martedì 31 gennaio 2006

Recensione LADY VENDETTA - SYMPATHY FOR LADY VENGEANCE

Recensione lady vendetta - sympathy for lady vengeance




Regia di Chan-wook Park con Lee Young-ae, Choi Min-sik, Kwon Yea-young, Kim Si-hu, Nam Il-woo

Recensione a cura di maremare

Il rito di purificazione già appare nei titoli di testa di questa visionaria trilogia sulla vendetta made in Korea. Il terzo del film di Park Chan-Wook per la prima volta ruota attorno ad una figura femminile, interpretata dalla bella e glaciale Lee Young-Ae. Ingiustamente in carcere tredici anni per il rapimento e l'omicidio di un bambino e alla ricerca del colpevole, Geum-ja è al contempo sadicamente efferata e teneramente materna. Una volta rilasciata, Geum-ja è pronta a riappropriarsi la propria vita con il conforto dei nuovi amici, ma l'idea fissa rimane quella della vendetta.

Il quarantenne coreano Chan-wook parlando della violenza nei suoi film, dice che non intende esaltarla, tutt'altro, cerca di trasformarla in redenzione.
L'idea alla base del film, dichiara, è stata quella di mettere in scena un rito di apprendimento. Non a caso il colpevole, che diventa poi la vittima, è un professore, così come il poliziotto si trasforma in insegnante di violenza e il luogo in cui si consuma la vendetta è una scuola abbandonata. D'altra parte tutta la storia di Geum-ja riguarda l'apprendimento, è un percorso dalla vendetta alla redenzione.

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Recensione LA MOGLIE DEL SOLDATO

Recensione la moglie del soldato




Regia di Neil Jordan con Forest Whitaker, Miranda Richardson, Stephen Rea, Jaye Davidson, Adrian Dunbar, Breffini Mackenna, Joe Savino, Jim Broadbent

Recensione a cura di Laura Ciranna

Ci sono film che ci tengono sulla corda, durante i quali non si può fare a meno di immaginare cosa potrebbe succedere dopo e ce ne sono altri che invece ci coinvolgono emotivamente giocando tutto sull'introspezione e l'immedesimazione da parte dello spettatore.
Neil Jordan in questo film riesce a fondere questi due elementi con un'eleganza e maestria poco comuni, arrivando a confezionare una storia a spirale dai tempi perfetti. Una tensione raccontata in modo viscerale, la storia si dipana piano piano e lo spettatore non può che lasciarsi condurre per mano, senza porsi troppe domande ma facendosi contagiare dagli stati d'animo dei personaggi, fino ad una completa identificazione.
"La moglie del soldato" (titolo italiano che, inspiegabilmente pur se in modo stranamente felice, va a ripescare la prima versione del titolo inglese) è un film complesso e sfuggente, con temi e sottotemi che si inseguono e confondono fino a creare un equilibrio ellittico e sofisticato fra innamoramento, cordoglio, incanto e disgusto.
Un film labirintico che ci fa perdere ogni contatto con la realtà, i cui percorsi conducono ad angoli bui e vicoli ciechi: la cui narrazione, mai pesante o tediosa, sembra voler sarcasticamente frustrare ogni ragionevole aspettativa dello spettatore. Ci si ritrova profondamente coinvolti in una vicenda e nei suoi personaggi, per poi scoprire che l'intera storia ruota attorno ad altro, ma ciononostante non ci si sente traditi.

L'azione comincia in Irlanda quando il soldato inglese Jody (Forest Whitaker) viene rapito dall'IRA per essere usato come "merce di scambio" per la liberazione dei propri capi detenuti dall'esercito britannico.
La storia sembrerebbe una trasposizione del piccolo classico irlandese "Guests of a Nation" di Frank O'Connor in cui un militante dell'esercito repubblicano commette l'errore di stringere amicizia con il proprio ostaggio. Ma Jordan aggiunge qualche tocco in più al semplice confronto di orgogli nazionali (in questo caso l'hurling ed il cricket!) e con dialoghi persino spassosi ci parla della perdita dell'innocenza, tratteggia la questione razziale e ci porta a una riflessione su ciò che è nella nostra natura e che costringe uno scorpione a non essere altro che uno scorpione.
Tutto questo non è che un lungo preambolo, durante il quale il carceriere ed il carcerato si delineano come due spiriti affini, capaci di ridere insieme e animati da paure reali. Così, il terrorista Fergus (un grandissimo Stephen Rea) rimane fedele alla sua gentilezza e promette al soldato Jody che quando non ci sarà più andrà a dire alla sua donna che ha pensato a lei fino all'ultimo.

