mercoledì 29 novembre 2006

Recensione THE LOST CITY

Recensione the lost city




Regia di Andy Garcia con Andy Garcia, Inés Sastre, Dustin Hoffman, Bill Murray, Tomas Milian, Richard Bradford

Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli

"The Lost City" è l'interessante esordio alla regia dell'attore cubano Andy Garcia (Andrés Arturo García Menéndez), che non si presenta soltanto nella duplice veste di attore e di regista, ma è anche produttore del film ed autore delle musiche originali.

Il film è il risultato di un progetto che Garcia coltivava fin dai primi anni ottanta. In un'intervista egli ha dichiarato che dopo aver cercato di scrivere alcuni abbozzi di sceneggiatura, che non lo soddisfacevano, un suo amico gli suggerì la lettura di un libro di Guillermo Cabrera Infante intitolato "Tre Tigri Tristi". L'incontro con Infante fu la chiave di volta del progetto. Ispirandosi al libro, i due autori hanno scritto insieme la sceneggiatura di "The Lost City" (lo script elaborato da Garcia era un lavoro di ben 306 pagine, ma dopo la collaborazione con Infante fu ridotto a 120).
A quel punto mancavano soltanto i soldi per realizzare il sogno dell'attore cubano. Per un periodo di ben sedici anni, Andy Garcia ha cercato i finanziamenti presso le case di produzione del cosiddetto cinema indipendente. Intanto la sua notorietà stava crescendo e il suo curriculum di attore si arricchiva di interpretazioni sempre più importanti. Dopo una non troppo lunga gavetta televisiva che comincia nel 1978 ed arriva al 1986, gli furono assegnati ruoli di rilievo in produzioni "importanti". Nel 1986 lo vediamo comparire al fianco di Jeff Bridges in "Otto Milioni di Modi per Morire". Il 1987 fu l'anno de "Gli Intoccabili", che, essendo diretto da uno dei migliori registi viventi ed interpretato da mostri sacri come Robert de Niro e Sean Connery, lo presentò al grande pubblico affiancando il suo nome ed il suo volto a quello dei grandi. Il primo ruolo da protagonista arriva finalmente nel 1990 con "Affari Sporchi". Nonostante che il suo astro fosse in rapida ascesa, i fondi per realizzare il suo progetto ancora non si trovavano. Questo gli ha lasciato il tempo per approfondire le letture sulla Cuba della sua infanzia continuando a coltivare e a rielaborare il proprio sogno.
Una volta trovati i fondi necessari alla realizzazione del film Garcia ha radunato un cast internazionale di alto livello, lasciando molto spazio agli attori di origine latina ai quali ha assegnato i ruoli principali, ad eccezione di quello dello scrittore senza nome interpretato da Bill Murray, di quello del fratello di don Federico interpretato dall'attore texano Richard Bradford (conosciuto da Garcia sul set de "Gli Intoccabili" dove interpretava il ruolo del corrotto capo della polizia di Chicago) e del cammeo del malavitoso Meyer Lansky interpretato da Dustin Hoffman. Troviamo la splendida attrice spagnola Inés Sastre, un redivivo Steven Bauer, che, benché abbia sempre lavorato tantissimo, in Europa non lo si vedeva in un film di rilievo dai tempi di "Traffic" (2000), il caratterista Juan Fernàndez che qui interpreta il presidente Batista, un eccellente Tomas Milian.

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martedì 28 novembre 2006

Recensione LITTLE MISS SUNSHINE

Recensione little miss sunshine




Regia di Jonathan Dayton, Valerie Faris con Steve Carell, Toni Collette, Greg Kinnear, Alissa Anderegg, Alan Arkin, Cassandra Ashe, Abigail Breslin, Paul Dano

Recensione a cura di GiorgioVillosio

E' di questi giorni la notizia che è stato finalmente arrestato in Thailandia il pedofilo assassino di un'americana babydiva in erba.
La piccola era nota per la sua partecipazione ai concorsi di bellezza per bambine, fortemente voluta e pilotata dalla madre; in tale occasione veniva conosciuta dal losco figuro, avviandosi alla sua tragica fine.

