lunedì 31 marzo 2008

Recensione IL PETROLIERE

Recensione il petroliere




Regia di Paul Thomas Anderson con Daniel Day-Lewis, Paul Dano, Kevin O'Connor, Maya Rudolph, Mary Elizabeth Barrett

Recensione a cura di ferro84 (voto: 7,5)

Protagonista assoluta dell'ultima edizione degli Oscar insieme a "Non è un paese per vecchi", "Il Petroliere" rappresenta un ritorno in grande stile al vecchio West, questa volta senza sceriffi o pistoleri ma con una storia di potere e violenza.
Paul Thomas Anderson con questo film si guadagna la definitiva consacrazione fra i più grandi registi di Hollywood, portando sul grande schermo un'opera monumentale, riesce ad uscire dagli schemi preordinati di un certo tipo di cinema.

Tratto dal romanzo di Upton Sinclair "Oil!", il film racconta la storia del boom petrolifero della California dei primi del '900, concentrandosi sulla controversa figura Daniel Plainview. Da povero minatore di argento, Plainview diventa un grande produttore di petrolio grazie la scoperta di ricchi giacimenti in un piccolo villaggio dell'Ovest degli Stati Uniti. La sua venuta porterà scompiglio nella povera cittadina e la sua avidità sarà motivo di scontro con il leader religioso del luogo, il predicatore Paul Sunday.

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Recensione INTERVISTA COL VAMPIRO

Recensione intervista col vampiro




Regia di Neil Jordan con Tom Cruise, Brad Pitt, Antonio Banderas, Kirsten Dunst, Christian Slater, Thandie Newton

Recensione a cura di Zero00

"Avevo venticinque anni quando divenni un vampiro, era il 1791".

Come vi comportereste se qualcuno cominciasse a raccontare così la storia della propria vita?
A parlare è un ragazzo, folta capigliatura nera ed abbigliamento impeccabile. Eppure afferma di essere un vampiro, un non-morto, un essere leggendario con più di duecento anni. Cosa fareste voi di fronte ad un individuo del genere? La cosa meno sensata sarebbe forse intervistarlo. Eppure è proprio questo che succede in "Intervista col Vampiro", film di Neil Jordan del 1994.

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giovedì 27 marzo 2008

Recensione PERSEPOLIS

Recensione persepolis




Regia di Marjane Satrapi, Vincent Paronnaud con Catherine Deneuve, Danielle Darrieux, Simon Abkarian, Gena Rowlands, Chiara Mastroianni, Tilly Mandelbrot

Recensione a cura di peucezia (voto: 8,0)

E' un autentico gioiellino questo film d'animazione che è stato candidato all'oscar 2008 e che si è meritato 15 minuti di ovazione a Cannes.
Bildungsroman, storia di formazione della sua autrice Marjane Satrapi, una giovane iraniana che ha tradotto in un'ora e mezza i quattro volumi della sua graphic novel (romanzo a fumetti), "Persepolis" si avvale di una tecnica antica ma al tempo stesso innovativa per chi ormai vede i cartoni animati generati solo dai pixel e non più dalle cartelle disegnate come si faceva una volta: bianco e nero con stralci di colore (la scelta ha un significato simbolico in quanto si sceglie di colorare solo l'aeroporto di Parigi dove l'autrice risiede e dove è "nata" per la seconda volta), disegno bidimensionale che può alla lontana ricordare lo stile del nostro Luzzati, voluta astrazione un po' favolistica, tratto semplice per raccontare una storia che di fiabesco non ha nulla.
La Satrapi racconta in prima persona, prima da bambina, quindi da giovane donna, degli eventi che hanno profondamente segnato il suo paese, l'Iran, ma anche il mondo intero. L'autrice non si sofferma in maniera capillare sui fatti storici: così non si parla dell'ayatollah Khomeini o di Saddam Hussein né degli ostaggi nell'ambasciata americana, ma di quello che una ragazza appartenente a una famiglia normale, forse solo più aperta e colta rispetto alla media del Paese, ha potuto soffrire con i cambiamenti avvenuti nella società della sua nazione.