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lunedì 30 gennaio 2006

Recensione DICK & JANE - OPERAZIONE FURTO

Recensione dick & jane - operazione furto




Regia di Dean Parisot con Jim Carrey, Téa Leoni, Michelle Arthur, Alec Baldwin, Richard Burgi, P.J. Byrne, Lawrence Calvin

Recensione a cura di Simone Bracci

E' arrivata nelle sale per prima. Intendo dopo il mega scandalo finanziario, per meglio dire crack, che ha coinvolto la Enron, una potente azienda statunitense finita in bancarotta. L'ultimo film di Dean Parisot (anche regista per la serie televisiva ER), è un remake della commedia "Non rubare.. se non è strettamente necessario" di Ted Kotcheff del 1977, che vedeva protagonista la coppia George Segal e Jane Fonda. Come tale, l'opera assume i canoni di una vera e propria commedia made in USA.
Ciò che emerge infatti da questo film è la visione contemporanea di un problema più comune agli anni settanta, che rende meno sgradevole la cinica visione dei manager nella nostra società occidentale. "Dick and Jane - Operazione furto" mescola la comicità corporea di un contenuto Jim Carrey (sempre magistrale e qui anche in veste di produttore esecutivo), alla bravura senza sbavature della sua sparring partner Tea Leoni. Un duetto dove il farsesco a cui improvvisamente sopraggiunge il dramma è espressione costante del cinema leggero americano, il quale denota come esista la possibilità che improvvisamente centinaia di persone, abituate ad una vita agiata, si ritrovino a... rubare per sfamarsi, o come si lascia chiaramente intendere qui, per ritrovare il tenore di vita a cui hanno mirato e sgobbato per anni.

Più che la bravura dei due protagonisti, lo spettatore si diverte in compagnia della loro estrosa simpatia, mentre la regia di Parisot è per lunghi tratti semplice e quasi impalpabile. Certo fa tristezza pensare a come Alec Baldwin si sia ridotto, ossia a ruoli più che marginali nella Hollywood minore, manco fosse lui vittima e responsabile del fallimento della Globodyne, come invece accade al suo personaggio McCallister.
Dick e Jane rappresentano il sogno americano infranto e, assumendo l'aspetto di persone comuni, diventano il simbolo di una precarietà che circola nello status sociale a stelle e strisce, con i loro goffi modi di fare, con le loro insicurezze, le loro nevrosi, i loro schietti timori.

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Recensione LA CAMERA VERDE

Recensione la camera verde




Regia di Francois Truffaut con Francois Truffaut, Nathalie Baye, Jean Dasté, Jean-Pierre Moulin, Antoine Vitez

Recensione a cura di maremare

Il protagonista de "La camera verde", Julien Davenne, è un uomo che ha vissuto molti eventi luttuosi: ha combattuto nella prima guerra mondiale ed ha perso la giovane moglie pochi mesi dopo il matrimonio. Vive con un'anziana governante ed il figlio adottivo sordomuto. Lavora nella redazione di un giornale, il Globe, dove viene definito dai colleghi 'un virtuoso del necrologio'. Questa è solo la sua vita di superficie: l'uomo ha, infatti, una vita segreta e la trascorre nel ricordo della defunta moglie.
Questa esistenza, nascosta agli occhi del mondo, si svolge all'interno della camera verde, una stanza sempre chiusa a chiave, che si trova nella casa dove vive. Qui egli ha raccolto fotografie e oggetti appartenuti a Giulia, la moglie. In questo spazio egli vive molta parte del suo tempo, a volte vi trascorre l'intera notte, vegliando. La fascinazione per questo universo delle memorie pone il protagonista in una solitudine che ha corroso e assottigliato i suoi rapporti umani. Davenne prova empatia per qualcuno solo nelle situazioni di lutto, ma è incapace di condividere gioie o sorrisi.