La cosa fa rabbrividire, ovviamente, ma al contempo riflettere a fondo: sul sistema divistico/commerciale americano che alimenta questi miti; sulla frivolezza assurda delle madri, che approfittano delle figlie per dare sfogo al loro transfert narcisistico. E infine sulla pochezza del mondo maschile che, invece di limitare tanta leggerezza femminile, la subisce e addirittura la asseconda.
Ricordiamo che nell'analoga situazione del "Bellissima" viscontiano, il padre della piccola era fortemente contrario alla ricerca di notorietà, e la madre, Anna Magnani, ci provava di nascosto da lui! Ma... correva l'anno 1951, e l'autorevolezza dell'uomo di casa era ben altra!!! Peraltro la madre stessa, infine, prendeva coscienza dell'assurdità di assoggettare l'innocenza di una figlia ad un mondo senza codici morali.
La storia di "Little Miss Sunshine" è simile per molti aspetti; c'era già dunque molta materia per trarne un film di notevole rilievo (tipo "Bellissima" per l'appunto).

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Recensione SEVEN

Recensione seven




Regia di David Fincher con Morgan Freeman, Brad Pitt, Kevin Spacey, Daniel Zacapa, Gwyneth Paltrow, John Cassini, Bob Mack, Peter Crombie

Recensione a cura di Matteo Sonego

Il tenente di polizia William Somerset (Morgan Freeman), sta per andare in pensione. Nella sua ultima settimana di lavoro gli viene affiancato il neo arrivato David Mills (Brad Pitt), detective giovane ed ambizioso, desideroso di far carriera. I due vengono costretti a lavorare insieme nel tentativo di catturare un terribile serial killer, John Doe (Kevin Spacey), il quale sta commettendo una serie di terribili omicidi. Tutte le vittime condividono colpe riconducibili ai sette peccati capitali.

Eccezion fatta per "Il silenzio degli innocenti", questo film non ha eguali nell'ambito del proprio genere. Angosciante, spietato, geniale, sono i primi aggettivi che vengono in mente già alla prima visione di questa pellicola eccezionale.
David Fincher non lascia nulla al caso, a partire dai titoli di testa, intervallati da immagini che si riferiscono alla preparazione degli omicidi, fino all'ultima scena, chiusa con una citazione da Hemingway. Lo svolgersi della trama è piuttosto fluido, mentre il ritmo, costante per tutti i 121 minuti, ha un picco unicamente nella scena dell'inseguimento. Il finale chiude il cerchio e fa in modo che ci si renda davvero conto di quale sia il piano effettivamente architettato da un serial killer "divino" per la storia del cinema: John Doe.
Il film ruota attorno a lui: un grande Kevin Spacey, monumentale nel recitare la parte del predicatore killer, calmo e freddo come nessun altro, paziente, costante, coerente e tremendamente determinato. Impossibile dimenticare alcune scene che lo vedono protagonista e il suo sorrisino ironico nel momento in cui esclama "Oh.... Non lo sapeva!".

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lunedì 27 novembre 2006

Recensione FLAGS OF OUR FATHERS

Recensione flags of our fathers




Regia di Clint Eastwood con Ryan Phillippe, Jesse Bradford, Adam Beach, Barry Pepper, John Benjamin Hickey, John Slattery, Paul Walker, Jamie Bell, Robert Patrick

Recensione a cura di Harpo (voto: 7,5)

