Regia di
Michele Placido con Mathieu Kassovitz, Daniel Auteuil, Olivier Gourmet, Violante Placido, Luca Argentero
Recensione a cura di Stefano Santoli (voto: 5,0)
E' doloroso dare un giudizio negativo su di un film, quando ha una confezione splendida. "Il cecchino" di Michele Placido è un sentito omaggio a un genere, il polar francese, messo in scena favolosamente. Resta impressa la fotografia fredda, plumbea di Arnaldo Catinari, che esplora l'intera gamma cromatica del blu, e succhia l'anima a una Parigi trasformata in una respingente superficie di acciaio, asfalto e pietra levigata. Le scene d'azione sono girate in maniera adrenalinica, con un montaggio serrato in cui confluiscono armonicamente tanto le panoramiche sui tetti quanto i primissimi piani sui volti concitati, sul sangue e sul sudore.
Dirigere bene è il minimo, forse, se si ha alle spalle una produzione importante. Tuttavia ne "Il cecchino" ("Le gutteur", nel titolo originale) Michele Placido si avvale con efficacia del comparto tecnico dimostrando di avere stile. Conferma, dopo "Romanzo criminale" (2005) e dopo il forse anche migliore "Vallanzasca" (2010), di saper parlare benissimo il linguaggio del genere gangster.
I due precedenti erano entrambi "romanzi", molto connotati in senso melodrammatico, e in questo senso dovevano tanto a Scorsese, e (insieme a Scorsese) risentivano di una tradizione che ha, nel proprio dna, qualcosa di italiano, che attinge a opera lirica e commedia dell'arte. L'essenza stilistica de "Il cecchino" è invece ben calata, appunto, nel polar francese, e perciò quasi completamente asciugata di ogni componente romantica, come di eccessive indulgenze sul privato dei personaggi. Senza scomodare i mostri sacri del polar, "Il cecchino" ha quanto meno un occhio di riguardo per Olivier Marchal ("36 Quai des Orfèvres", 2004; "L'ultima missione", 2008 - entrambi con Daniel Auteuil, protagonista anche de "Il cecchino").
Il problema del film di Placido, film su commissione, sta nello script di Cédric Melon e Denis Brusseaux. Nelle dinamiche fra i personaggi, nell'interazione fra esse e negli sviluppi. Il difetto non è da poco, perché l'anello debole della pellicola è niente meno che la trama, dal cui intricato intreccio non scaturisce un senso che sia convincente quanto lo stile.
I tre personaggi principali sono accomunati dalla profonda solitudine di ognuno - un cliché un po' abusato nel genere - e interpretati alla grande dai rispettivi interpreti, tutti grossi calibri del cinema francofono: Daniel Auteuil, Olivier Gourmet, Mathieu Kassovitz.
Il poliziotto interpretato da Auteuil è il più convincente. La sua psicologia è la più approfondita; progressivamente si chiarisce il secondo movente delle sue azioni, sin dall'inizio non proprio ortodosse, che hanno radici in un dolore, un'ossessione, in cui risiede la fragilità umana di un personaggio apparentemente irreprensibile.
Il cecchino interpretato da Kassovitz è il deuteragonista (a dispetto del titolo): il classico nemico del poliziotto in una sfida personale che va al di là del bene e del male (il rapporto fra i due vorrebbe echeggiare probabilmente quello fra De Niro e Al Pacino in "Heat - La sfida" di Michael Mann). Tuttavia il personaggio di Kassovitz resta parzialmente inespresso e troppo ambiguo. Privo dell'approfondimento che pretenderebbe di avere. Non ne giova, il film: né in termini di comprensibilità - la pellicola è involuta sino all'eccesso, squilibrata - né, soprattutto, in termini di spessore dell'opera.
Al terzo incomodo - il medico interpretato da un bravissimo, smagrito Gourmet (attore feticcio dei Dardenne) - è affidato il carico più pesante: quello di assumere su di sé l'abominio di un male assoluto, patologico e spaventoso. Anch'esso resta, come il personaggio di Kassovitz, non spiegato ma solo accennato (non bastano a chiarircelo alcune scene di grande crudezza; né esiste male tanto grande da non poter essere compreso).
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