Marjane inizia come una bimba allegra e fantasiosa che parla con Dio, ma gli avvenimenti finiscono col ferirla profondamente perché colpiscono la sua patria, la sua famiglia e lei in quanto donna, essere umano che il nuovo regime tende fortemente a ridimensionare. Le donne della famiglia Satrapi sono evolute ed intelligenti; la madre e la nonna fumano tranquillamente e guidano l'auto, ma sono costrette a piegarsi almeno fuori di casa alla logica del velo ed alle umiliazioni che i guardiani della repubblica, uomini barbuti tutti uguali, infliggono loro in quanto esseri "inferiori".
Si parla di esecuzioni di avversari del nuovo regime (compreso uno zio di Marjane) come anche del pauroso ritorno al passato compiuto dall'Iran, che pure tanto sperava dopo aver abbattuto il precedente scià Pahlavi; tuttavia la scelta dell'animazione, pur puntando comunque dritto agli occhi ed al cuore dello spettatore, mantiene un'aura sospesa: ne sono esempio i dialoghi con la divinità barbuta, i fiori che la nonna mette sempre per sentirsi profumata, che invadono lo schermo e danno per un attimo l'illusione di sentire l'aroma sprigionarsi.

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Recensione TEMPI MODERNI

Recensione tempi moderni




Regia di Charles Chaplin con Charles Chaplin, Paulette Goddard, Henry Bergman, Tiny Sandford, Chester Conklin, Hank Mann, Al Ernest Garcia, Lloyd Ingraham

Recensione a cura di Giordano Biagio (voto: 9,5)

Cinque anni dopo "Luci della città" Charlie Chaplin gira nel 1936 "Tempi moderni", un film sonoro che stranamente non presenta ancora dialoghi orali; una pellicola fortemente controcorrente e dalle caratteristiche composite, comiche e satiriche, che prende di mira il mondo degli industriali tayloristi e tutta la filosofia capitalistica, rappresentando magistralmente i principali paradossi di un'epoca in forte cambiamento.
Il film si articola con codici narrativi originali, lasciando stupefatti critica e stampa per l'efficacia comunicativa delle scene, che trattano argomenti socialmente sensibili quali lo sfruttamento degli operai nella catena di montaggio e le sventure esistenziali legate alla disoccupazione, in un'atmosfera di gioco e divertimento mai realizzata prima.

Il film nasce in un momento critico per l'industria americana: la grande depressione degli anni '30 si fa ancora sentire e la scelta del taylorismo è traumatica; fa parte in toto della nuova filosofia industriale della competizione spinta agli eccessi, esasperata, che mette in piedi, cinicamente, un'organizzazione del lavoro senza precedenti, dagli effetti alienanti, stranianti, tali da preannunciare ai lavoratori un futuro di completa squalificazione professionale e un martirio psicofisico senza precedenti nella storia moderna del lavoro accompagnato, per giunta, dall'annullamento di numerosi diritti acquisiti in precedenza dal proletariato.
Il metodo scientifico tayloristico, che consentiva di sfruttare al massimo gli operai riuscendo nello stesso tempo a tenere acceso in loro un forte interesse di vita, si affermerà in tutto il mondo occidentale grazie alla sua sbalorditiva efficacia produttiva. Il taylorismo riduce l'uomo a mera funzione meccanica, ripetitiva, obbligando il proletariato a ritmi produttivi impossibili, estenuanti che portano in breve tempo a dure lotte sindacali e politiche. Nel '36 il taylorismo negli Stati Uniti non gode di apprezzamenti neanche da parte dei soggetti sociali piccoli borghesi, come gli impiegati e gli artigiani, perché temono che la filosofia del pieno sfruttamento dell'energia umana, attuata come mostra il film con l'ausilio del sistema di video-controllo, possa estendersi in ogni piega del mondo del lavoro generalizzando l'alienazione. In Europa il taylorismo ha un diverso impatto, s'immerge in una società più composita dove convivono realtà di lavoro diverse e di solida tradizione che manterranno un proprio spazio, produttivo e creativo.