Le riprese esterne sono pochissime - e buona parte di queste si svolgono in un cimitero - gli interni sono quasi sempre in penombra e la luce del giorno è filtrata da vetri colorati che conferiscono all'ambiente un'atmosfera intima, religiosa. All'interno di questo scenario si muove il protagonista, a volte ripreso come una silhouette nera in controluce su una finestra dalla tenda bianca (splendida citazione da Hitchcock, il regista più amato da Truffaut) a volte con il volto illuminato da una luce caravaggesca su uno sfondo scuro.
Egli vive il proprio lutto in modo sommesso, si è esiliato dalla vita, senza provarne nostalgia. L'amore del protagonista per i morti è come un furore, una sorta di fanatismo religioso che non ammette alternative, per questo ha deciso di intraprendere una sua battaglia personale contro l'oblio: "Sono scandalizzato dalla facilità con cui si dimenticano i morti". Davenne è un uomo intransigente, non riesce ad accettare la vita per come è, i morti nella loro immobilità si prestano a quella idealizzazione di cui egli ha bisogno per vivere: la moglie rimarrà "eternamente giovane, leale, coraggiosa".

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venerdì 27 gennaio 2006

Recensione IL SOLE

Recensione il sole




Regia di Aleksandr Sokurov con Issei Ogata, Robert Dawson, Kaori Momoi, Shiro Sano, Shinmei Tsuji

Recensione a cura di kowalsky

Nuovamente si pone l'accento sull'accademismo, in funzione della divergenza di un pubblico tradizionale: onde evitare quella categoria di ingessati spettatori "faticosamente" intelligenti, che al cinema pretendono la massima concentrazione e che si credono in teatro, la visione di questo film è consigliabile attraverso l'uso del dvd domestico. Quanto ai suddetti spettatori, non sono certo migliori dei fan sguaiati di Van Diesel, anzi.

In realtà il film di Sokurov, ultimo di una trilogia di potere iniziata con Hitler ("Moloch") e proseguita nell'epilogo sulla vita di Lenin, non è affatto accademico, non nei termini abusati per autori come, per esempio, un De Oliveira, quando egli sembra talvolta imporre il rigore assoluto e PERSUASIVO delle sue tesi. E' un'esperienza più letteraria che visiva questo film (ma forse non è neanche un film) che ti assorbe a poco a poco, pone dubbi e interrogativi, cresce e si espande esattamente come la mai doma affermazione di un potere che non accenna, neanche ai giorni nostri, a dimostrare la propria viltà.
E' una dimensione di coerenza, proprio quando il cinema di Sokurov ci appariva sempre così splendidamente schematico, rigoroso ma anche profondamente discontinuo nel suo lucido formalismo. Lontanissimo, com'è ovvio, dalla spettacolarizzazione fine a se stessa di un Bertolucci (nel suo biopic sull'ultimo imperatore della Cina) ma distante pure dal didattismo filosofico-scientifico de "il nuovo impero" di De Oliveira, è un'opera che sembra - come del resto tutto il cinema di Sokurov - affrontare la storia del mondo con un'urgenza "embrionale", come se tutto passasse dal desiderio espressivo di lordare la sua dimensione di cinema.

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giovedì 26 gennaio 2006

Recensione THE CELL - LA CELLULA

Recensione the cell - la cellula




Regia di Tarsem Singh con Jennifer Lopez, Vince Vaughn, Vincent D'Onofrio, Marianne Jean-Baptiste

