lunedì 21 novembre 2011

Recensione I DIABOLICI

Recensione i diabolici




Regia di Henri-Georges Clouzot con Véra Clouzot, Paul Meurisse, Simone Signoret, Michel Serrault, Charles Vanel

Recensione a cura di Ciumi (voto: 8,0)

A fondo di quell'acque, torbide, gelide, chiuse, fisse ad affogare la prima inquadratura, cosa, che in superficie pare quasi sardonico brilli, ribollisce, che non aggalla? La musica, lì si esaurisce. Abbandona le immagini. Sino ai titoli di coda; dove, solo allora, riemergerà, come avendo trattenuto il respiro, impotente e siccome soffocata.
Il tema dell'acqua scorre per tutto l'arco del film, ma caustico, aridamente. Nei suoi innumerevoli travasi, nei suoi gonfiori improvvisi, nei suoi corsi sotterranei; simbolo di quel ciclo oscuro che, attraverso vasi segreti, i nostri sentimenti comanda. Ne fa parte quella metafora fulminea: la barchetta di carta in una pozzanghera lasciata a galleggiare da un qualche bambino, schiacciata dall'automobile di lui che torna, nel cortile del collegio. Ci introduce al pessimismo misantropico dell'opera e del suo autore.

Appena un anno dopo l'uscita di un altro vertice nella filmografia del regista, "Vite vendute", Clouzot nel 1954 firma quello che oggi rimane probabilmente il più noto dei suoi film, tratto dal romanzo "Les diaboliques. Celle qui n'était plus" di Pierre Boileau e Thomas Narcejace, e che gli varrà l'appellativo di "Hitchcock francese"...
Lo stile sobrio, ma non per questo privo d'invenzioni registiche, in contrasto con la torbidezza degli argomenti trattati, è notevole per la capacità con cui l'autore sa creare un clima di suspense che, in queste due opere, passa dal genere avventuroso al thriller. Come anche notevoli sono la modulazione dei tempi narrativi, non sempre convenzionali agli schemi classici, e la direzione degli attori, la caratterizzazione dei personaggi o la precisione con cui vengono curati i dialoghi. Ma al cospetto di tali aspetti tecnici non riusciamo a non considerare come primo ciò che vi sta alla base, i greti che dietro a essi si sollevano, i ruvidi deserti morali ed esistenziali che costituiscono il mondo di Clouzot.
Cinico, violento, sporco, crudele ben oltre i limiti del sadismo; la sua indagine del male, prima che sociologica, parte da un'acuta osservazione dell'individuo. I suoi personaggi - gli uomini, tutti nessuno escluso - vengono osservati nei loro comportamenti più crudi, più vili: sono amanti in fuga ("Manon"); loschi concittadini ("Il corvo"); uomini corrotti, individui sfruttati, spesso profughi, esistenze in attrito tra loro e con l'ambiente circostante; vite che si muovono in scenari squallidi, ostili, che siano essi urbani, naturali, esotici, bellici; esistenze disperate, cannibali, votate al fallimento, immischiate in intrighi irrisolvibili, morse tra un passato oscuro e un avvenire ancora più nero, attirate dentro miraggi che si prosciugano.
Se pensiamo proprio a "Vite vendute", nel torrido e polveroso limbo di un remoto paese dell'America latina, l'autore raccoglieva, a confronto con la popolazione locale, svariate etnie, uomini di diversa estrazione culturale, ma li ritraeva nei medesimi atteggiamenti: ferocia, egoismo, vigliaccheria, avidità e assieme spossatezza, stessi erano i fili che li animavano e come dadi li lanciavano, in una corsa spietata di tutti contro tutti, verso una meta a cui - quale veramente? - nessuno arrivava; mentre altrove si festeggiava e si ballava crudelmente. Non a caso l'introduzione, dove i personaggi venivano presentati e approfonditi uno ad uno, stabiliva, per durata, una sorta di primato nella storia del cinema.
Un discorso analogo si può ripetere per "I diabolici": nella periferia parigina, in un collegio (critica alle istituzioni? alla classe agiata cui fanno parte i diabolici del titolo? non propriamente), egli raccoglie e accomuna: direttrice, maestri, bidelli, bambini; diverse età, diversi ceti sociali, assieme, a bollire.

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