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martedì 25 marzo 2008

Recensione UN BACIO ROMANTICO

Recensione un bacio romantico




Regia di Wong Kar-wai con Norah Jones, Jude Law, David Strathairn, Natalie Portman, Rachel Weisz

Recensione a cura di Jellybelly

Dopo il successo di critica e pubblico ottenuto con i suoi incantevoli "In the mood for love" e "2046", il regista cinese adottato da Hong Kong Wong Kar Wai si cimenta nella sua prima pellicola in lingua inglese, lasciando per l'occasione anche la sua amata patria, fonte d'ispirazione e passioni; il risultato è "My blueberry nights", pellicola non a caso incentrata sulla distanza, fisica ed affettiva.

La storia è quella di Elizabeth (Norah Jones), giovane ragazza newyorkese che trova nel gestore di un ristorante (Jeremy, interpretato da Jude Law) un insolito e discreto confidente con cui sfogare la sofferenza per essere stata lasciata dal proprio fidanzato. Piccoli bocconi di torta al mirtillo faranno maturare in lei la convinzione di partire alla scoperta di se stessa, di nuovi stimoli, di nuove opportunità: lungo la strada la sua vita incrocerà quella di altre esistenze disilluse, vittime della solitudine e della distanza dai propri affetti: sarà proprio grazie agli incontri con spiriti perduti come quelli di Arnie e Sue Lynn (David Strathairn e Rachel Weisz), due ex coniugi alla deriva, o di Leslie (Natalie Portman), ricca ed intrigante giocatrice di poker, ad indicarle la strada da seguire.

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Recensione 2046

Recensione 2046




Regia di Wong Kar-Wai con Tony Leung Chiu Wai, Gong Li, Faye Wong, Takuya Kimura, Ziyi Zhang, Carina Lau Ka Ling, Chang Chen

Recensione a cura di martina74 (voto: 9,0)

Dove si conclude "In the mood for love" inizia "2046": un tempo antico, un albero, un segreto ed un buco nel tronco in cui custodirlo.
Per chi non ha visto il precedente capolavoro di Wong Kar Wai, è bene anticipare che questo "2046" apparirà incompleto, anche se non si può definire in senso stretto un suo seguito.
Il protagonista è sempre Chow, giornalista e scrittore tornato a Hong Kong dopo un volontario esilio di tre anni a Singapore. La vicenda, che si svolge a partire dal 1966, lo vede dolente e solitario in un dozzinale albergo, mentre tenta di mantenersi scrivendo articoli di costume quando fuori dalle mura del misero edificio e fuori dalla sua esistenza di seduttore si succedono i turbolenti avvenimenti della Storia.

In verità, tuttavia, quel che importa in questo lavoro di Wong Kar Wai non è la trama, ma lo sguardo obliquo e indagatore del regista nella vita intima e nella coscienza dello scrittore, perso nelle sue innumerevoli conquiste che si susseguono nell'impossibile compito di dimenticare Li-zhen, l'Amore che gli ha sconvolto la vita e che l'ha reso fragile al punto da doversi costruire attorno la corazza di un seduttore impenitente, che sembra uscito direttamente da un noir del Dopoguerra. Brillantina sui capelli ed espressione sfacciata, Chow vaga da una relazione all'altra senza esserne coinvolto, addirittura umiliando le sue amanti trattandole come prostitute, negandosi e facendosi desiderare con un'immagine sempre viva nella mente: quella della seconda Li-zhen (una splendida eD oscura Gong Li) conosciuta a Singapore, che ha avuto il potere di evocare la prima Li-zhen, quella dell'amore immacolato e impossibile raccontato nel delicatissimo "In the mood for love".

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giovedì 20 marzo 2008

Recensione LA GRANDE GUERRA

Recensione la grande guerra




Regia di Mario Monicelli con Ferruccio Amendola, Vittorio Gassman, Mario Valdemarin, Tiberio Murgia, Livio Lorenzon, Folco Lulli, Elsa Vazzoler, Romolo Valli, Alberto Sordi, Bernard Blier, Silvana Mangano

Recensione a cura di Marco Iafrate (voto: 10,0)

