisti: come far passare un semplice vagabondo senza soldi per un riccone che non accetta il resto da una fioraia cieca? Passarono mesi prima che si arrivasse alla soluzione; mesi in cui la scena venne ripetuta fino alla nausea, prima che al regista venisse un'idea efficace.
Fu un periodo difficile per tutto il cast, costretto a girare e ri-girare quella sequenza, fino a quando Chaplin non ebbe l'idea giusta: la portiera di un'auto sbatte vicino al luogo dell'incontro, la ragazza cieca cerca di dare il resto ma sentendo la macchina allontanarsi capisce che il suo cliente è un benestante che gli ha fatto un regalo.
Guardando questa sequenza, che dura in effetti solo 70 secondi, non si può non pensare a tutto il tempo passato dal regista per trovare la soluzione; tempo in cui avrà avuto modo di rivalutare il "sonoro", che gli avrebbe dato facilmente la possibilità di risolvere questa incombenza. Ma alla fine a vincere saranno la sua testardaggine e il suo genio.
E' poi formidabile come Chaplin trasformi una scena cosi drammatica e commovente in una fragorosa risata dovuta ad una secchiata d'acqua in pieno volto: in pochi secondi stravolge i sentimenti dello spettatore come pochi al mondo riescono a fare.

[...]

Leggi la recensione completa del film LUCI DELLA CITTA' su filmscoop.it

venerdì 18 luglio 2008

Recensione I TARTASSATI

Recensione i tartassati




Regia di Steno con Cesare Fantoni, Cathia Caro, Louis De Funès, Aldo Fabrizi, Totò

Recensione a cura di peucezia (voto: 7,5)

La coppia Totò-Fabrizi, già sperimentata in altre occasioni, riprende il tema della "guardia" e del "furfante" come nel precedente "Guardie e ladri", girato da Monicelli nell'immediato dopoguerra; se però nel film di Monicelli Totò era giustificato da una contingente situazione di fame e disoccupazione, in questa pellicola di Steno la sua posizione è decisamente negativa.
Il comico napoletano interpreta infatti il ruolo di un ricco commerciante di stoffe e capi d'abbigliamento, ostinato nella sua decisione di non versare le tasse all'erario coadiuvato da un commercialista furbo e disonesto (il francese Louis de Funés, non ancora celebre nel nostro paese). Purtroppo incontra sulla sua strada l'integerrimo e burbero finanziere interpretato da Aldo Fabrizi, che ostacolerà i suoi piani.
Totò è quindi il cialtrone, l'italiano finto scaltro che vuole godere dei privilegi ottenuti grazie alle sue capacità (l'attività di commerciante) ma nello stesso tempo rifiuta di dare al suo prossimo, rappresentato in questo caso dallo Stato, mentre invece Fabrizi è l'Istituzione, burbera ma anche paterna, che tenta di dare un correttivo a chi vuole scantonare.

La storia è fondamentalmente basata sui siparietti comici tra i due protagonisti, con l'intermezzo rosa della relazione amorosa tra i loro rampolli. Tra i caratteristi, il ruolo del francese de Funés, anche se limitato a pochi interventi, è ben inserito nella vicenda: il comico d'oltralpe è l'antitesi dell'esperto di finanze, ma rappresenta il non plus ultra dell'arte di arrangiarsi condita in salsa più colta; l'uomo sfrutta l'ignoranza e la scarsa affezione ai suoi doveri di cittadino del Pezzella per guadagnare più che aiutare l'uomo a portare avanti un regime economico adeguato.

[...]