Recensione a cura di Matteo Sonego

Catherine Deane (Jennifer Lopez) è una psicologa infantile che, grazie ad una tecnica sperimentale di trasferimento sinaptico, riesce ad entrare con la propria mente in quella dei suoi piccoli pazienti in coma, per cercare di risvegliarli. Carl Stargher (Vincent D'Onofrio) è un maniaco psicopatico che rapisce giovani donne, le annega, e le trasforma in bambole a scopo sessuale. Il killer agisce sempre allo stesso modo: sequestra una ragazza, le tiene in agonia per quaranta ore in una gabbia di vetro che pian piano si riempie d'acqua, ed infine la trasforma in bambola tenendola immersa nella candeggina. Peter Novak (Vince Vaughn) è l'agente dell'FBI che si occupa del caso Stargher.
In seguito all'ennesimo rapimento di una giovane, Novak riesce ad arrestare il serial killer, il quale però entra in coma irreversibile a causa di una gravissima malattia dalla quale è affetto. L'FBI ha dunque bisogno di comunicare con il maniaco per cercare di capire dove si trovi l'ultima ragazza da lui rapita. Novak decide allora di chiedere aiuto a Catherine la quale, con la sua particolare tecnica, è l'unica a poter entrare nella testa del killer per cercare di carpirne qualche informazione utile al ritrovamento della ragazza.

"The Cell", tradotto erroneamente con il titolo "La cellula" anzichè "La cella", è un thriller psicologico atipico. La trama, infatti, non si svolge attorno al tentativo di cattura dell'omicida, che viene arrestato dopo appena venti minuti di film, bensì dentro la mente dello stesso.
Di fatto lo spettatore entra con Catherine nella mente di uno psicopatico, e rimane intrappolato in una serie di situazioni tanto inquietanti quanto perverse, meandri oscuri che compongono un unico labirinto mentale fatto di immagini allucinanti, violente, brutali, miste a ricordi d'infanzia, a gocce d'isteria e schizofrenia, sensazioni laceranti, pazzia.
È un film altamente visionario quello che Tarsem ci propone, dove l'immagine è la vera protagonista. I colori forti, le superfici taglienti, gli scenari che non hanno forme nè dimensioni precise, i ricordi che si mescolano a sogni perversi, tutto ciò che si vede va a colpire visivamente lo spettatore, anche grazie alla grande varietà di inquadrature, che a tratti corrono freneticamente, vanno a scatti, rallentano, distorcono lo spazio. Questo luogo sconfinato e intricato diventa una vera e propria prigione, non solo per Stargher, vittima di sè stesso, ma anche per Catherine, che ha l'arduo compito di provare a orientarvisi.

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mercoledì 25 gennaio 2006

Recensione QUALCUNO VOLO' SUL NIDO DEL CUCULO

Recensione qualcuno volo' sul nido del cuculo




Regia di Milos Forman con Jack Nicholson, Louise Fletcher, William Redfield, Scatman Crothers, Will Sampson, Danny DeVito, Christopher Lloyd, Brad Dourif

Recensione a cura di Matteo Bordiga

"Io... ti porto con me... Andiamo."
Andiamo, R.P. McMurphy, andiamo verso la vita, verso la speranza.
Lontano da questo posto, dove si consuma la peggiore, la più disumana delle follie, quella di chi i folli dovrebbe guarirli.

"Qualcuno volò sul nido del cuculo" è la storia (basata sul romanzo firmato da Ken Kesey) di uno stravagante e impenitente teppistello, indossato da Jack Nicholson, che viene rinchiuso in un manicomio per verificare, ed eventualmente curare, la sua presunta instabilità mentale.

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martedì 24 gennaio 2006

Recensione INDAGINE SU UN CITTADINO AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO

Recensione indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto




Regia di Elio Petri con Gian Maria Volontè, Florinda Bolkan, Gianni Santuccio, Orazio Orlando, Sergio Tramonti, Arturo Dominici, Aldo Rendine

Recensione a cura di Lot (voto: 10,0)

"Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto"di Elio Petri

Nel 1961 Elio Petri esordì con il suo primo lungometraggio "L'assassino" ma si vide costretto dalla censura a tagliarne una scena semplicemente perché vi si mostrava un poliziotto dalle scarpe sporche di fango che veniva ripreso bruscamente da un portiere.
Vilipendio dell'autorità costituita?
Il regista si rifarà, con gli interessi, dieci anni più tardi.

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lunedì 23 gennaio 2006

Recensione CHE FINE HA FATTO BABY JANE?

Recensione che fine ha fatto baby jane?