La rappresentazione degli orrori umani propria di ogni guerra ha conosciuto gli albori praticamente all'inizio del secolo con i primi rudimentali cortometraggi, in cui si impose lo schema seguente: protagonista (individuo, pattuglia od esercito), missione da compiere, conflitto, raggiungimento dell'obiettivo, gratificazione eroica finale; quasi sempre il nucleo narrativo era rappresentato e raccontato, durante la missione o l'evento bellico in atto, da un solo punto di vista così da ottenere la formula tanto sfruttata nei film di guerra: esercito buono (del quale fa parte il protagonista eroe) e nemico cattivo solitamente crudele ed efferato. Con il tempo molti registi si sono allontanati, o almeno hanno cercato di farlo, da questi cliché, facendo nascere l'esigenza di una revisione critica degli avvenimenti iniziando a donare ai film quel carattere antiretorico tanto criticato dalla stampa, preoccupata della demitizzazione della storiografia patriottica che da sempre aveva nascosto i massacri compiuti durante le guerre mettendo in risalto soltanto il coraggio ed il sacrificio dei soldati.
L'impresa di abbattere il tabù culturale del mito della vittoria stava lentamente prendendo forma.

E' sulla scia di "Orizzonti di gloria" di Stanley Kubrick, uscito appena un anno prima, che lo sceneggiatore Vincenzoni trova l'ispirazione per scrivere una storia sulla guerra dal titolo "Due eroi"; la curiosità del grande regista Monicelli e l'intraprendenza del produttore italiano di maggiori ambizioni dell'epoca Dino De Laurentis fanno sì che da questa storia i due realizzino una straordinaria tragicommedia dall'indirizzo decisamente anticonformista.

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mercoledì 19 marzo 2008

Recensione ONORA IL PADRE E LA MADRE

Recensione onora il padre e la madre




Regia di Sidney Lumet con Philip Seymour Hoffman, Ethan Hawke, Albert Finney, Marisa Tomei, Amy Ryan, Rosemary Harris, Alex Emanuel, Jack Fitz, Guy A. Fortt, Edwin Freeman, Natalie Gold, Sakina Jaffrey, Sarah Livingston

Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli (voto: 8,0)

"May you have warm words on a cold evening,
A full moon on a dark night,
And the road downhill all the way to your door.

May you have food and raiment,
A soft pillow for your head,
May you be forty years in heaven
Before the devil knows you're dead!
"

"Onora il padre e la madre" è il mediocre e retorico titolo italiano di questa nuova opera dell'ottuagenario regista americano Sidney Lumet. Questo titolo rievoca il quarto comandamento che recita esattamente "Onora tuo padre e tua madre perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio" (*1) (Es. 20, 12) e dà al film un'impronta ed un'impostazione fuorvianti, specie aprendosi con la didascalia che afferma "non tutti i peccati sono uguali".
Questa scelta non è confacente alla storia narrata da Lumet per due ordini di ragioni. In primo luogo, infatti, essa va a focalizzare l'attenzione sull'infrangere detto comandamento e quindi sembrerebbe voler biasimare e condannare il figlio che si macchia del peccato di non amare i propri genitori. Impostazione evidentemente assai riduttiva, dato che "Before the Devil Knows You're Dead" è un dramma familiare a trecentosessanta gradi, dove tutti sono vittime e tutti sono carnefici. In secondo luogo il quarto comandamento ha una valenza teleologica salvifica e benefica (caso unico nelle Tavole della Legge) ossia potrebbe anche essere riscritto: "Ama tuo padre e tua madre così vivrai nella pace e nella prosperità". In altre parole contiene una promessa intrinseca di benessere, attraverso l'osservanza di una norma di convivenza. Questa accezione non potrebbe discostarsi maggiormente dai contenuti e dai messaggi del film in esame. E questo lo spiegheremo più avanti nel corso di questa analisi, di cui, come sempre, si sconsiglia la lettura a chi non avesse ancora visionato il film.