Leggi la recensione completa del film I TARTASSATI su filmscoop.it

giovedì 17 luglio 2008

Recensione L'ARGENT

Recensione l'argent




Regia di Robert Bresson con Christian Patey, Caroline Lang, Sylvie van den Elsen, Michel Briguet

Recensione a cura di Hal Dullea

Norbert e il suo amico Martial, rampolli di famiglie della buona borghesia, comprano una cornice nel negozio di un fotografo e la pagano con un biglietto da 500 franchi falso. Yvonarge, addetto al trasporto del gasolio da riscaldamento, riceve il biglietto in pagamento di un carico. Ignaro, al bar paga con quello un cognac e lo arrestano. Al processo, il fotografo, tacitato con il denaro della madre di Norbert, dichiara di non aver mai visto Yvon. Lo conferma il commesso Lucien (in realtà è stato lui a consegnare la banconota a Yvon, ma anch'egli è stato pagato). Rimesso in libertà, Yvon (che ha una moglie, Elise, e una figlia, Yvette) non riesce a trovare lavoro. Accetta allora di fare l'autista per una rapina in banca. Ma il colpo fallisce. Arrestato, Yvon è condannato a tre anni di carcere. E in carcere finisce anche Lucien.
Licenziato per aver alterato i cartellini dei prezzi intascando la differenza, il commesso infedele trattiene le chiavi del negozio e svuota la cassaforte; dopodiché svaligia alcuni bancomat. Una lite, intanto, fa finire Yvon in cella di rigore per trenta giorni, durante i quali gli muore la figlia. Tenta il suicidio. Riportato dall'ospedale in carcere, incontra Lucien che si offre di aiutarlo a fuggire, per riparare al male che gli ha fatto. Ma Yvon, che è stato abbandonato dalla moglie, rifiuta. Quando esce dal carcere, va in un alberghetto della periferia parigina, ne uccide i proprietari e ruba quel po' di denaro che trova. Poi segue una donna che ha appena ritirato la pensione. Nonostante che Yvon confessi il suo crimine, è accolto nella casa dove la pensionata si prende cura del vecchio padre, di due sorelle, del cognato e del nipote paralitico.
Improvvisamente, una sera, Yvon impugna una scure e uccide tutti i componenti della famiglia che lo ospita. Poi va a costituirsi.

Robert Bresson (1907-1999), conseguita la laurea in filosofia, si accosta all'arte cinematografica assistendo alla lavorazione di alcuni film. Nel tempo libero dipinge. Dopo un anno e mezzo di prigionia in Germania, la ricerca della Grazia diviene una costante, alla quale egli tende con una graduale purificazione del segno registico: il suo cinema è fatto di progressive privazioni.
Al di fuori d'ogni filone e genere, Bresson mira a una forma d'architettura filmica così rigorosa da superare il concetto di rappresentazione: la sua non è "mise en scène" bensì "mise en ordre". Spesso infatti il cuore dell'azione avviene fuori campo, mentre le immagini riprendono una realtà autonoma, incurante del sussistere delle figure umane.

[...]

Leggi la recensione completa del film L'ARGENT su filmscoop.it

martedì 15 luglio 2008

Recensione ATTO DI FORZA

Recensione atto di forza




Regia di Paul Verhoeven con Arnold Schwarzenegger, Rachel Ticotin, Sharon Stone, Ronny Cox, Michael Ironside, Marshall Bell, Mel Johnson Jr., Michael Champion, Roy Brocksmith, Ray Baker, Rosemary Dunsmore

Recensione a cura di Giordano Biagio (voto: 7,5)

"Atto di forza" ("Total Recall"), made in USA, è uno science fiction a colori di indubbia qualità, con un montaggio sopra le righe, sempre ben sincronizzato con lo sviluppo narrativo voluto dall'autore ed in linea con quanto la sceneggiatura suggerisce in termini di scorrimento e rapidità d'azione.
Con questa pellicola Verhoeven dimostra l'importanza del montaggio, inteso nella sua accezione più classica come sintassi della grammatica per immagini, e ci invita a considerarlo non solo come faticoso lavoro tecnico, privo di significativi risvolti artistici, ma un modo, a volte anche geniale, di migliorare l'estetica dell'insieme del film.