Regia di Robert Aldrich con Bette Davis, Joan Crawford, Victor Buono, Anna Lee

Recensione a cura di Pasionaria (voto: 8,0)

E' vero: gli amici si scelgono, i parenti no e ancor meno i fratelli. La famiglia spesso nasconde al suo interno torti imperdonabili e oppressioni crudeli. Per questo, da sempre, la creatività di drammaturghi, romanzieri e registi si è ispirata alle sadiche dinamiche famigliari. Anche Henry Farrell scrive un racconto sul tema, da cui Aldrich trae l'omonimo film, "Whatever happened to Baby Jane?", un cult del genere.

Il regista ci narra il difficile rapporto delle anziane sorelle Hudson, indissolubilmente legate a filo doppio da rancori, invidie e sensi di colpa. Jane (Bette Davis) e Blanche (Joan Crawford), carnefice la prima, vittima la seconda (ma non sempre la verità è come appare), convivono rendendosi vicendevolmente l'esistenza un inferno, in un diuturno gioco sadomasochistico, fino al colpo di scena finale che rimescola le carte e rimette ogni cosa in discussione (compreso l'incipit della storia).
Già dai primi fotogrammi, infatti, si respira l'aria del thriller, grazie ad un breve, fondamentale flashback; poi immediatamente il regista ci cala nel melodramma della relazione parentale, fulcro della storia. Ne rimaniamo coinvolti fino all'apice della follia, quando rancori e segreti, a lungo trattenuti, si rivelano, liberandoci dalla tensione.

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sabato 21 gennaio 2006

Recensione A HISTORY OF VIOLENCE

Recensione a history of violence




Regia di David Cronenberg con Viggo Mortensen, Maria Bello, Ed Harris, William Hurt, Ashton Holmes

Recensione a cura di cash

Prima o poi i traumi riaffiorano. Per quanto una persona possa ingannare se stessa e gli altri, i traumi riaffiorano. E son problemi. Cronenberg analizza il momento esatto della vita di un uomo apparentemente beatificato dall'american dream: ha una famiglia perfetta, una donna che lo ama come il primo giorno, due bimbi carini carini con cui ha un dialogo irreprensibile. E lavora in una tavola calda, una di quelle in cui la comunità del solito paesino provinciale (in cui pare che mai nulla debba accadere) si ritira a bere caffè e a mangiar torte ogni pomeriggio, aggiornandosi sul tranquillo tedio che compone le loro giornate. Ma in questa stessa tavola calda accade l'imprevisto, e con troppa e sospetta facilità il buon Viggo fa fuori due rapinatori "che fanno sul serio".
La vicenda innesca una bomba che detonerà con l'incontro di strani personaggi che sembrano perseguitare il punitore, cercando di attribuirgli un'identità che esso stesso nega con tutte le sue forze. A sproposito si è parlato di colpo di scena; ciò che potrebbe sembrare telefonato non lo è nella logica in cui non si dà come colpo di scena. La "rivelazione" è un semplice nucleo nella sinossi del film, per cui non sarebbe nemmeno opportuno parlare di spoiler. Cronenberg non vuol stupire nè con colpi di trama (semmai di trauma) nè con effetti speciali, grazie a Dio.
Il suo è un semplice excursus in un genere che non gli compete, ma le tematiche di fondo rimangono comunque le stesse; ha ragione chi ha parlato di un "Inseparabili" in solitario. Ed è proprio perchè è un genere che non gli compete che probabilmente gli è riuscito così bene; Cronenberg, come ogni autore che si rispetti, non cede alle lusinghe di un pulp a tutto spiano e mostra la violenza con il contagoccie. In fin dei conti, vista una testa saltata le hai viste tutte: e se è vero che le sequenze prettamente violente sono pochine, va anche detto che si tratta di puri momenti in cui l'efferatezza è diluita non poco.

Insomma, quando questo film è violento lo è per davvero, non si scherza. Anzi, non si scherza affatto; Cronenberg, che non è uno sprovveduto, ha capito che di fronte ad un film a carattere violento ci sono solo due strade da seguire: la strada dell'ironia e del sorriso che accompagna ogni zampillo di sangue o la completa austerità. Vie di mezzo non ce ne sono, o si fa un "Ichi the Killer" o si gira un "History of Violence". E la pellicola è cupa, malinconica, claustrofobica nella psicologia e senza uscita nel suo darsi come punto di non ritorno. E la violenza, come un virus, si propaga in fretta e attecchisce bene e facilmente; quando un ineludibile lato del carattere viene solleticato dalla circostanza non solo esplode, ma lo fa nel peggiore dei modi, si veda la profonda e radicale trasformazione del figlio.

