Recensione mi piace lavorare - mobbing
Recensione a cura di peucezia
Francesca Comencini continua la strada intrapresa con Carlo Giuliani ragazzo e cioè quella del film-documentario. Infatti nonostante la partecipazione di un'attrice professionista, la brava Nicoletta Braschi, il film è interpretato da attori dilettanti che vivono ogni giorno la realtà descritta dalla pellicola, quella delle aziende.
Ce ne accorgiamo dallo smaccato accento romanesco di molti interpreti, dal loro modo un po' rigido di stare davanti alla telecamera.
Il film inoltre vuole avere un tono documentaristico anche per i colori tenui e per le riprese volutamente semi amatoriali ma soprattutto per lo stile asciutto di narrazione.
L'odissea della protagonista viene narrata puntualmente in un crescendo alla Hitchcock e ci si sorprende alla fine del film a tirare un respiro di sollievo per la fine delle tribolazioni di Anna. La regista sceglie di proposito di porre la sua protagonista ai margini sin dall'inizio, Anna ha una figlia a carico e un padre ammalato, è una donna debole che parla con tono sommesso e sembra quasi non esistere, ed infatti durante la festa aziendale che celebra la fusione dell'azienda con una multinazionale la donna viene elusa dai dirigenti, elusa perché si comprende da subito che è una perdente con cui lo spettatore quindi non vuole identificarsi.
Per tutto il perdurare delle angherie subite Anna non sceglie di ribellarsi ma di subire passivamente mantenendo il filo di voce che abbiamo sentito nelle prime sequenze, preferendo tornata a casa buttare una giacca oggetto di canzonatura in ufficio piuttosto che usarla altrove.
Il suo annichilimento crea un senso di rabbia nello spettatore anche se nell'intento della regista l'atteggiamento di Anna è quello tipico della vittima del mobbing.
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