giovedì 31 agosto 2006

Recensione ANIMA PERSA

Recensione anima persa


Regia di Dino Risi con Vittorio Gassman, Catherine Deneuve, Danilo Mattei, Ester Carloni

Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli

Spesso le nostre vite, così come le nostre piccole vicende personali e private, attendono qualcuno, sopraggiunto dall'esterno e da una differente realtà. Hanno bisogno che egli le osservi e che scopra i loro segreti; un testimone che possa raccontarle e tramandarle, dando loro un senso e conferendo loro memoria.
E così è in "Anima Persa"!

Tino (Danilo Mattei), un giovane aspirante artista, abbandona la provincia per trasferirsi a Venezia dove desidera frequentare la scuola di pittura. Alloggerà presso gli zii Fabio ed Elisa Stolz in un antico palazzo ubicato su un canale.
Tino è ricevuto dalla zia Elisa (Chaterine Deneuve), una donna esile, fragile, dalla salute cagionevole e afflitta da emicranie. La zia accoglie il nipote con quella gioia con cui si apprezza una ventata d'aria fresca. Quando Tino domanda dello zio, Elisa gli spiega che Fabio è un ingegnere che lavora all'Azienda del Gas; uomo importante e ligio al dovere, spesso non è in casa per adempiere a tutti quegli impegni che la sua carica comporta. "Fabio cena quasi sempre fuori! Cene di lavoro con gente di riguardo, che viene anche dall'estero per parlargli".
Dopo cena, la signora Stolz fa visitare l'antico palazzo al nipote. Ad eccezione delle poche stanze abitate da lei e dal marito, l'edificio cade in rovina e necessita di lavori radicali. Tino segue la zia nell'ala abbandonata, fra muri crepati, che hanno perduto gran parte del proprio intonaco, scavalcando calcinacci e materiali accatastati, abbandonati e ricoperti dalle ragnatele. Visita così un vecchio teatrino, dove la giovane zia era solita esibirsi quando era bambina, e scopre una porta dietro la quale si cela una scala che conduce alla soffitta.
"È una stanza chiusa", gli spiega Elisa con gli occhi velati d'inquietudine e con la voce ansiosa. "Non salire mai questa scala! È legno marcio, può rompersi".
Il giovane Tino apprende anche che gli zii dormono in camere separate.
"Lui la sera rientra tardi", si giustifica la zia. "Io ho il sonno leggero e soffro di nervi; potrebbe svegliarmi".

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mercoledì 30 agosto 2006

Recensione QUEL TRENO PER YUMA (1957)

Recensione quel treno per yuma (1957)




Regia di Delmer Daves con Glenn Ford, Van Heflin, Felicia Farr, Leora Dana

Recensione a cura di Giordano Biagio

Il regista Delmer Daves in diverse interviste rilasciate negli anni '60 ha più volte detto che questa è la sua opera più riuscita. "Quel treno per Yuma", uscito nel 1957, indubbiamente risulta uno dei migliori western della storia del cinema.
Il regista è un autore di tutto rispetto e si presenta con lavori tipo "Rullo di tamburi", "Broken arrow" (L'amante indiana), "L'albero degli impiccati", "Jubal". "Quel treno per Yuma" è effettivamente un western degno del miglior Daves, soprattutto per la grande unità stilistica. La sceneggiatura del film, per una rara e riuscita cura del linguaggio cinematografico, riesce a fondersi felicemente in ogni piega dell'opera con la fotografia e la musica. Un bianco e nero luminosamente terso, dai contrasti ricchi di toni in cui l'ombra delle montagne e dei personaggi domina nelle situazioni più prossime alla tragedia, quasi a sottolineare la doppiezza in cui si dibattono i rapporti umani.