Clint Eastwood è uno statunitense che ama la sua patria; è fiero di essere americano, ma allo stesso tempo non risparmia le critiche a certi comportamenti che vengono intrapresi dalla sua nazione per il "bene comune".
L'ultima opera del famoso regista/attore racconta lo sbarco americano sull'isola giapponese di Iwo Jima, analizzando in particolar modo le conseguenze che tale evento ha portato all'interno degli USA.
Al fine dell'analisi del film, è bene riportare un paio di nozioni storiche utili a capire in quale contesto si va a collocare questo scontro. Il periodo è quello della guerra del Pacifico. Questo conflitto esordisce in tempi precedenti rispetto alla Seconda guerra mondiale pur vedendo protagonisti gli americani solamente a partire dal 1941 (con il noto attacco giapponese alla base americana di Pearl Harbor). "Flags of our fathers" parla di uno dei più sanguinosi capitoli di questo conflitto: l'attacco americano all'isola di Iwo Jima, roccaforte giapponese situata a sud dell'arcipelago nipponico. Iniziato il 19 dicembre del 1945, questo fu uno degli scontri cruciali della Seconda guerra mondiale, nonché una delle pagine più sanguinose del conflitto stesso: in poco più di un mese i caduti statunitensi furono settemila, quelli giapponesi circa tre volte tanto; infatti la maggioranza dei militari nipponici preferirono il suicidio alla cattura.
Da questo momento in poi saranno svelate delle parti sostanziali della trama e, di conseguenza se ne sconsiglia la lettura a chi non ha ancora visto il film, caldeggiandone comunque la visione.
"Flags of our fathers" racconta le vicende di un gruppo di marines, composto da sei uomini, impegnati in questa violenta battaglia. I protagonisti, dopo la conquista di parte dell'isola, piantano nel suolo giapponese la bandiera americana e, dopo essere stati immortalati in una fotografia, verranno consacrati come eroi. Tre di loro moriranno, la restante metà verrà idolatrata in patria. La foto in questione diverrà poi il filo conduttore di tutta la storia.

Ciò che più colpisce nel film di Eastwood è il sentimento con cui il regista narra la vicenda. Come già scritto in precedenza, Clint ama l'America e nella pellicola questo affetto è ampiamente riscontrabile. Il suo rispetto è rintracciabile nell'immagine che egli ci fornisce dei marines: sono persone "normali" che moriranno per servire la patria. I sopravvissuti non sono eroi: sono solo individui che hanno un alto principio etico e morale della vita e, soprattutto, del loro servizio.
Però la sua visione dei fatti non è unilaterale: Eastwood non si dimentica del vero lato sporco della medaglia, evitando così di fare di tutta l'erba un fascio. Il suo film è radicalmente diverso da "Salvate il soldato Ryan" di Spielberg (qui nelle vesti di produttore). Nella pellicola di Steven è ravvisabile un enfatizzazione dell'esercito americano: ogni militare statunitense in "Saving Private Ryan" è rappresentato come un eroe. In "Flags of our fathers", invece, la parola "eroe" non è contemplata.
A dire il vero è lo stesso Eastwood che, alla fine della pellicola ci ricorda: "Sono le persone comuni che hanno bisogno di credere, di inventare gli eroi. I veri eroi sono quelli morti per salvare la vita a chi stava di fianco a loro e i loro nomi noi neppure li conosciamo" (cfr. James Bradley).
"Flags of our fathers" è un film che si prepone una demistificazione degli eroi: in quest'opera i marine vengono rappresentati senza quell'aura d invincibilità tanto cara agli americani, che non perdono mai occasione di eliminare ogni parvenza di "debolezza" nei propri miti. Eastwood "vuole bene" ai soldati, ma proprio per questo li ritrae come uomini normali, rendendoli quindi ancor più vicini a noi.
Clint, quindi, oltre a non mitizzare i marines, critica aspramente la classe dirigente americana. Questo pensiero è distinguibile già nella prima parte del film. Il valore e la moralità dei soldati sono inversamente proporzionali a quelli di taluni politici. Se i primi saranno devoti alla patria e pronti a servirla anche nelle situazioni più drammatiche, i secondi saranno impegnati solo a vedere il lato più superficiale della vittoria. A loro avviso la conquista di Iwo Jima non è il trionfo dell'impegno di tantissimi marines morti per aiutare l'America: è piuttosto interpretata come un trionfo finanziario, atto solamente a convincere il popolo che questa guerra non è stata poi così assurda. Per Gerber, importante funzionario del ministero del Tesoro, e personaggio chiave della pellicola, l'immagine che ritrae i marines sul monte Suribachi non è il frutto del sacrificio, ma "una foto, che poi non ne è neanche così bella (non fa vedere neanche le facce!) e che sembra aver fatto capire agli americani di aver vinto la guerra". Questa, ovviamente, è una tesi fortemente superficiale.
Ma il primo riscontro palpabile delle menzogne raccontate dagli americani è intuibile in alcune scene precedenti. Una, in particolare, è molto indicativa. I marines hanno appena terminato una campagna di addestramento e si stanno recando a Iwo Jima in nave. I caccia alleati decidono di dar spettacolo, prodigandosi in gagliarde manovre volanti; i militari sono al settimo cielo. Uno dei tanti, sporgendosi dalla nave, cade e i suoi compagni, inizialmente, sono divertiti.
La scena appare in un primo momento ridicola e, forse, perfino comica; i marines cercano di passargli una cima, ma lo sprovveduto non riesce ad afferrarla. Non verrà calata nessuna scialuppa e il soldato sarà destinato a morire annegato. A questo punto il motto dell'esercito "non ti lasciamo mai solo" citato da un commilitone non appare solo grottesco: la valenza di queste parole assume un significato insolente, denotando nello Stato Maggiore una certa spudoratezza nel mentire.