La pellicola si afferma subito nel mercato cinematografico internazionale in virtù di diversi e importanti risultati estetici e spettacolari, riscontrabili soprattutto in quelle scene che brillano per degli effetti a sorpresa misti a meraviglia, come le sequenze che mostrano lo scorrere degli scheletri dei passeggeri della metropolitana su uno gigantesco schermo a raggi x, che ha compiti di prevenire l'ingresso armato dei passeggeri, o il gentile tassista robot, un po' psicologo, che dialoga con i viaggiatori consolandone anche i malumori, nonchè la scena del controllo su Marte dei passeggeri arrivati dalla terra, in cui Quaid (Schwarzenegger) travestito da donna per motivi di missione segreta, insospettisce con il suo strano comportamento il sorvegliante, che lo costringe a strapparsi dal volto la maschera elettronica dallo sguardo femminile, creando nei passanti presenti nel film e negli spettatori un senso di stupefazione indimenticabile.
Di rilievo nel film anche l'effetto estetico creato dalla trama, sempre ben tirata, in forte tensione, con numerose sequenze sceniche in stretto parallelo con il motivo centrale del racconto, che si sciolgono felicemente nelle fasi finali del film, contribuendo notevolmente all'elevazione del piacere legato all'esito della vicenda principale.

[...]

Leggi la recensione completa del film ATTO DI FORZA su filmscoop.it

venerdì 11 luglio 2008

Recensione LA CONVERSAZIONE

Recensione la conversazione




Regia di Francis Ford Coppola con Gene Hackman, John Cazale, Allen Garfield, Frederic Forrest, Cindy Williams, Michael Higgins, Elizabeth MacRae, Teri Garr, Harrison Ford, Robert Shields, Robert Duvall

Recensione a cura di Hal Dullea

L'esperto in intercettazioni Harry Caul riceve dal segretario di un uomo d'affari, che sospetta la moglie di infedeltà, l'incarico di procurargli le prove registrando quel che si dicono la donna e il suo amante. Con l'aiuto di un apparecchio d'ascolto e di tre collaboratori, Harry intercetta una loro conversazione tra la folla di un parco. Riascoltando più volte la registrazione, si convince però che la coppia spiata corre un grave pericolo ed esita a consegnare i nastri. Ma qualcuno glieli trafuga. Per prevenire la tragedia, Harry corre all'albergo dove sa che i due amanti si incontreranno. Il dramma esplode ugualmente, ma la vittima è il marito della donna, caduto in una diabolica trappola tesagli - con l'aiuto involontario di Harry - dalla moglie, dall'amante e dal segretario. L'uomo viene dato per morto in un incidente e Harry viene ammonito a stare in guardia. Consapevole di essere a sua volta controllato, Harry smonta pezzo per pezzo il proprio appartamento nella vana ricerca di qualche microfono nascosto chissà dove.

"La conversazione" è un thriller a sfondo filosofico che gioca d'anticipo sui tempi e sulle mode. Il film è stato realizzato tra il primo e il secondo "The Godfather" ("Il padrino", 1972-1974) con una formula di produzione mista: un'associazione di autori (Coppola, Bogdanovich e Friedkin che fondano la Directors Company) e una major (Paramount), sintesi originale tra ideologia all'europea e capitale americano, tra realismo narrativo di genere e astrazione poetica d'arte.
Ne risulta un film complesso ma condotto con rigore e coerenza all'insegna di un'alta dignità spettacolare: informazione e spettacolo si saldano, come nelle meravigliose macchine dell'eros tecnologico di Harry Caul.
La Palma d'oro a Cannes premia questa linea. Il film è interpretato da un attore insolito nel clan coppoliano: Gene Hackman, "ideale per quel ruolo - sottolinea il regista - per la banalità del suo fisico, elemento fondamentale per il personaggio. È l'uomo invisibile per antonomasia. Impiega il suo tempo a spiare gli altri, ed è talmente ossessionato di essere osservato a sua volta che ha praticamente cessato di vivere, si è ridotto al nulla".

[...]