In questa opera l'uomo viene considerato soprattutto per come sceglie e agisce nelle situazioni più cruciali e decisive: quelle che mettono in gioco gli aspetti più importanti del vivere rimettendo in gioco i valori della propria coscienza.
Il film mette a fuoco le conseguenze a catena di un evento tipicamente western: la rapina di una diligenza. L'impresa dei banditi riesce ma con delle vittime. Dopo l'imprevista uccisione di due uomini nello scontro, gli abitanti del paese entrano in un rapporto conflittuale con la banda.
Ma i due omicidi divengono anche l'occasione per gli abitanti del paese di misurare qualcosa della propria coscienza, accettando o respingendo quel che lo straordinario del fatto accaduto chiede al proprio io per portare a termine la giustizia. L'avvenuto assassinio, mette a dura prova in tutto il paese quei valori umani già incerti presenti nel rarefatto alone civile del luogo. Gli abitanti e i banditi posti di fronte a delle scelte mostreranno la reale consistenza morale che li costituiscono.
Bene e male escono da un parallelismo distinto e cristallizzato che impedisce ogni tipo di incontro rielaborativo. L'uscita dalla normalità, dovuta all'evento tragico della diligenza, sollecita una riformulazione della coscienza del sé in rapporto agli altri. Gli abitanti del paese, così come il capo di banditi Waden, vengono sollecitati a confrontarsi con ciò che insorge dal loro inconscio, tra bisogni di sopravvivenza insoddisfatti che li hanno induriti troppo e un sociale insicuro e rarefatto, dove di rado vi è solidarietà contro il prepotente di turno ed è perciò facile trovarsi, da un momento all'altro, in una condizione di schiavitù e rassegnazione verso chi esce vincitore.

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martedì 29 agosto 2006

Recensione FANTASMA D'AMORE

Recensione fantasma d'amore




Regia di Dino Risi con Romy Schneider, Marcello Mastroianni, Wolfgang Preiss, Michael Kroecher, Paolo Baroni, Giampiero Becherelli, Raf Baldassarre, Ester Carloni, Adriana Giuffré

Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli

"Fantasma d'Amore" è l'ultimo passo di quell'evoluzione artistica cominciata da Dino Risi nel 1976 con il thriller psicologico "Anima Persa".

In una Pavia diafana ed incolore, con le sue nebbie e le sue piogge leggere, la voce fuoricampo di un commercialista, Nino Monti (Marcello Mastroianni), ci racconta la sua storia.
Un giorno, quasi per caso, Nino sale su un autobus dove viene avvicinato da una donna (Romy Schneider) dall'aria malata e trascurata. Ha denti anneriti e occhiaie profonde; la pelle del suo viso è avvizzita e grigia, come grigi sono i suoi capelli spettinati, raccolti dietro la nuca e con ciocche libere che le scendono sulla fronte e sugli occhi. La donna non ha le cento lire per pagare il biglietto dell'autobus; Nino gliele offre, ma lei le accetta mettendo bene in chiaro che sono un prestito che lei restituirà. Alcuni scambi di sguardi fra i due personaggi: perplesso quello di lui; curioso ed eccitato, ma anche timido e ferito quello di lei.
Nino Monti è sposato con Teresa (Eva Maria Meineke), una donna più anziana di lui, polemica, logorroica, fredda e volitiva, sempre impegnata nelle attività culturali della borghesia clericale della città. Non hanno figli e vivono come una coppia di amici. Il loro matrimonio non fu il coronamento della passione, ma una scelta ponderata e ragionata "intelligentemente".
Una vita monotona, triste e noiosa, quella di Nino, che sempre più spesso si rifugia nell'isolamento, nella lettura e nella fantasia. Poi una telefonata cambia tutto. È la donna che Nino ha incontrato sull'autobus. È rammaricata dal fatto che lui non l'abbia riconosciuta. Si presenta come Anna Brigatti, una vecchia fiamma di Nino. La bellissima donna il cui amore segnò per sempre la sua vita rendendolo incapace d'amare chiunque altra.
Era ad Anna che Nino pensava quando faceva l'amore con Teresa, ma, dopo quell'incontro sull'autobus, dopo averla vista così cambiata, così sciupata e degradata, avrebbe potuto continuare a pensare a lei?