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martedì 18 marzo 2008

Recensione IL GRANDE DITTATORE

Recensione il grande dittatore




Regia di Charles Chaplin con Charlie Chaplin, Paulette Goddard, Jack Oakie, Reginald Gardiner, Henry Daniell, Billy Gilbert, Grace Hayle, Carter De Haven

Recensione a cura di Giordano Biagio (voto: 8,5)

"Il grande dittatore" è un film comico straordinario, forse unico nel suo genere, che riesce a trasmettere in modo geniale trepidazioni e commozioni legate a eventi eccezionali, memorabili, peculiari e distintivi di un momento storico drammatico, forse irripetibile.
La pellicola si cala nelle intense atmosfere della prima guerra mondiale e della Germania prebellica e vede protagonisti da un lato Hitler (nel film Hynchel) nella sua ascesa al potere, e dall'altro la vita di alcuni poveri ma dignitosi ebrei che sperimentano in prima persona la perdita senza precedenti delle più importanti libertà individuali.
All'interno di un ambiente scenico ricco di sfondi spassosi, dominati da innumerevoli gag, il film utilizza anche la satira e la parodia per descrivere, esorcizzandone la drammaticità, l'irrompere violento di realtà nuove e buie, immaginate dall'autore come logica conseguenza dell'evolversi di alcune dittature verso forme di assolutismo ideologico.

"Il grande dittatore" non si limita ad attraversare con intelligenza e leggerezza umoristica tempi foschi ed irripetibili, ma vuole rilasciare al pubblico anche un prezioso segno di fede nell'amore, sottolineando, con alcune sequenze da antologia, come una vita infelice e materialmente insicura, se accompagnata dalle gioie dell'innamoramento, possa concedere lo stesso momenti lieti e confortevoli che riconciliano con il prossimo.
La nascita di un innocente amore, che vede protagonisti un barbiere ebreo reduce dalla prima guerra mondiale (Chaplin) ed una giovane ragazza delle sue stesse umili origini (Paulette Goddard) trasmetterà allo spettatore una calda luce di speranza verso il futuro.

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lunedì 17 marzo 2008

Recensione IL MIRACOLO

Recensione il miracolo




Regia di Edoardo Winspeare con Claudio D'Agostino, Stefania Casciaro, Carlo Bruni, Anna Ferruzzo, Angelo Gamarro, Rosario Sambito

Recensione a cura di kowalsky

Il 12enne Tonio viene investito da un'auto-pirata; la proprietaria, Cinzia, non si ferma per soccorrerlo. In ospedale il bambino, che non versa in condizioni preoccupanti, scopre di avere il potere di guarire le persone ammalate. Tutto questo aumenta il contrasto con i familiari e accresce la popolarità del piccolo presso la comunità.

Esistono infinite esperienze cinematografiche (o fatti di cronaca reali) che possono portare lo spettatore a identificarsi con il film di Winspeare; tutto dipende dalle angolazioni e dalla personale scelta di vita. E' possibile provare quel senso di oppressione, di coercizione, enfatizzato da Bellocchio nel suo film "L'ora di religione". O magari - rivestendo persino i parametri dello pseudo-blockbuster orientale, vivere l'angoscia di Mun nella sua scoperta/rivelazione/paura della morte ("The Eye") con un processo inverso dei Pang, dalla vita alla morte e non viceversa. Potremmo anche provare interesse per i "Santini" decodificati ad uso e consumo della tv nazional-popolare di casa nostra, e/o spingerci a chiederci il perchè dell'inattesa crisi dei pellegrinaggi a San Giovanni Rotondo o altrove.

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mercoledì 12 marzo 2008

Recensione I PADRONI DELLA NOTTE

Recensione i padroni della notte




Regia di James Gray con Joaquin Phoenix, Mark Wahlberg, Robert Duvall, Eva Mendes

Recensione a cura di Gabriela

"We own the night" fa riferimento alla notte reale, a quella nascosta o a quella del male, sia che abbia un'accezione tragica, romantica o prepotente; ma il titolo cita innanzitutto lo slogan della polizia negli anni ottanta: la notte ci appartiene.

