venerdì 23 dicembre 2005

Recensione KING KONG

Recensione king kong




Regia di Peter Jackson con Naomi Watts, Jack Black, Adrien Brody, Andy Serkis, Jamie Bell

Recensione a cura di Simone Bracci

Storia di un amore impossibile. L'emblema è l'immagine del gorilla gigante che stringe nella sua mano la bionda e sensuale Ann Darrow, oggetto del suo desiderio e dimostrazione di un sentimento che valica i confini della natura e che si tramuta nello sguardo tenero e toccante di re Kong, nei suoi ultimi istanti di vita. Già, perché il "King Kong" made by Peter Jackson, essendo un concentrato di generi, è anche questo: un dramma d'amore che impietosisce e commuove. Andy Serkis, l'attore feticcio di Jackson, colui che aveva dato volto (con più di cento sensori posti sul viso) a Gollum, ora si ripete con Kong, rendendolo semplicemente meraviglioso dal punto di vista realistico, riuscendo meglio che non nel suo personaggio del cuoco burbero.
Per il resto gli effetti digitali della Weta, la casa neozelandese oramai di moda dopo la trilogia dell'anello, la fanno da padrone, creando in Skull Island un'epoca senza tempo, dove Kong è il padrone incontrastato.

Sin dall'inizio si capisce che l'opera di Jackson è uno spassionato omaggio all'originale del 1933, partendo dai titoli di testa per concludere con i continui rimandi al film che ha segnato la sua infanzia, portandolo sulla via cinematografica. King Kong risulta essere un'opera con due anime e due facce, dove una prima parte (che coincide con quella finale), sospesa tra il dramma e la commedia, esprime tutto il cinismo di una città agli albori del suo impero ed una parte centrale, mista tra avventura, fantasy ed horror, che è simbolo di un territorio dove mai l'uomo potrà dire la sua. Il tutto ambientato in due giungle di struttura opposta: una metropolitana, com'era già la New York degli anni trenta, che Jackson si è divertito a mandare in frantumi, e l'altra proibita e misteriosa, come appare l'Isola del Teschio all'ignara troupe e all'equipaggio che là li ha condotti.
Proprio in questa suddivisione così netta, che poco ha a che vedere con l'originale, sta il punto debole del film. A partire dall'eccessiva durata (180'), in cui l'enfatica esigenza di confezionare un buon prodotto ha forse oscurato l'obiettivo di Jackson, la volontà di riesprimere un mito collettivo, passando per il ritmo del racconto, che se da una parte mantiene intatta la sua eleganza stilistica, dall'altra tende a spiazzare lo spettatore non coinvolgendolo sempre come meriterebbe.

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