Recensione on the road
Recensione a cura di Mimmot
Pubblicato nel 1957, sei anni dopo la sua stesura, il romanzo "On the road" di Jack Kerouac divenne in breve un libro di culto, capace di definire, e in qualche modo anche di formare, uno stile di vita e di pensiero in molti giovani dell'epoca. La Beat Generation ne fece la sua bibbia traendo da esso e dalla biografia del suo autore i tratti salienti e universali dei propri ideali, delle proprie speranze, delle proprie estasi e anche delle proprie disperazioni. Il disagio nevrotico di quei giovani, di cui il romanzo si fa interprete, poggiava sulle mille contraddizioni che percorrevano la società americana postbellica, in un'America alle prese con la Guerra Fredda, la lotta al comunismo e la repressione. Un'America per lo più intollerante, classista e razzista.
Il senso di disagio che stringeva le coscienze di quei giovani spesso si tramutava in rifiuto totale della società del loro tempo, al punto che molti sceglievano di isolarsi da tutti e da tutto, racchiudendosi in un mondo elitario ed esclusivo. L'ineludibile bisogno di ribellarsi conviveva con la fuga, il viaggio, il nomadismo, la ricerca ossessiva dell'autenticità e dell'appartenenza. La strada, il sacco a pelo, lo zaino in spalla e un taccuino su cui scrivere erano i veri simboli di quei ragazzi. Tutti vivevano di pochi spiccioli e di ideali visionari, l'hashish e la marijuana erano esperienze a cui la Beat Generation non si sottraeva; i suoi rappresentanti si nutrivano di controcultura, nel mentre si stordivano di alcool, droghe e sesso, e per anni hanno influenzato la musica, l'arte e la letteratura.
"Sulla strada", scritto come testimonianza di un'esperienza vissuta, riesce a produrre sui cultori del libro un effetto di forte identificazione, che non si attenua malgrado il trascorrere del tempo e il mutare delle cose e delle circostanze, e ad instillare nelle loro menti una voglia matta di muoversi e viaggiare senza mai fermarsi a pensare, e il desiderio di vivere tutto in un solo istante, senza paura di bruciare, oltre le convenzioni, oltre i limiti assegnatigli dalla società. Una voglia matta di partire verso l'ignoto, verso posti che non si sono mai visto, meglio, che non si sapevano nemmeno che esistessero, perdendosi nel mondo e nell'inquietudine di cercare se stessi. Una voglia matta di andare senza fine, affinché cancelli l'ombra della noia, prima che tutto finisca, come dice Kerouac, nel "desolato stillicidio del diventare vecchi".
Quelle pagine che si leggono quando si è giovani per cercare la libertà e quando si è adulti per ripensare ai sogni, che ci fecero contare i giorni che mancavano alla maggiore età, che ci fecero comprendere lo spirito autentico dell'America, prima ancora di conoscerla, che ci fecero salire in macchina con Sal e Dean e correre con loro lungo le strade infinite dell'America.
Quelle pagine ora sono diventate un film diretto da Walter Salles, il regista che ci aveva già fatto provare, con "I diari della motocicletta" - lungometraggio che traspone sul grande schermo il viaggio intrapreso, in sella a una sgangherata Norton 500, dal giovane Ernesto Guevara e dal suo amico Alberto Granado, alla scoperta del continente latinoamericano - l'ebbrezza e la forza rigeneratrice del viaggio alla ricerca di se stessi e del senso compiuto dell'andare, perdendosi nel mondo, e cambiare, cambiando il modo di vivere la vita.
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