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venerdì 20 gennaio 2006

Recensione MATCH POINT

Recensione match point




Regia di Woody Allen con Scarlett Johansson, Jonathan Rhys-Meyers, Emily Mortimer, Matthew Goode, Brian Cox, Penelope Wilton

Recensione a cura di Simone Bracci

Premetto che non amo l'opera, specie nella sua veste da grande schermo.
Ma l'impresa con cui Woody Allen si rimette in gioco è la sublimazione cinematografica di un atto teatrale elegante e raffinato, contemporaneo è al tempo stesso eternamente antico. Prendendo spunto dalla Carmen di Bizet e dall'opera drammaturgica italiana, sottolineata da un'accurata ed incalzante scelta musicale, Allen concede nuove prospettive alla sua lunghissima carriera, allontanandosi dagli standard della commedia che l'hanno reso famoso.

Lontano da casa, l'amata New York, Allen per il suo trentacinquesimo film da regista, il secondo consecutivo solo dietro la macchina da presa dopo "Melinda e Melinda", sterza bruscamente, passando da una comicità fatta di dialoghi pungenti, alla tragedia rivista in chiave espressivamente visiva.
Niente è così esplicativo quanto il titolo, che richiama al punto (tennistico) in un'intensa tragica partita sentimentale. Dove l'amore è sacrificato per la menzogna e l'agiatezza di routine.

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Recensione 2001 ODISSEA NELLO SPAZIO

Recensione 2001 odissea nello spazio




Regia di Stanley Kubrick con Keir Dullea, Gary Lockwood, William Sylvester, Daniel Richter, Leonard Rossiter, Margaret Tyzack, Robert Beatty, Sean Sullivan, Douglas Rain, Frank Miller, Bill Weston, Ed Bishop, Glenn Beck, Alan Gifford

Recensione a cura di Matteo Bordiga

"Stanley mi disse che, alla 'prima' di 2001, oltre duecento persone, fra critici e produttori, abbandonarono anzitempo la sala in segno di disappunto." Nelle parole di Jack Nicholson, intervistato qualche anno fa nell'ambito della realizzazione dello speciale "Stanley Kubrick: a Life in Pictures" (Warner Bros.), sta tutta la sofferenza e l'amarezza del regista che, dopo aver firmato una delle più rivoluzionarie pellicole di tutti i tempi, non vide immediatamente riconosciuti il suo genio e la sua poesia.
Quei duecento disgraziati in giacca e cravatta, convinti magari di assistere a un film costretto entro i limiti del genere "fantascienza", decisero di deporre le armi e squagliarsela prima di venire soffocati dalla loro ottusità, dalla loro incapacità di interpretare, dalla loro pigrizia intellettuale.
E fu un bene: un film come "2001: Odissea nello Spazio" non poteva rivelare subito la sua grandezza, né tantomeno venire compreso da gente azzimata, impomatata e attenta solo, presumibilmente, a soppesare ogni scena traducendola in dollaroni...

Per la verità, anche grandi cinefili reagirono male alla prima visione dell'epic-drama di Stanley Kubrick: il caso più eclatante è rappresentato da Woody Allen il quale, parole sue, rimase "profondamente deluso" dall'impatto con 2001, salvo rivalutarlo successivamente e incoronarlo come "a really, really sensational movie!"
Qual è il mistero di 2001, quale la sua magia, la sua sorprendente capacità di ipnotizzarci ogni volta che lo rivediamo?
"Stanley e io non volevamo realizzare un film, volevamo regalare al pubblico un'esperienza", spiega Arthur C. Clarke, autore dell'omonimo romanzo e co-sceneggiatore di "2001: Odissea nello Spazio", "e l'obiettivo era quello di solleticare l'animo, l'interiorità delle persone, spingerle a confrontarsi con l'Universo e con ciò che ci potrebbe essere oltre, risvegliare il loro senso dell'Infinito. D'altra parte, chiunque non guardasse all'Universo con entusiasmo e inquietudine, e non contemplasse l'idea dell'esistenza di un mondo 'altro', dimostrerebbe di non avere alcuna anima..."
Il segreto di 2001 è proprio questo: stimola la nostra ambizione di Infinito, ci spinge a immaginare scenari possibili proiettandoci oltre lo spazio, oltre le stelle, apre una porta al sogno dell'immortalità e suggerisce l'idea di un cosmo multiforme, multicolore, straordinariamente aldilà, nelle sue più lontane dimensioni, di ogni fantasia umana.