Nella New York edonista di fine anni '80, vetrina scintillante e corrotta del decennio reaganiano, la cocaina è ormai divenuta il carburante che ne traina esistenze e passioni. La criminalità, alimentata dalla crescente immigrazione russa, si contende la spartizione della torta, mentre la polizia, superata per numero e ferocia dei suoi uomini, perde in media due agenti al mese e vede progressivamente perdere la propria supremazia sul territorio.
Bobby Grusinsky, validamente interpretato da Joaquin Phoenix, è un opportunista: la discoteca che gestisce a Brighton Beach a Long Island è frequentata da gangster e da trafficanti, ma chiude più di un occhio, conscio che la via per il successo passa per l'accettazione di più compromessi. Nonostante l'apparente amoralità del suo stile di vita è innamorato di Amada, interpretata dalla sensuale Eva Mendes, e vede nel desiderio di gestire un locale a Manhattan il coronamento della sua via sulla strada del successo. Gli fa da contraltare la tradizione familiare, che vede il fratello Joseph ed il padre Burt arruolati anima e corpo nella polizia di New York.
Il genere poliziesco fornisce il punto di partenza per raccontare la storia di un uomo intrappolato dal suo destino, dall'inevitabile, e le complesse emozioni che possono risvegliare l'amore, la perdita ed il tradimento; difatti non si concentra tanto sulla figura di Bobby (Phoenix) nei confronti della mafia ma soprattutto del dovere che ha lui verso la sua famiglia.

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lunedì 10 marzo 2008

Recensione REC

Recensione rec




Regia di Jaume Balagueró, Paco Plaza con Manuela Velasco, Vicente Gil, Ferrán Terraza, Jorge Yamam, Carlos Vicente, Pablo Rosso, David Vert, Jorge Serrano

Recensione a cura di Jellybelly (voto: 8,0)

Ormai da diversi anni il genere horror, glorioso alfiere del cinema "popolare", diretto, rivolto ai più nascosti istinti dello spettatore, versa in un profondo torpore di idee.
Una parziale scossa è venuta a cavallo tra 20° e 21° secolo da quella fucina di idee che è il cinema orientale, con pellicole come "Ringu", "Ju-on", "Dark water" e "Two sisters", prontamente fagocitate da Hollywood per una serie di remake, rimpasti e camuffamenti più o meno riusciti; una volta esauritosi anche questo filone nella sua accezione più propriamente mainstream, il genere è però ripiombato nel proprio traballante castello di cartapesta.
In uno scenario tanto desolato si colloca "[REC]", ultima fatica del regista spagnolo Jaume Balaguerò, noto finora soprattutto per pellicole come "Fragile" e "Darkness", che si avvale per quest'ultima sua fatica dell'apporto del collega Paco Plaza.
E l'effetto è devastante.

La storia è quella di Angela, giovane ed ambiziosa conduttrice del programma tv "Mentre tu dormi", che deve raccontare una notte di lavoro in una squadra di pompieri.
Recatasi in caserma assieme al proprio cameraman, si troverà suo malgrado intrappolata all'interno di un palazzo in cui aveva accompagnato un gruppo di pompieri per quello che sembrava essere un intervento di routine in soccorso di un'anziana signora malata. Tra quelle quattro mura si scatenerà l'inferno.

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Recensione LA SCHIVATA

Recensione la schivata




Regia di Abdellatif Kechiche con Osman Elkharraz, Sara Forestier, Sabrina Ouazani, Nanou Benhamou, Hafet Ben-Ahmed, Aurélie Ganito, Carole Franck, Hajar Hamlili, Rachid Hami, Meriem Serbah, Hanane Mazouoz, Sylvaine Phan

Recensione a cura di peucezia

Opera seconda del regista franco-tunisino Kechiche, salito alla ribalta nel nostro paese grazie al suo "Cous cous, "La schivata", pellicola premiata a Venezia nel 2003, è una strana commistione tra docu-fiction, film adolescenziale e storia di denuncia.
Girato in presa diretta senza colonna sonora con uso ed abuso di camera a spalla ed una preferenza per i primi e primissimi piani (tecnica mutuata dal "Dogma"), il film si avvale di interpreti per lo più non professionisti, che più che recitare vivono una storia in maniera realistica.

Siamo nella periferia parigina, la cosiddetta banlieue; il panorama è caratterizzato da casermoni senz'anima e da strade asfaltate, ciuffi di erba qua e là.
Gli abitanti sono di varie etnìe: cinesi, africani e maghrebini; i francesi "autoctoni", dalla pelle candida, sono rarissimi.
Ci si aspetta la solita storia dura di degrado tra droga e prostituzione minorile, ed invece Kechiche offre un aspetto del tutto inedito della vita di periferia: la dedizione degli insegnanti, di alcuni insegnanti che hanno come compito quello di far riscattare questi giovani altrimenti destinati a una vita grigia.

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