Leggi la recensione completa del film LA CONVERSAZIONE su filmscoop.it

martedì 8 luglio 2008

Recensione DR. PLONK

Recensione dr. plonk




Regia di Rolf De Heer con Nigel Lunghi, Paul Blackwell, Magda Szubanski

Recensione a cura di dario carta

E' l'anno 1907 ed il Dr. Plonk, grande scienziato ed inventore, scopre che il mondo avrebbe cessato di esistere cento anni dopo.
Per questa sua scoperta viene deriso e vilipeso dai politici e dai burocrati, che gli chiedono una prova che Plonk non sa provare, se non mettendo a disposizione i propri complicati calcoli.
Persino il suo fido aiutante, il sordomuto Paulus, lo schernisce e Plonk si ritrova solo a sopportare il peso dell'angosciante verità. Il suo genio però si accende, come fa la lampadina che porta in tasca ogniqualvolta una nuova idea nasce dalla sua genialità, e Plonk decide di costruire una efficace macchina del tempo (una cassa di semplici assi, in realtà), per portare nel 1907 le prove dal futuro.
E' così che, a scansione differita, Plonk, il suo aiutante Paulus con il cagnino Tiberius ossessionato dalle palline, la signora Plonk ("l'affascinante signora Plonk") e persino il Primo Ministro Stalk, visitano il futuro, trovandolo, però, ben diverso da quanto si aspettavano.

"Dr. Plonk" è una divertente commedia muta e in bianco e nero, concepita dallo sceggiatore/regista Rolf De Heer nel 2005, in occasione del ritrovamento in una cella frigorifera di circa 700 metri di vecchia pellicola vergine.
L'immagine di voler far passare questi avanzi con ogni probabilità rovinati e scaduti, attraverso una macchina da presa, dando l'effetto di un vecchio film dell'epoca del muto, ha convinto il regista a confezionare questo film dagli aspetti insoliti.

[...]

Leggi la recensione completa del film DR. PLONK su filmscoop.it

Recensione IL LADRO

Recensione il ladro




Regia di Alfred Hitchcock con Henry Fonda, Vera Miles, Anthony Quayle, Harold J. Stone

Recensione a cura di kowalsky (voto: 8,0)

Ispirato a un fatto realmente accaduto, "Il ladro" è uno dei più intensi e profondi film "imperfetti" di Hitchcock, e una delle più abili requisitorie contro la giustizia del regista inglese.
E' ancora difficile collocarlo tra i suoi massimi capolavori, eppure possiede una forza d'impatto, un pathos, un coraggio che forse superano il ricordo di opere tecnicamente inattaccabili e artisticamente più elevate, fors'anche più fredde e cerebrali.
Jodorowsky, regista di film-culto come "La montagna sacra" e scrittore di un certo successo, era un detrattore di Hitchcock: egli considerava (ma non era il solo) la suspance un espediente prefabbricato per attirare il pubblico, analizzando con superficialità un'aspetto non secondario del cinema di Hitch, la "finzione reale e artificiale" come prospettiva della realtà sociale.

"Il ladro" affronta uno dei temi prediletti del regista, la storia di un uomo che viene accusato ingiustamente sulla base di indizi e testimonianze, privato - attraverso un complotto - di tutte le sue difese.
L'uomo è Manny Balestrero, un onesto musicista marito fedele e padre di famiglia, che viene erroneamente indicato come l'autore di una rapina.
Messo in carcere e processato, passa attraverso una vera e propria via crucis, anche quando il vero colpevole viene arrestato e Manny rimesso in libertà: la prova d'innocenza che sembrava indimostrabile man mano che il tempo passava così come la morte di due potenziali testimoni avevano seriamente minato i nervi della moglie di Manny, tanto da richiederne il ricovero in una clinica per malattie nervose (fra l'altro alcuni errori procedurali resero necessario un secondo procedimento del processo).

[...]