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lunedì 28 agosto 2006

Recensione COME IN UNO SPECCHIO

Recensione come in uno specchio




Regia di Ingmar Bergman con Harriet Andersson, Max von Sydow, Gunnar Björnstrand

Recensione a cura di Giordano Biagio

Questo film di Bergman uscito nel 1962 è uno dei più autobiografici del regista svedese. La pellicola rappresenta soprattutto un'originale chiave di lettura del senso religioso legato alla follia.
L'opera ha uno svolgimento delle parti visive e verbali ben equilibrato. Inoltre le idee letterarie nell'insieme sono efficaci e ricche di sottigliezze. Il film si avvale anche della musica di Bach che svolge una parte di rinforzo del significante filmico con notevoli risultati di rilievo estetico. Bergman riesce a mettere in luce con dovizia di particolari alcuni importanti nodi psicologici dei personaggi evidenziandone con bravura i relativi approdi di trasformazione esistenziale e comportamentale.

David è un romanziere svedese di successo. La figlia (Karin) è affetta da problemi di follia schizofrenica. Lo stato clinico della malattia è complesso. La donna vive lunghe crisi psicotiche, ravvivate da raffinate allucinazioni. Nei periodi di lucidità è dominata da forti pulsioni di odio. Di quest'ultimo il film preciserà il senso. Il padre dopo una prolungata e vile assenza coglie l'occasione delle vacanze estive per dialogare con Karin e il resto della famiglia. Le scene si svolgono in un'isola del mar Baltico. Nel film gli elementi culturali del pensiero si accoppiano in modo armonioso e brillante con la significazione della sceneggiatura dando forza al tema centrale della follia.
Questi elementi culturali sono costituiti da alcune questioni esistenziali e psicologiche molto presenti nel '62. Troviamo il tema dell'amore sublime che Bergman compara ad una raggiunta armonia familiare e a un contatto non privilegiato con l'essenza di Dio. Interessante anche il desiderio dell'incesto tra fratelli che il regista interpreta in questo caso lungo il versante della storicità problematica delle pulsioni. L'incesto nel film appare come una reazione trasgressiva e vendicativa all'assenza e all'irresponsabilità di un padre.

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venerdì 25 agosto 2006

Recensione IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Recensione in nome del popolo italiano


Regia di Dino Risi con Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, Ely Galleani, Yvonne Furneaux

Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli (voto: 9,0)

"In nome del popolo italiano si dà esecuzione alla sentenza". Con questa frase, che precede la distruzione di un edificio abusivo, si apre uno dei film di denuncia sociale più taglienti e più amari diretti da Dino Risi.

Il dottor Mariano Bonifazi (Ugo Tognazzi), un magistrato appena nominato giudice istruttore e reputato integerrimo, indaga sul decesso di Silvana Lazzarini (Ely Galleani), una giovane e bella ragazza, rinvenuta morta nel letto della propria abitazione. Il cadavere presenta alcune escoriazioni e le circostanze della morte non sono chiare. Secondo il medico legale, Silvana sarebbe stata drogata, picchiata e poi messa a letto. Il presunto assassino le avrebbe anche rimboccato le lenzuola, forse per senso di colpa.
Interrogando i genitori della vittima, il giudice istruttore scopre che la Lazzarini era una prostituta d'alto bordo e che essi non solo ne erano a conoscenza, ma addirittura sfruttavano la figlia. Emblematica la frase sussurrata dal giudice al proprio assistente, riferendosi al padre di Silvana: "Credevi che fosse il padre di un mignotta senza saperlo, invece è un figlio di mignotta e lo sa benissimo!".
Da quest'interrogatorio, Bonifazi apprende che Silvana conosceva l'ingegnere Lorenzo Santenocito (Vittorio Gassman) il quale in passato aveva scritto per lei una lettera di raccomandazione per un posto di lavoro "normale". A tale rivelazione il neo-giudice istruttore interrompe l'interrogatorio. Egli sa benissimo chi è Santenocito e spicca subito contro di lui un invito a comparire in qualità di persona informata sui fatti.
Lorenzo Santenocito è un industriale arrivista, arricchitosi non proprio onestamente, spregiudicato e senza scrupoli, con amicizie molto potenti. Quando egli si trova faccia a faccia col magistrato lo scontro ideologico e caratteriale fra i due personaggi è inevitabile.

