Recensione nemmeno il destino
Recensione a cura di Susanna!
"Nemmeno il destino", tratto dall'omonimo romanzo di Gianfranco Bettin (Feltrinelli, 1997 e 2004), racconta di tre adolescenti che vivono alla periferia di Torino e affrontano quotidianamente problemi più grandi di loro: una madre affetta da una grave patologia psichica, un padre alcolizzato, un ambiente ostile e incapace di offrire alcuna prospettiva di futuro. Ai tre spetteranno destini diversi, tutti fra loro uniti da un disperato desiderio di fuga.
A differenza di tanto cinema contemporaneo, il primo grande merito del film è di avere degli interpreti che hanno le facce giuste per i loro ruoli. Il regista, Daniele Gaglianone, ha preferito scegliere i suoi attori fra non-professionisti, ottenendo risultati di un'innegabile vitalità espressiva. La freschezza e naturalezza dei tre ragazzi protagonisti sembra quasi un miracolo. Che dire poi del volto vissuto fino alla consunzione del padre di Ferdi? Tra le sue infinite rughe, simili ai solchi che scava l'acqua nella roccia, si legge, senza tanto bisogno di dialoghi, la sofferenza di tutta una vita passata in fabbrica a respirare veleni e la distruzione che porta con sé l'alcol. La bellezza allucinata della madre di Ale è un altro pezzo forte del film: anche a lei sono riservate poche battute e forse non servirebbero neppure gli insistiti flashback per spiegare cosa è stata la sua vita e cosa l'ha portata a questa catatonica follia.
In un mondo di adulti distrutti dalla durezza della vita, si muovono i tre ragazzi, tre adolescenti pieni di vitalità, con desideri semplici e comuni come andarsene da quella periferia squallida e inospitale oppure, ancora più semplicemente, tornarsene a casa e trovare una famiglia normale e una tavola apparecchiata. I genitori (e la scuola, e la società) sono colpevoli sì di non regalare ai loro figli una vita normale, ma colpevoli fino a un certo punto: anche per loro non c'è niente di semplice, nessuno ha diritto a scorciatoie, c'è solo da sperare di trovare dentro di sé il coraggio di ridere delle proprie disgrazie.
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