Leggi la recensione completa del film IL LADRO su filmscoop.it

lunedì 7 luglio 2008

Recensione I 400 COLPI

Recensione i 400 colpi




Regia di Francois Truffaut con Jean-Pierre Léaud, Claire Maurier, Albert Rémy, Georges Flamant, Patrick Auffray

Recensione a cura di Hal Dullea

Truffaut (1932-1984): pessimi rapporti con le istituzioni scolastiche, due genitori impegnati nel lavoro. Poi, l'incontro con André Bazin. Fonda un cineclub durante una fuga dalla famiglia. Ripreso, è condotto in riformatorio, da cui lo fa uscire Bazin che, dopo un'infelice esperienza fra le truppe in Indocina, gli procura un lavoro prima al servizio cinematogra co del Ministero dell'Agricoltura, poi come redattore nella rivista da poco fondata: i "Cahiers du cinéma". A partire da questi spunti autobiografici, nel 1959 Truffaut dirige il suo primo lungometraggio, "Les quatre-cents coups" ("I quattrocento colpi").
Presentato a Cannes, il film viene premiato con il Palmarès per la regia. Il suo successo serve a lanciare la nouvelle vague e i suoi autori. Il titolo (mal tradotto nell'edizione italiana) vuol dire "fare il diavolo a quattro".

Antoine Doinel vive con i genitori, che non lo capiscono e lo trascurano, in un piccolissimo appartamento di Parigi. Ogni gesto o azione di Antoine è evidentemente una protesta e una difesa dal mondo ostile che lo circonda. Anche a scuola Antoine si trova male e ha un compagno per i suoi piccoli misfatti, René. Un giorno Antoine inventa la morte della madre per giustificare un'assenza da scuola, ma viene scoperto e fugge di casa. Ritrovato, il ragazzo riceve dai genitori dimostrazioni di affetto e disponibilità che lo inducono a promettere di essere bravo e buono; però a scuola un professore lo accusa di aver copiato il tema e Antoine scappa di nuovo a casa di René. I due rubano una macchina per scrivere dall'ufficio del padre di Antoine. Non riuscendo a rivenderla, saranno scoperti proprio quando la riportano nell'ufficio. Antoine è arrestato e affidato a un riformatorio, ma durante una partita di pallone scappa e, come aveva sempre sognato, arriva al mare che non aveva mai visto.

[...]

Leggi la recensione completa del film I 400 COLPI su filmscoop.it

venerdì 4 luglio 2008

Recensione A TEMPO PIENO

Recensione a tempo pieno




Regia di Laurent Cantet con Aurélien Recoing, Karin Viard, Serge Livrozet, Jean-Pierre Mangeot, Monique Mangeot, Nicolas Kalsch, Marie Cantet, Félix Cantet, Maxime Sassier, Elizabeth Joinet, Nigel Palmer, Christophe Charles, Didier Perez, Olivier Lejoubioux, Paulin De Laubie, Jamila

Recensione a cura di Mimmot

Laurent Cantet è un affermato regista e sceneggiatore francese che ama analizzare il mondo del lavoro e dei legami familiari; due temi che sono il leit motiv del suo cinema d'autore e d'impegno, dimostrando di saperli raccontare senza fronzoli e senza retorica, ma con precisione e autenticità, e di saper fare grande cinema anche trattando i semplici problemi della consuetudine, che eleva verso una dimensione di universalità.
Nel 1998 ha diretto il suo primo lungometraggio, "Risorse umane", sui problemi del lavoro e sulle conseguenze della riduzione dell'orario di lavoro in fabbrica, che gli è valso l'appellativo di 'Ken Loach francese' da parte di numerosi giornalisti e critici cinematografici.
In reltà Cantet, a differenza di Loach, si rivolge al mondo del lavoro più con uno sguardo esistenziale che politico, ponendosi e proponendoci una lucida riflessione sul rapporto tra uomo e lavoro, ma anche tra lavoro e tempo (come ci suggerisce il titolo originale di questo film, "L'emploi du temps"), il tempo degli impegni professionali, che condiziona e scandisce le nostre giornate e quindi il nostro vivere quotidiano, inconcepibile e inimmaginabile senza un lavoro.
Perdere il lavoro, dunque, non è solo una sconfitta personale, ma anche un fattore destabilizzante della quotidianità, che ci proietta in una sorta di vita che non c'è o che non ci appartiene.

Partendo da un fatto di cronaca accaduto nella provincia francese qualche anno fa (un uomo per anni, dopo aver perso il lavoro, facendosi passare per chirurgo di fama, aveva ingannato parenti ed amici estorcendo loro denaro con investimenti fasulli. Scoperto aveva fatto una strage in famiglia), Cantet mette in scena la parabola di un uomo, Vincent (affermato consulente aziendale quarantenne, benestante, brava persona, buon marito e buon padre di famiglia), che perde il posto di lavoro e si inventa una nuova, pericolosa doppia vita.