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giovedì 24 agosto 2006

Recensione SALVATE IL SOLDATO RYAN

Recensione salvate il soldato ryan




Regia di Steven Spielberg con Tom Hanks, Tom Sizemore, Edward Burns, Barry Pepper, Adam Goldberg, Vin Diesel, Giovanni Ribisi, Jeremy Davies, Matt Damon

Recensione a cura di Giordano Biagio

"Salvate il soldato Ryan" è un film di guerra sul massacro e l'orrore dello sbarco in Normandia. Dominanti sono le scene dello sbarco che durano 21 minuti. Esse vengono minuziosamente particolareggiate grazie alle tecniche di ripresa e costruzione sonora della macchina Spielberg. Uno spettacolo nel complesso riuscito. La pellicola nei suoi contenuti ha però lasciato un po' perplessa la critica cinematografica colta Americana ed Europea anche se è stato pluripremiato dall'industria commerciale degli Oscar. Il film è stato giudicato dalla critica colta: filoamericano e privo di spessore storico.

La trama si richiama vagamente ai valori del patriottismo e della famiglia americana al tempo dello sbarco in Normandia. Un'america vista da Spielberg come rimedio decisivo al prolungarsi della barbarie nazista. Nel film, durante lo sbarco, i soldati americani dimostrano un eroismo che sfiora l'inverosimile. Il regista però non approfondisce nessun argomento di carattere etico o politico. La collaudata macchina cinematografica dell'industria Spielberg costruisce un bellissimo film in stile fumettistico con dialoghi poco impegnativi e formule sceniche originali ma fini a stesse: ne è un esempio lo spettacolo visivo e sonoro dei combattimenti, talmente ricco di particolari da imporsi come linguaggio estetico a sé stante.
Il tutto va a vantaggio di un mercato cinematografico bisognoso di evasioni sadiche e purificazioni catartiche da misteriosi sensi di colpa. Quest'ultimi attraverso il film sono dapprima messi in tensione e poi appagati grazie a un finale un po' particolare dove il protagonista, il capitano Miller, trova la morte in un combattimento decisivo. Miller non muore a dispetto di ogni lieto fine commerciale ma per rendere psicoanaliticamente coerente il proprio delirio finale. Delirio in cui è inscritto il suicidio.

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mercoledì 23 agosto 2006

Recensione PSYCO

Recensione psyco




Regia di Alfred Hitchcock con Anthony Perkins, Janet Leigh, Vera Miles, John Gravin, Martin Balsam

Recensione a cura di bodego

Sir Alfred Hitchcock fu uno dei massimi esponenti (nonchè uno dei primi) del cinema giallo-thriller. Iniziò a lavorare nel mondo dello spettacolo negli anni venti ma la sua carriera ebbe una svolta decisiva in America dove operò a partire dagli anni quaranta sino a metà degli anni settanta. Nel 1960 diresse il suo film, forse più famoso: "Psycho", tratto da un romanzo di Robert Bloch.
La storia narra di una giovane donna, Marion (Janet Leigh), che scappa dalla sua città con quarantamila dollari rubati e si rifugia in un motel dove la attenderà una sorte crudele. Più tardi il suo fidanzato (John Gavin), insieme a sua sorella (Vera Miles), svolgeranno indagini per scoprire cosa sia accaduto.

