lunedì 27 novembre 2006

Recensione FLAGS OF OUR FATHERS

Recensione flags of our fathers




Regia di Clint Eastwood con Ryan Phillippe, Jesse Bradford, Adam Beach, Barry Pepper, John Benjamin Hickey, John Slattery, Paul Walker, Jamie Bell, Robert Patrick

Recensione a cura di Harpo (voto: 7,5)

Clint Eastwood è uno statunitense che ama la sua patria; è fiero di essere americano, ma allo stesso tempo non risparmia le critiche a certi comportamenti che vengono intrapresi dalla sua nazione per il "bene comune".
L'ultima opera del famoso regista/attore racconta lo sbarco americano sull'isola giapponese di Iwo Jima, analizzando in particolar modo le conseguenze che tale evento ha portato all'interno degli USA.
Al fine dell'analisi del film, è bene riportare un paio di nozioni storiche utili a capire in quale contesto si va a collocare questo scontro. Il periodo è quello della guerra del Pacifico. Questo conflitto esordisce in tempi precedenti rispetto alla Seconda guerra mondiale pur vedendo protagonisti gli americani solamente a partire dal 1941 (con il noto attacco giapponese alla base americana di Pearl Harbor). "Flags of our fathers" parla di uno dei più sanguinosi capitoli di questo conflitto: l'attacco americano all'isola di Iwo Jima, roccaforte giapponese situata a sud dell'arcipelago nipponico. Iniziato il 19 dicembre del 1945, questo fu uno degli scontri cruciali della Seconda guerra mondiale, nonché una delle pagine più sanguinose del conflitto stesso: in poco più di un mese i caduti statunitensi furono settemila, quelli giapponesi circa tre volte tanto; infatti la maggioranza dei militari nipponici preferirono il suicidio alla cattura.
Da questo momento in poi saranno svelate delle parti sostanziali della trama e, di conseguenza se ne sconsiglia la lettura a chi non ha ancora visto il film, caldeggiandone comunque la visione.
"Flags of our fathers" racconta le vicende di un gruppo di marines, composto da sei uomini, impegnati in questa violenta battaglia. I protagonisti, dopo la conquista di parte dell'isola, piantano nel suolo giapponese la bandiera americana e, dopo essere stati immortalati in una fotografia, verranno consacrati come eroi. Tre di loro moriranno, la restante metà verrà idolatrata in patria. La foto in questione diverrà poi il filo conduttore di tutta la storia.

Ciò che più colpisce nel film di Eastwood è il sentimento con cui il regista narra la vicenda. Come già scritto in precedenza, Clint ama l'America e nella pellicola questo affetto è ampiamente riscontrabile. Il suo rispetto è rintracciabile nell'immagine che egli ci fornisce dei marines: sono persone "normali" che moriranno per servire la patria. I sopravvissuti non sono eroi: sono solo individui che hanno un alto principio etico e morale della vita e, soprattutto, del loro servizio.
Però la sua visione dei fatti non è unilaterale: Eastwood non si dimentica del vero lato sporco della medaglia, evitando così di fare di tutta l'erba un fascio. Il suo film è radicalmente diverso da "Salvate il soldato Ryan" di Spielberg (qui nelle vesti di produttore). Nella pellicola di Steven è ravvisabile un enfatizzazione dell'esercito americano: ogni militare statunitense in "Saving Private Ryan" è rappresentato come un eroe. In "Flags of our fathers", invece, la parola "eroe" non è contemplata.
A dire il vero è lo stesso Eastwood che, alla fine della pellicola ci ricorda: "Sono le persone comuni che hanno bisogno di credere, di inventare gli eroi. I veri eroi sono quelli morti per salvare la vita a chi stava di fianco a loro e i loro nomi noi neppure li conosciamo" (cfr. James Bradley).
"Flags of our fathers" è un film che si prepone una demistificazione degli eroi: in quest'opera i marine vengono rappresentati senza quell'aura d invincibilità tanto cara agli americani, che non perdono mai occasione di eliminare ogni parvenza di "debolezza" nei propri miti. Eastwood "vuole bene" ai soldati, ma proprio per questo li ritrae come uomini normali, rendendoli quindi ancor più vicini a noi.
Clint, quindi, oltre a non mitizzare i marines, critica aspramente la classe dirigente americana. Questo pensiero è distinguibile già nella prima parte del film. Il valore e la moralità dei soldati sono inversamente proporzionali a quelli di taluni politici. Se i primi saranno devoti alla patria e pronti a servirla anche nelle situazioni più drammatiche, i secondi saranno impegnati solo a vedere il lato più superficiale della vittoria. A loro avviso la conquista di Iwo Jima non è il trionfo dell'impegno di tantissimi marines morti per aiutare l'America: è piuttosto interpretata come un trionfo finanziario, atto solamente a convincere il popolo che questa guerra non è stata poi così assurda. Per Gerber, importante funzionario del ministero del Tesoro, e personaggio chiave della pellicola, l'immagine che ritrae i marines sul monte Suribachi non è il frutto del sacrificio, ma "una foto, che poi non ne è neanche così bella (non fa vedere neanche le facce!) e che sembra aver fatto capire agli americani di aver vinto la guerra". Questa, ovviamente, è una tesi fortemente superficiale.
Ma il primo riscontro palpabile delle menzogne raccontate dagli americani è intuibile in alcune scene precedenti. Una, in particolare, è molto indicativa. I marines hanno appena terminato una campagna di addestramento e si stanno recando a Iwo Jima in nave. I caccia alleati decidono di dar spettacolo, prodigandosi in gagliarde manovre volanti; i militari sono al settimo cielo. Uno dei tanti, sporgendosi dalla nave, cade e i suoi compagni, inizialmente, sono divertiti.
La scena appare in un primo momento ridicola e, forse, perfino comica; i marines cercano di passargli una cima, ma lo sprovveduto non riesce ad afferrarla. Non verrà calata nessuna scialuppa e il soldato sarà destinato a morire annegato. A questo punto il motto dell'esercito "non ti lasciamo mai solo" citato da un commilitone non appare solo grottesco: la valenza di queste parole assume un significato insolente, denotando nello Stato Maggiore una certa spudoratezza nel mentire.

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