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giovedì 19 gennaio 2006

Recensione THE ELEPHANT MAN

Recensione the elephant man




Regia di David Lynch con Anthony Hopkins, Anne Bancroft, John Hurt, John Gielgud, Wendy Hiller, Freddie Jones

Recensione a cura di Antonio Cocco

Partendo dalla vera storia di Joseph Merrick (uomo afflitto da neurofibromatosi, morbo che gli deturpa gravemente il volto e gran parte del corpo), David Lynch plasma un film dalla singolare intensità emotiva, feroce e commovente allo stesso tempo.
John Merrick (John Hurt) è un ventunenne che fin dalla nascita si porta dietro le deturpazioni dovute alla sua terribile malattia: ha un corpo quasi totalmente ricoperto da escrescenze tumorali, la colonna vertebrale deformata, la forma del cranio assolutamente irregolare e il labbro superiore così anomalo rispetto a quello inferiore da fargli emettere suoni più simili a un animale che a un uomo. Tutto ciò ha contribuito a creargli l'epiteto di UOMO ELEFANTE.
La sua vita è un calvario: trattato come la più turpe delle bestie dal suo tutore/padrone, che lo fa esibire come fenomeno da baraccone nel circo, viene notato dal dottor Frederick Treves (Anthony Hopkins), giovane medico londinese che decide di occuparsi di lui portandolo con sé a Londra e gli riserva una stanza nella clinica in cui lavora.

Per John sembra l'inizio di una nuova vita e di una ritrovata dignità come uomo che non gli era mai stata concessa...ma è tutta un'illusione: il dottor Treves, pur essendo legato a John da un sincero affetto, è animato soprattutto dalla volontà di studiare approfonditamente un caso clinico rarissimo per guadagnare fama e prestigio agli occhi dei suoi già affermati colleghi.
David Lynch sembra dirci: vedete qualche differenza tra il comportamento dell' ex padrone di John, crudele e spietato, e l'atteggiamento del dottore elegante e premuroso?
Per entrambi John è ciò che appare: un'anomalia della natura e, in quanto tale, fonte di profitto.
Ma il dottor Treves gradualmente, come lo spettatore, riesce ad andare oltre l'aspetto esteriore di John, scorgendo sempre più chiaramente chi è John Merrick: un animo nobile, uno spirito sensibile imprigionato in un corpo mostruoso.
E qui torniamo a uno dei temi più cari a Lynch: nulla è mai come appare, ciò che ci sembra evidente, scontato non è altro che la superficie delle cose. E spesso la verità è frutto di una ricerca introspettiva profondissima: solo chi si sforza di andare oltre le apparenze può sperare di capire prima se stesso, e poi ciò che lo circonda... John Merrick compreso!
Ed è quello che fa il dottor Treves quando, rivolgendosi alla moglie, si chiede: "Sono un uomo buono... o sono un uomo cattivo?"
In quel preciso momento Frederick Treves si rende conto di come il suo comportamento nei confronti di John Merrick non fosse molto diverso da quello dell'uomo senza scrupoli da cui l'aveva salvato; tutte le lodi dei giornali e dell'alta società londinese, che lo vedono come un filantropo, non fanno altro che metterlo davanti alla propria pochezza.
John Merrick finalmente ha una stanza in cui dormire, persone che gli danno un po' di calore umano e si prendono cura di lui...insomma, recupera quella dignità umana che nella sua vita non aveva mai avuto.

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