Psycho premiò con il successo l'ottima interpretazione di Anthony Perkins perfettamente immedesimato nel ruolo dello psicopatico Norman Bates, ruolo che gli rimase incollato tanto che lo ritroviamo successivamente in altri film dove interpreta per l'appunto un pazzo pericoloso. Janet Leigh era allora l'attrice più nota del cast e rese questo film un po' particolare poiché ella moriva dopo soli quaranta minuti dall'inizio della pellicola. Il resto del cast era all'altezza del film e Hitchcock fece come di consueto la sua solita comparsa scaramantica all'inizio della vicenda. Una piccola curiosità è l'interpretazione, come collega di Marion, della figlia del regista (Patricia Hitchcock).

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martedì 22 agosto 2006

Recensione L'ODORE DEL SANGUE

Recensione l'odore del sangue




Regia di Mario Martone con Fanny Ardant, Michele Placido, Giovanna Giuliani

Recensione a cura di Giordano Biagio

Nel titolo del film, tratto dal romanzo di Goffredo Parise (ed. Rizzoli) è racchiusa una delle chiavi interpretative più importanti del racconto. "L'odore del sangue" è un film che non giudica i problemi che pone, ma cerca di esporli senza falsi pudori, per quello che sono. Si limita a mettere in rilievo alcuni enigmi che scaturiscono dalle passioni umane quando giungono al sesso. Quesiti credibili e ben delineati atti a suscitare interrogativi fertili intorno ad alcune pieghe tragiche della passione erotica.
Lasciandosi attraversare dai messaggi visivi di Martone, le scene vengono percepite in un modo particolare. E' come se si avvertisse il senso olfattivo-immaginifico dell'odore del sangue. Il regista fa regredire psichicamente e storicamente lo spettatore verso un lontano passato, lungo la soglia della civiltà moderna. Precisamente all'epoca levitica (1552 a.c.) così ben delineata nei suoi aspetti culturali dai testi delle sacre scritture. Gran parte della significazione del film si perde e si rintraccia paradossalmente in un inconscio collettivo le cui tracce rimandano alle parole delle sacre scritture. Testi antichi da cui si può intuire o dedurre qualcosa di decisivo intorno alle leggi imposte sulle pulsioni umane.
Il regista fa entrare in gioco quelle passioni antiche che tendono a ritornare oggi come sessualità violenta: erotismo legato agli istinti di vita più voluttuosi e cinici.

L'erotismo proposto da Martone si svolge con una comunicazione visiva e verbale di alto livello artistico tanto da compensare ampiamente il disagio che lo spettatore prova per certe inquadrature cruente.
Le scene si materializzano velocemente di un significato polisemico e tragico, suscitando riflessioni profonde. Ne sono un esempio i pensieri cui si è indotti a seguito dell'articolazione visiva delle pulsioni erotiche orali. Pulsioni esplicitamente e ripetutamente evidenziate dallo schermo quasi a sottolineare un nodo di significazione nella bocca. Esse ci fanno entrare nelle strutture semantiche più cannibalistiche della Bibbia. Strutture complesse ancora presenti in forme diverse nella vita della nostra epoca. Pulsioni che la nostra civiltà, avente come fine la soddisfazione nel sociale e nell'arte, non riesce a razionalizzare e a sciogliere.
Il divieto di cannibalismo e la norma precisa di non nutrirsi di sangue, già all'epoca delle sacre scritture costituivano un asse etico essenziale influenzato dalle leggi levitiche di Mosè. Un nodo culturale che portava in grembo le premesse per la nascita del civile nell'occidente.

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venerdì 11 agosto 2006

Recensione FIREWALL - ACCESSO NEGATO

Recensione firewall - accesso negato




Regia di Richard Loncraine con Harrison Ford, Paul Bettany, Virginia Madsen, Robert Patrick, Jimmy Bennett, Michael Finn