[...]

Leggi la recensione completa del film A TEMPO PIENO su filmscoop.it

Recensione ROVINE

Recensione rovine




Regia di Carter Smith con Shawn Ashmore, Laura Ramsey, Jonathan Tucker, Joe Anderson, Jena Malone, Sergio Calderón, Jesse Ramirez, Bar Paly

Recensione a cura di L.P. (voto: 8,0)

La stagione che si sta concludendo è stata fondamentale per il cinema dell'orrore. Accanto al solito proliferare di seguiti e remake nelle sale e nel circuito home video, un piccolo gruppo di film e registi, provenienti da vari Paesi e non solo dagli Stati Uniti, hanno tentato, con alterne fortune, di intraprendere un percorso originale e personale all'interno del genere.

Non solo l'horror indipendente ma anche quello mainstream hanno avuto il merito di proporre pellicole di un certo spessore e coraggio, film adulti, maturi, non edulcorati e non sottoposti alla dittatura del lieto fine a tutti i costi; basti pensare a quel piccolo miracolo di "The Mist", solo per fare un esempio.

[...]

Leggi la recensione completa del film ROVINE su filmscoop.it

mercoledì 2 luglio 2008

Recensione COLPO DI SPUGNA

Recensione colpo di spugna




Regia di Bertrand Tavernier con Isabelle Huppert, Philippe Noiret, Stéphane Audran, Jean-Pierre Marielle, Eddy Mitchell, Guy Marchand, Irène Skobline, Michel Beaune, Jean Champion, Victor Garrivier, Gérard Hernandez, Abdoulaye Diop, Daniel Langlet, François Perrot, Raymond Hermantier

Recensione a cura di Hal Dullea

Lucien Cordier, apatico tutore della legge in un remoto e sperduto angolo dell'Africa coloniale, è puntualmente sbeffeggiato dalla moglie Huguette, stanca di un simile straccione di marito e sfacciatamente attaccata al presunto fratello Nono, col quale giace impudicamente davanti agli occhi del coniuge peraltro immunizzato dalla più profonda indifferenza. In strada, fra la ressa delle persone, Lucien viene ugualmente irriso dai due tenutari del bordello, Le Péron e Leonelli, che lo scherniscono in ogni modo trattandolo come un burattino. Anche nell'ufficio del principale, il sergente Chavasson, responsabile del capoluogo, Cordier è oggetto di disonorevoli dileggi. Solo la graziosa Rose, moglie del brutale negriero Mercaillou, sembra prendersi cura di lui concedendogli senza difficoltà il proprio corpo delizioso. Almeno fino all'arrivo della nuova maestra, Anne, altrettanto graziosa ma non tanto cinicamente amorale come Rose, eppure anche lei inspiegabilmente attratta da quest'individuo che nasconde dietro la propria codardia soltanto una forma di universale disillusione. Il loro incontro fortuito sul treno dà luogo a un'intesa inaspettata, dietro la quale si indovina in lei l'intenzione ferma di penetrare oltre la scorza di pusillanimità di Cordier, in verità tutt'altro che spregevole e incolto. Quando lei, all'arrivo, gli regala "Vol de nuit" di Saint-Exupéry, lui fa spallucce e più avanti le dirà di non riuscire a leggerlo, ma lei non potrà fare a meno di insistere nel ridestare quella coscienza rimasta troppo a lungo sopita ma non del tutto annullata. E il risveglio si rivela fin troppo repentino e ravvicinato nel tempo.
Il primo atto d'autocoscienza è l'uccisione a bruciapelo dei due protettori, i primi della lista di persecutori che Lucien s'è mentalmente preparato con una lungimiranza strategica stupefacente.
Poi di seguito elimina il negriero marito di Rose e il servitore Vendredi, e via via si vendica di tutti coloro che lo avevano maltrattato, sentendosi sempre più pervaso da uno spirito di missione giustizialista. Anne intuisce quanto di irresponsabilmente messianico si agiti in quest'uomo dall'aria innocua, anzi contrita, quest'uomo che addirittura la respinge poiché si sente sudicio di fronte a lei, di un sudiciume intimamente connesso con la propria mediocrità. Lo illumina una consapevolezza di sé che sconfina in una sorta di chiaroveggenza medianica: la stessa che gli suggerisce di armare preventivamente la mano di Rose che poi utilizzerà contro sua moglie e Nono. Nulla ormai può più distogliere Cordier dall'idea di essere l'eletto di Dio per ripulire se non la Terra almeno quella contrada dai farabutti che la popolano. È lui a scrivere di notte sulla lavagna della scuola: "Il Signore mi ha ordinato di colpire Le Péron, Leonelli, Mercaillou e Vendredi. Io non ero completamente d'accordo. Gesù Cristo".
Quando, la mattina dopo, Anne vede il messaggio, cerca di coprirlo invitando gli alunni a cantare la Marsigliese. La strada pare ora spianata per congiungersi con Anne, colei che tutto sa e che nulla mai dirà, colei che ha compreso sino in fondo il significato della rivolta di Lucien e che lo ama per questo. Ma lui non è disponibile, ha ancora troppo "lavoro" da sbrigare per potersi dire libero e disposto a condividere la vita con lei. E all'obiezione di lei: "Ma non hai paura?", lui può rispondere: "I morti non hanno paura, e io sono morto da tanto tempo".