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mercoledì 22 novembre 2006

Recensione IL GIRO DEL MONDO IN 80 GIORNI (2005)

Recensione il giro del mondo in 80 giorni (2005)




Regia di Frank Coraci con Jackie Chan, Steve Coogan, Jim Broadbent, Cécile De France, Arnold Schwarzenegger, Kathy Bates, Owen Wilson, Luke Wilson, Rob Schneider

Recensione a cura di peucezia

Classico della letteratura fantasy e della narrativa per ragazzi, il romanzo di Jules Verne "Il giro del mondo in Ottanta giorni" è noto a generazioni di lettori ed ha colpito per la sua struttura anche l'immaginazione dei cineasti, infatti fin già nel 1919 esce una prima versione muta e in bianco e nero del romanzo realizzata in Germania.
Anche se la versione più nota e forse meglio riuscita è quela del 1956 con David Niven protagonista e la partecipazione di numerose star internazionali in camei di gran classe, la storia continua ad affascinare e tra parodie, versioni per la tv (con Pierce Brosnan nel ruolo principale) e cartoni animati si giunge al 2004; anno in cui la Disney decide di scommettere ancora su questo romanzo.

Il nuovo film con Jackie Chan come Passepartout lascia senza dubbio perplessi chi conosce la storia dell'eccentrico gentleman inglese Phileas Fogg e disorienta ulteriormente chi invece non ne ha mai sentito parlare. Anziché essere inserito in un circolo di membri dell'alta borghesia, Fogg (interpretato da un incolore Steve Coogan) è invece un buffo inventore incompreso e il suo fedele domestico a dispetto del nome d'oltralpe è invece un ladro cinese.
La storia si trasforma totalmente al servizio di Chan che pur avendo ormai passato la cinquantina si trova sempre a suo agio nelle abituali scene comico-acrobatiche che strappano qualche risata ai più giovani e fanno storcere il naso a chi si aspetta da lui una prova un po' più matura e lontana dai suoi soliti clichés.

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lunedì 20 novembre 2006

Recensione TOTO' E CAROLINA

Recensione toto' e carolina




Regia di Mario Monicelli con Totò , Anna Maria Ferrero, Arnoldo Foà, Maurizio Arena, Tina Pica, Gianni Cavalieri, Castellani, Fanny Landini

Recensione a cura di peucezia

La pellicola, apparsa sugli schermi nel 1955, è passata alla storia a causa delle censure e degli innumerevoli tagli che ritardarono di due anni l'uscita riducendone la durata in maniera esponenziale.
Al giorno d'oggi tanto accanimento nei confronti di Totò appare assurdo ed anacronistico ma all'epoca lo stesso ministro della Difesa Mario Scelba scese in campo per ordinare, oltre che i tagli, il divieto di esportazione, poi caduto nel 1958.

Quali erano le tematiche tanto esplosive da scomodare un ministro di un dicastero così importante per la nazione? (nota volutamente ironica). Innanzitutto non andava a genio il ruolo interpretato da Totò: quello di un agente di polizia. Antonio De Curtis, attore sicuramente geniale, amatissimo dal pubblico, non incontrava la medesima fortuna negli ambienti di potere né tantomeno tra i critici cinematografici che oltre a stroncare impietosamente ogni sua interpretazione, lo consideravano poco più di un giullare di corte.
Per questo motivo, in una Repubblica che sta ancora muovendo i suoi primi passi e che cerca di ricostruire una sua dignità anche attraverso le forze dell'ordine, il Totò poliziotto - povero diavolo che non cerca la gloria ma solo un aumento di stipendio per tentare di sbarcare il lunario - il Totò che si lascia convincere da una stramba vecchina (Tina Pica) a giocare al lotto, il Totò pavido, ignorante e un po' cialtrone, non dava certamente lustro al paese.