Recensione a cura di peucezia

Ci sono film che ci sembra di aver già visto anche se ci si è appena accomodati in platea e cominciano a scorrere i titoli di testa, film dove tutto è prevedibile: azioni, battute, happy ending di prammatica... FIREWALL - ACCESSO NEGATO è una di queste pellicole.
Harrison Ford, ormai in età da pensione, è il solito tranquillo impiegato con bella e affettuosa famigliola, splendida villetta e ottimo inquadramento, a cui i cattivoni di turno sconvolgono l'esistenza costringendolo a diventare un supereoe (pare che, da bravo Indiana Jones in disarmo, l'attore non abbia accettato la controfigura per le scene d'azione). L'elemento differente dal solito è il cagnetto di razza incerta che fa tanto simpatia, ma per il resto, dalla moglie decisamente più giovane per abbassare la media con l'età del protagonista, alla figlia un po' sciocchina, al figlioletto con qualche problemino di salute, il copione è pienamente rispettato e in sala si fa a gara per chi riesce ad azzeccare la prossima battuta più velocemente.
Aggiungiamo pure la segretaria single forse innamorata del suo capo e decisamente sottotono, ma preziosissima per gli sviluppi della storia et voilà... les jeux sont faits.

Se si cerca una serata senza pretese senza dubbio il film non disattende le aspettative, perché per buona parte del tempo l'attenzione non scende e anche se ad ovest non si vede niente di nuovo, perlomeno regista ed interpreti sanno fare bene la propria parte e non annoiano, ma poi in seguito l'azione si sfalda e diventa prevedibile, o improbabile, tanto da far scuotere la testa persino al più accanito fan del nostro pur volenteroso Ford.
La storia è stata d'altronde confezionata su misura per lui, ma finisce col fare acqua da tutte le parti: Ford diventa legnoso, poco espressivo, moglie e figli decisamente in tono minore, mentre si mantengono interessanti fino alla fine i ruoli interpretati da Paul Bettany, il cattivone di origine europea secondo una moda stelle e strisce vecchia già di qualche anno e la segretaria efficiente e bistrattata interpretata da Mary Linn Rajskub. La "sponsorizzazione" del popolare sistema informatico mondiale e l'intervento del dio computer apportano un'aura leggera di "originalità" ad un thriller che poteva essere stato scritto e proiettato anche venti o trenta anni fa, in quanto a innovazione.

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mercoledì 9 agosto 2006

Recensione LA STANZA DEL FIGLIO

Recensione la stanza del figlio




Regia di Nanni Moretti con Nanni Moretti, Laura Morante, Jasmine Trinca, Giuseppe Sanfelice, Silvio Orlando, Stefano Accorsi

Recensione a cura di Giordano Biagio

Il film vincitore a Cannes nel 2001 è incentrato sulla ricerca del senso e della dinamica del dolore in un lutto.
La famiglia Sermonti perdendo il giovane Andrea, in un infortunio di pesca subacquea, piomba in una crisi che sconvolge i normali ritmi della loro vita.
Il loro era un quotidiano che scorreva tra molte soddisfazioni e qualche piccola amarezza. L'elaborazione del lutto, dopo la tragica morte del figlio, tende a dare un significato all'angoscia, creando un modo di ricordare lo scomparso funzionale al vivere presente. Un meccanismo teso a richiamare visivamente qualcosa dell'inconscio che permetta di proseguire la vita rimanendo nel flusso di un dinamismo psichico e culturale legato alla cultura che ci contiene.

Il padre Giovanni Sermonti è uno psicanalista. Dopo la tragedia, lungo l'elaborazione del lutto con la moglie avverte che il suo lavoro non potrà più proseguire con profitto. Pensa che certi risultati psicanalitici raggiunti con la sua attività non potranno più ripetersi, perché compromessi dalla sua nuova situazione emotiva.
I risultati che i pazienti ottenevano nell'analisi erano in gran parte legati, seppur in modo paradossale, alla sua figura di borghese dall'aria soddisfatta.
Figura che seduceva i pazienti portandoli a forme transferenziali e di identificazione proficui sia nel mantenere il gioco di parole con l'analista che nella riuscita elaborativa di alcune questioni analitiche.
Dopo la tragedia il suo stato depressivo, seppur ricco di risvolti creativi e fertile di idee, lo costringe a modificare l'approccio psicologico con i pazienti fino al punto di ridurlo a forme di comunicazione verbale troppo dirette, quasi forzate e notevolmente giudicanti, moraliste. Irrompe nelle sedute la propria nuova situazione esistenziale. Sembra quasi che adesso sia lui a chiedere qualcosa ai pazienti. Questo porta alcune analisi in corso verso una deriva psichica a tratti angosciante e priva di sbocchi terapeutici efficaci.

