Regia di
Pedro Almodovar con Penelope Cruz, Cecilia Roth, Marisa Peredes, Tony Cantó, Rosa María Sardà, Eloy Azorín, Antonia San Juan
Recensione a cura di GiorgioVillosio
Se considerassimo semplicemente la trama, i personaggi, la drammaticità delle loro vite e l'intreccio a fortissime tinte dei loro casi, "Tutto su mia madre" risulterebbe come un feuilleton di altri tempi; con sangre y arena, incidenti fatali, passioni senza freno, nascite e morte a ruota, storie di sentimenti complessissimi e irresistibili. Ancor più, ove alcuni personaggi assumono una connotazione surreale e grottesca, come maschere simboliche del teatro antico; neppure distinguibili come uomo o donna, in quanto transessuali (il padre travestito Esteban). Questa tipologia di racconto odora di melodramma classico, come pure di certi romanzi di evasione (di serie B) dell'ottocento, che mescolavano volutamente sacro e profano, amore e morte, condanna e perdono, bontà e perfidia, in una miscela poco credibile, ma piuttosto intrigante sul piano emotivo.
Ma la riserva si scioglie assolutamente, a cospetto di un grande come Almodovar, che, se si rifà a generi letterari desueti, non lo fa a caso, ma espressamente, per amore fine a se stesso della citazione. Su questo in particolare si potrebbe parlare a lungo, ma ci manca lo spazio; basti dire che, a dispetto delle critiche di chi considera le "citazioni" come sfoggio di cultura e presuntuosa ostentazione, a nostro parere queste sono invece segno di modestia e onestà intellettuale: "dichiaro le fonti cui mi ispiro, e facilito la lettura dell'opera con l'impiego di strumenti già noti ai più" E questo lo fanno solo i grandi, che non cercano appropriazioni indebite! Nella fattispecie le "citazioni" si sprecano: la narrazione melodrammatica, la figura della grande attrice isterica sul viale del tramonto, Eva contro Eva, la fine tragica alla Margherita Gautier (dove l'HIV si sostituisce al mal sottile...).
Tali riferimenti si riducono quindi a semplice pretesto per introdurre a grandi problematiche dell'umano, e della vita in sé: sulla caducità del corpo, il mistero della procreazione, la morte e gli espianti, per finire con la maledizione odierna dell'Aids, TBC o sifilide dei giorni nostri! Il tutto nel consueto contesto di invenzioni stilistiche e di materiale umano tipici di Almodovar, con personaggi trasgressivi, diversi e alternativi, dissacranti ed ambigui in quanto a sessualità.
E proprio sulla distinzione uomo - donna si gioca il terzo, fondamentale, assunto del film, capace di farne un'opera superlativa. Il mondo ivi proposto è un mondo, praticamente, tutto al femminile, dove l'uomo gioca una parte quasi superflua e accessoria, come i fuchi nell'alveare. Regine sono loro, le donne, con il potere grandioso e monopolistico della procreazione, ma pure nevroticamente autodistruttive, irrazionali e passionali, ma capaci di generosità, con il cumulo insostenibile della loro sentimentalità; dove la loro vocazione "metafisica" ad auto-riprodursi viene raccontata col difficile paradosso del travestito Esteban, padre naturale di entrambi i figli delle protagoniste. A conferma l'immagine del vecchio non autosufficiente, non più di una ombra insignificante.
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