Con l'aiuto del ritrovato Aurenche dalla penna perfida e dall'immaginazione osé, Bernard Tavernier rilegge uno stralunato romanzo noir dell'americano Jim Thompson, "Pop. 1280" (n. 1000 nella serie "Carré Noir" di Gallimard), in chiave di puro surrealismo francese, tra Céline e Queneau. Thompson è già di per sé un autore oltranzista nel denso pastiche linguistico della sua prosa e oltraggioso nell'invenzione di personaggi irrimediabilmente out. Ma il Tavernier di "Coup de torchon" ci mette del suo a complicare una già fittissima ragnatela di pertinenze, spiazzando del tutto il nucleo originario del racconto e spostando l'azione dal profondo sud degli USA contemporanei a uno sperduto villaggio dell'Africa francese del 1938.
Siamo all'inizio del film: soggettiva su dei bambini neri africani affamati che rimestano il cibo nella sabbia, controcampo su uno stanco e disperato Lucien Cordier armato di pistola che li fissa immobile, poi la soggettiva segue un volo di avvoltoi fino all'inquadratura del sole in piena eclisse, infine scende la notte, che tutto avvolge in un'atmosfera rarefatta e angusta. Dopo aver indugiato sul nostro protagonista in procinto di svegliarsi, la macchina da presa ci presenta Bourkassa Ourbangui, lo sperduto paesino del Senegal con le milleduecentottanta anime del titolo del romanzo di Thompson: siamo situati nell'Africa occidentale francese, alla vigilia della seconda guerra mondiale, immersi in una natura dai colori metafisici e inquietanti che l'iperrealismo della fotografia sospende in uno spazio-tempo allusivo e metastorico, in un eterno ritorno dell'identico niente di buono, tra espressioni e implosioni di ogni forma vitale. Come annunciato da alcuni passanti per strada, è cominciata la fine del mondo, ma è cominciata già da sempre in una coincidenza tra l'alfa e l'omega, e si è già avviata anche la tragedia personale del protagonista. Cordier, capo della polizia francese di Bourkassa, è un vinto che sopravvive a se stesso e alla situazione.
Incassa, non reagisce, fa finta di non vedere e ripete ostinatamente: "Ho dei pensieri, delle preoccupazioni... Allora ho cominciato a riflettere, ho riflettuto e a forza di riflettere, finalmente, ho preso una decisione: ho deciso che non sapevo cosa fare...".

[...]

Leggi la recensione completa del film COLPO DI SPUGNA su filmscoop.it