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martedì 8 agosto 2006

Recensione LA VITA E' BELLA

Recensione la vita e' bella




Regia di Roberto Benigni con Roberto Benigni, Nicoletta Braschi, Giorgio Cantarini, Giustino Durano

Recensione a cura di Harpo (voto: 8,0)

"La vita è bella" si può dividere in due parte distinte: la prima impostata sui canoni della commedia tipica di Benigni, ambientata in una tranquilla cittadina della Toscana negli anni '30. La seconda, di stampo drammatico, si svolge interamente all'interno di un lager nazista (Trieste).
Guido Orefice, toscano di origini ebraica, attraversa mille peripezie per far colpo su Dora destinata a sposare Rodolfo, un uomo dell'alta borghesia. Vincendo il confronto, Guido si unisce con Dora, apre una libreria e ha un figlio, Giosuè. Come un fulmini a ciel sereno, vengono istituite le leggi razziali di Mussolini e il piccolo ebreo viene deportato in un campo di concentramento insieme a suo figlio. La moglie li seguirà. Nonostante vi siano gag a dir poco esilaranti, com'è ovvio da questo punto in avanti inizierà la parte di impronta drammatica.
Nel lager Guido conoscerà le terribili sorti che il suo popolo è costretto a patire (con l'immediata uccisione di un suo zio anziano, Eliseo), ma nonostante tutto farà credere al piccolo Giosuè di trovarsi alle prese con un gioco a eliminazione, il cui premio finale è un carro armato. Ciò non perché sia completamente impazzito, ma bensì per sottrarre Giosuè all'immane crudeltà della shoah.

La vita è bella ha avuto un incredibile successo di pubblico (oltre 60 miliardi al di lire al botteghino), ma la critica si è spezzata in due tronconi, anche in ragione dell'attribuzione dei principali premi Oscar (Miglior film straniero, miglior attore protagonista, migliore colonna sonora). Infatti, da una parte vi sono che coloro che denunciano l'eccessivo squilibrio fra le succitate parti: i due capitoli rimangono incredibilmente divisi e diversi, in quanto nella prima metà guardiamo ad un film infantile e giocoso, mentre nella seconda vi sono chiari rimandi a tematiche ben più profonde.
E' quindi opinione abbastanza diffusa fra i critici che le due parti fossero fra loro incompatibili. Va inoltre sottolineato che una diatriba tra Benigni e Mihaileanu, autore di "Train de Vie", diede vita a diverse polemiche, in quanto quest'ultimo fece leggere all'attore toscano parti della sceneggiatura del film in lavorazione e successivamente il regista rumeno accusò il "nostro" Benigni di averlo copiato.

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lunedì 7 agosto 2006

Recensione WITNESS - IL TESTIMONE

Recensione witness - il testimone




Regia di Peter Weir con Harrison Ford, Kelly McGillis, Lukas Haas, Josef Sommer, Jan Rubes, Alexander Godunov, Danny Glover, Brent Jennings, Patti LuPone, Angus MacInnes, Frederick Rolf, Viggo Mortensen

Recensione a cura di Giordano Biagio

"Witness-Il testimone" è il primo film hollywoodiano di Peter Weir, regista capace di percorrere i diversi generi perfezionandone, alla luce di una propria e originale idea di cinema, i codici. Un'opera questa che conferma l'impegno di Weir nella ricerca di nuovi orizzonti linguistici.
Indubbiamente con questo film Weir rafforza le sue credenziali di grande regista ricevendo, in eguale misura, consensi vasti: sia dal mondo cristiano che da quello laico.
Oltre alle buone capacità tecniche e di scrittura che danno al montaggio un andamento privo di tempi morti e smagliature, l'autore australiano si concede allo spettatore con uno spirito visionario, forte e comunicativo, correlato da pulsioni poetiche irrefrenabili, che si combinano felicemente con le bellezze della natura.
Quella del regista australiano è una ricerca filmica poetica-visiva e musicale incessante, con al centro la tecnica: utilizzando come risorsa immaginifica per il film i vari percorsi onirici ed esistenziali delle proprie fantasie artistiche.