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Recensione UOMINI & DONNE

Recensione uomini & donne




Regia di Bart Freundlich con David Duchovny, Julianne Moore, Billy Crudup, Maggie Gyllenhaal, Eva Mendes, Dagmara Dominczyk, Justin Bartha

Recensione a cura di Pasionaria (voto: 5,0)

L'infelice traduzione italiana del film "Trust the man" in "Uomini e donne" per un momento richiama alla memoria il becero programma televisivo della De Filippi. Sebbene fortunatamente il film non riproponga gli squallidi stereotipi sentimentali dell'omonimo talk show, cui il titolo italiano rimanda; nondimeno ricalca i raffinati quadretti intimi e le pennellate d'intelligente ironia sulla coppia del grande cinema alleniano, cui chiaramente il film s'ispira.
L'argomento è lo stesso: l'incomunicabilità fra uomo e donna, tema intorno al quale in ogni campo dell'arte e della conoscenza si è predicato, irriso, almanaccato. Purtroppo sull'argomento dell'incomprensione fra i sessi l'originalità latita, perciò anche stavolta parafrasando Remarque: "niente di nuovo sul fronte occidentale", dato il banale susseguirsi di situazioni viste, ascoltate, lette migliaia di volte.

La commedia, presentata dai trailer come una fresca ventata di trovate brillanti con allusioni sessuali umoristiche, millantate da un sottotitolo italiano quanto mai inopportuno (tutti dovrebbero venire... almeno una volta), tradisce le premesse, scivolando nella solita analisi di trentenni in crisi d'identità e di quarantenni annoiati dalla quotidianità di coppia, con l'aggravante di un finale ridondante che affoga nella melassa. La storia s'immerge così profondamente nel mieloso happy end, da far pensare ad un voluto e simpatico dileggio verso certe commedie romantiche non solo hollywoodiane. Ma, riflettendo sul titolo originale, Trust the man (fidati del tuo prossimo) coerente all'intreccio del film, il dubbio presto si dilegua e diventa chiaro che il finale non vuole essere affatto ironico.

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venerdì 17 novembre 2006

Recensione BACIAMI PICCINA

Recensione baciami piccina




Regia di Roberto Cimpanelli con Neri Marcoré, Vincenzo Salemme, Elena Russo

Recensione a cura di peucezia

Diretto dal regista abbastanza sconosciuto ai più Roberto Cimpanelli (a dire il vero, nel 1996, da lui fu diretto l'originale "Un inverno freddo freddo"), "Baciami piccina" è un onesto omaggio a un cinema d'altri tempi, lontano per avvenimenti e stile.
Road movie, viaggio iniziatico, allegoria del passaggio dal torpore di sentimenti e ragione alla maturità, il film vede come protagonista a tutto tondo il giovane e un po' ingenuo carabiniere Umberto Petroni alias il camaleontico Neri Marcorè. L'attore è indubbiamente capace di un grande eclettismo, passa con disinvoltura da Alberto Angela ad Albino Luciani e sembra avere il giusto physique du rôle per i personaggi cinematografici del passato grazie all'aria svagata da ragazzo perbene di altri tempi.
Coprotagonista graffiante, iperattivo, iperpresente e logorroico il napoletano Vincenzo Salemme, attore uscito dalla solida scuola di Eduardo, qui nel ruolo del truffatore da strapazzo ex attore, personaggio di diretta discendenza dal mattatore Gassman e dai due guitti Totò e Nino Taranto.
Tra i due la dimessa Elena Russo, fidanzatina del carabiniere, silenziosa e poco presente, come la propaganda fascista imponeva alle donne, il cui unico e giusto ruolo risultava essere quello di spose e madri esemplari.

