Recensione the aviator
Recensione a cura di kowalsky
Non ho mai capito veramente cosa si intenda per cinema. Non certo l'agiografia della settima Arte, nè l'esaltazione maxima del biopic strutturato come un'invadente pamphlet letterario à la Fitzgerald (chi non ricorda "Il grande Gatsby"?). Ho riconosciuto all'ultimo Scorsese una capacità tecnica da cinque stelle, ma è un pregio o rischia di diventare il suo limite per i prossimi anni, per il suo "mezzo del futuro"? Scorsese è anche l'uomo che ha rischiato di più negli ultimi due decenni, arrivando a un'insolito dramma in costume (il bellissimo "L'età dell'innocenza"), a una discussa ma coraggiosa rilettura apocrifa della vita di Cristo, a un'inquietante, vagamente didascalico ma a suo modo lucidissimo viaggio nell'inferno delle coscienze smarrite, poi d'improvviso... d'improvviso è come se sentisse il peso degli anni, rivivesse (sindrome di Woody Allen?) tutta l'ambizione e il limite di poter riscrivere il cinema che ama, da incantatore neutrale del meccanismo hollywoodiano ("viaggio nel cinema americano") o da riverente (un po' fasullo a dire il vero) "allibratore" del nostro cinema, come ogni buon Americano ama fare guardando dall'alto in basso il piccolo stivale che gli dette anche una moglie ("viaggio in Italia", comunque straordinario). Ha rischiato di perdere il suo pubblico con "the last temptation" o "al di là della vita", ma si è fatto imprigionare nei fasti della grandeur di cui "gangs of new york" ha rappresentato il delirio massimo della sua vocazione fetici(sta)nefila: un sontuoso e accademico (assolutamente impeccabile dal punto di vista figurativo) colosso girato con una propensione fiamminga (Bruegel dietro le quinte?) e personaggi che lordano - più che il sangue la Passione barocca delle Democrazie predestinate ad esaurirsi in un beffardo consenso di law and disorder.
Tutto questo è Scorsese al suo delirio d'onnipotenza, come quando ha tentato di rivitalizzare il musical - con risultati efficacissimi dal punto di vista del marketing sonoro/celebrativo - in "New York, New York".Poi qualcuno ti suggerisce che sta realizzando un film su Hughes, pensi a Welles ("Citizen Kane") e ne sei compiaciuto.
Ma qualcosa non torna: Di Caprio ha abbandonato le lotte fraticide di quartiere e il sangue dei coltelli per vestire Armani o giu' di lì, strada spianata all'ennesimo viaggio "al tempo che fu". già la storia: tanto per cominciare tutti gli Erroll Flynn, le Jean Harlow (mito ultramaledetto citato sguaiatamente da Madonna), le Katherine Hepburn, le Ava Gardner, diventano figurine liebig utili ai fini del gossip hollywoodiano più in voga lustri e lustri fa (Hedda hopper e le "pettegole", fino alla recente Mary Jo Pace). Tutto quel "si diceva che", o "sapete cosa ho saputo di lei?". Irritante, tanto più che di katherine Hepburn vediamo esattamente cio' che abbiamo sempre saputo, eppure tutto ci sfugge: che era una pasionaria dalle idee reazionarie (per gli Usa), che era di sinistra, che vestiva forzatamente da "maschio" e coltivava amicizie lesbiche (no, il film non lo dice 1), che Hughes non poteva essere più lontano dalla sua ottica ma che proprio per questo due anime distanti si sono incontrate e forse amate (per lo stesso motivo Kate e John Wayne sono andati d'amore e d'accordo sul set di "torna il Grinta").
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