Il viaggio dei tre parte in una giornata particolare, il sette settembre 1943 vigilia dell'armistizio, tragico capovolgimento di una guerra esausta.
Nel cammino verso la consapevolezza i tre si imbattono in un'umanità dolente o boriosa (il commendatore interpretato da Marco Messeri, da sempre caratterista sanguigno, da buon toscano). Il richiamo al film interpretato da Alberto Sordi "Tutti a casa è inevitabile, anche in quella pellicola, il protagonista in principio tenace e stolido esecutore di ordini si trasforma via via fino a giungere alla maturità di una scelta di vita, ma se Sordi procedeva verso Sud in una fuga folle e disperatissima, il carabiniere Marcorè è fermamente deciso a raggiungere Venezia per tradurre agli arresti il suo prigioniero e mentore Salemme.

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venerdì 10 novembre 2006

Recensione BABEL

Recensione babel




Regia di Alejandro Gonzalez Inarritu con Cate Blanchett, Brad Pitt, Gael García Bernal, Mahima Chaudhry, Mahima Chaudhry, Kôji Yakusho, Shilpa Shetty, Lynsey Beauchamp

Recensione a cura di maremare (voto: 7,5)

Also sprach Inarritu

Il film
Babel è l'ultima parte di una trilogia cominciata con "Amores perros" e "21 Grammi". Nel primo film la prospettiva era locale, era quella del mio Paese, nel secondo mi muovevo in un territorio estraneo e in questo ultimo capitolo la mia visione del mondo è più globale. Babel è la conclusione naturale alla mia trilogia ma è anche un'occasione per riferire del mio auto-esilio negli States. Io sono un cittadino del Terzo mondo che vive nel Primo mondo dove i rapporti con gli altri non sempre sono facili. Ogni sei mesi devo rinnovare il mio permesso di soggiorno e conosco le tensioni e tutte le pressioni che ci sono dietro a questa condizione.

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Recensione FARGO

Recensione fargo




Regia di Joel Coen, Ethan Coen con Frances McDormand, William H. Macy, Steve Buscemi, Peter Stormare, Kristin Rudrüd, Harve Presnell, Tony Denman

Recensione a cura di Lakshman

La provincia americana. È questo ciò che ci vogliono raccontare i fratelli Joel e Ethan Coen in "Fargo". La famosa e malsana provincia americana, lontana dalle grandi, celebrate e multietniche metropoli che vediamo tutti i giorni in televisione.
Nella tranquilla, sconosciuta e innevata cittadina del North Dakota che dà il nome alla pellicola, invece, si consumano crimini efferati e si tramano piani diabolici. Il film, ispirato a un fatto di cronaca realmente accaduto, narra del rapimento di una donna architettato dal marito per poter chiedere un lauto riscatto al ricco suocero. Rapimento che però non andrà per il verso giusto.

La trama è abbastanza semplice ma la storia serve solo come sfondo e come pretesto alla rappresentazione del male, incarnato in questo caso dall'attore William H. Macy che interpreta Jerry, protagonista e mente del piano. Un male che si presenta sotto le spoglie dell'uomo della porta accanto, in apparenza marito perfetto e padre ideale , dalla faccia per bene e dall'onesta rispettabilità, in realtà mosso solamente dalle sete di dollari che lo porta ad architettare trame che avranno conseguenze tragiche.
Ma l'ambiguità di questo piano non sfuggirà alle ligie forze dell'ordine incarnate qui dalla poliziotta incinta Marge, interpretata dall'attrice Frances McDormand.

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giovedì 9 novembre 2006

Recensione IL GIORNO + BELLO

Recensione il giorno + bello




Regia di Massimo Cappelli con Fabio Troiano, Violante Placido, Carla Signoris, Marco Giuliani, Max Bruno, Giuseppe Antignati, Marco Manetti, Shel Shapiro, Giorgio Colangeli, Claudia Zanella, Luce Caponegro, Ariella Reggio, Patrizia Loreti

Recensione a cura di peucezia

Primo lungometraggio di Massimo Cappelli, il film si occupa di un tema spesso usato ed abusato nella cinematografia: la preparazione al giorno delle nozze, "il giorno più bello" appunto. La "variante" sta nel fatto che i futuri sposi in questione Leo e Nina (Fabio Troiano e Violante Placido, tra l'altro coppia anche nella vita reale), sono due giovani d'oggi, apparentemente anticonformisti e tra l'altro conviventi già da tempo. L'idea iniziale di un matrimonio anticonvenzionale si sposta via via verso una cerimonia fin troppo conformista e classica portandosi via antiche certezze.

Anche se non originalissimo in quanto a soggetto, il film di Cappelli gioca molto sull'ironia e su situazioni paradossali pur nella loro apparente normalità. La base del film è fondamentalmente teatrale, i protagonisti e i loro comprimari fanno appello fino in fondo alle loro capacità dialettiche.
Il film non è basato su azione o mimica, ma è decisamente "parlato". Spiccano in quanto a inventiva verbale l'amico e collega di Leo alias Marco Giuliani e il pirotecnico padre Tito, un ex militante di estrema sinistra fattosi frate che fulmina i suoi fedeli con prediche infarcite di citazioni dal "Capitale" di Marx. Un posto a sé lo merita Shel Shapiro, ovvero il padre della protagonista, ex hippy e barricadero ma anche a suo modo amante della tradizione, mentre Carla Signoris si limita ad alcune insipide battute riservando evidentemente la sua verve alle partecipazioni televisive accanto al marito Maurizio Crozza.

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mercoledì 8 novembre 2006

Recensione LA SCONOSCIUTA

Recensione la sconosciuta




Regia di Giuseppe Tornatore con Xenia Rappoport, Michele Placido, Claudia Gerini, Piera Degli Esposti, Alessandro Haber, Clara Dossena, Angela Molina, Margherita Buy, Pierfrancesco Favino

Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli (voto: 7,5)

Il premio oscar Giuseppe Tornatore ritorna dietro alla macchina da presa dopo un'assenza durata sei anni. Questa volta ci racconta una storia dura, cupa e violenta, ma intrisa di una malinconica indulgenza. "La Sconosciuta", contrariamente a quanto asserito da certa parte della critica che lo ha definito un thriller o un noir, è un film drammatico che affronta tematiche di mali umani e sociali.
Si consiglia la lettura di quanto segue solo a chi abbia visto il film, poiché è inevitabile per una corretta analisi rivelare alcuni dei suoi principali colpi di scena.

Il film può essere suddiviso in quattro parti, ognuna delle quali presenta tematiche e scelte di regia differenti. Queste, in alcuni casi, sono differenze sottili, in altri invece sono così eclatanti da creare sconcerto.

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lunedì 6 novembre 2006

Recensione IL MERCANTE DI PIETRE

Recensione il mercante di pietre




Regia di Renzo Martinelli con F. Murray Abraham, Harvey Keitel, Jordi Mollà, Jane March

Recensione a cura di fidelio.78

"Ricordati di dimenticarla", il libro di Corrado Calabrò a cui è (molto) liberamente ispirato il film, parla della rivoluzione sessuale nell'Italia a cavallo degli anni 60-70. Martinelli (regista di Vajont, Porzus, Piazza delle cinque lune) riadatta la storia trasportandola ai giorni nostri sostituendo lo scontro politico-generazionale con quello tra occidente e Islam.

Leda e Alceo sono una coppia borghese italiana che ha vissuto sulla propria pelle il dramma del terrorismo: lui (un professore ossessionato dagli eccessi della cultura islamica) perdendo le gambe in un attentato terroristico a Nairobi, lei (moglie devota al marito mutilato) uscendo indenne da una sparatoria in aeroporto tra terroristi e agenti segreti.
I nomi portano subito l'attenzione su una sceneggiatura forse troppo pretenziosa: Leda (un'affascinante Jane March) è la fanciulla sedotta da Zeus sotto forma di cigno, mentre Alceo (un monocorde Jordi Mollà), altro nome evocativo, è un poeta di Mitilene contemporaneo di Saffo.
Dopo lo sventato attentato all'aeroporto, i coniugi decidono di partire per la Cappadocia dove incontrano Ludovico Vicedomini (un H. Keitel sottotono), un mercante di pietre italiano convertitosi all'Islam. Il mercante seguirà Leda a Roma confessandole il suo amore e tra i due inizierà così una storia d'amore dagli sviluppi alquanto ovvi. Dall'estrema prevedibilità alla rozzezza dei dialoghi è tutto un banalizzare continuo di situazioni e personaggi mostrati con una regia eccessiva e fuori luogo.

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