Da notare nel film la presenza di alcuni tratti stilistici della pittura fiamminga del '700. In particolare è apprezzabile l'applicazione di importanti tecniche e caratteristiche di luce, in quelle scene del film composte da diversi volti inquadrati durante un rituale. Ad esempio, nella scena iniziale del culto funebre, svoltasi in una abitazione Amish, la luce solare entra da sinistra, come nei quadri fiamminghi, illuminando solo la metà dei volti dei presenti, l'altra metà rimane oscura. L'effetto visivo di ritratto artistico è unico.
Tra le altre doti di questo importante regista occorre sottolineare la sua capacità di sintesi linguistica, per cui ad esempio ciò che funziona nella sintassi visiva del film come nodo comunicativo principale è il risultato di un dispendioso lavoro di selezione dell'elemento-immagine, quello che più di ogni altro porta alla precisione dell'espressione, di volta in volta esso può essere simbolico, metaforico, o metonimico. Un lavoro la cui importanza non va mai sottovalutata perché quando giunge a dei buoni risultati dà scorrevolezza e chiarezza al racconto.

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venerdì 4 agosto 2006

Recensione SCHINDLER'S LIST

Recensione schindler's list




Regia di Steven Spielberg con Ben Kingsley, Ralph Fiennes, Liam Neeson, Jonathan Sagalle, Beatrice Maccola, Caroline Goodall, Embeth Davidtz, Andrzej Seweryn

Recensione a cura di Harpo (voto: 9,0)

Sicuramente "Schindler's List" è il grande capolavoro di Spielberg, e il 1993 è l'anno migliore del regista ebreo-americano. Egli si cimenta nel grande dramma della shoah e trascrive, secondo gli attuali canoni hollywoodiani, la vicenda di Oskar Schindler. Il risultato è un film acclamato a gran voce sia da critica, che da pubblico e vincitore di 7 premi Oscar, tra cui miglior film e miglior regia.
Il film inizia con un prologo (ambientato nei giorni nostri) a colori, in cui un gruppo di ebrei prega, e finisce con un epilogo in cui i veri parenti e i sopravvissuti delle persone della lista si recano alla tomba di Schindler appoggiandovi un sasso, in segno di devozione e ringraziamento, secondo l'usanza ebraica. Tutto quello che vi è in mezzo è una struggente, quanto cruda ricostruzione dell'orrore dello sterminio, girata completamente in B/N (tranne qualche dettaglio simbolico, come la giacca di una bambina).
Comunque la vicenda si può dividere principalmente in tre parti: la prima concerne la vita di Schindler e l'epopea della sua storia. La seconda corrisponde al lento, ma inesorabile cambiamento dell'animo del protagonista, anche alla luce delle brutalità che vengono compiute nel campo di lavoro di Plaszow. Ovviamente la terza è l'acquisto dei suoi ebrei, e la messa in gioco di tutte le sue energie per la loro salvezza.

In principio Schindler decide di aprire un'azienda di oggetti smaltati, con una manodopera totalmente ebraica. Egli opta per lo sfruttamento di questo popolo senza particolari ragioni etico-morali, poiché "gli ebrei costano meno dei polacchi". Possiamo anche sostenere che Schindler non fosse contrario alla guerra, ne era anzi entusiasta, in quanto era stata quest'ultima a rendere possibile la sua fortuna. Va sostenuto che è proprio quando inaugura la sua impresa che si presenta lo straordinario personaggio di Itzhak Stern, prima suo contabile, poi suo amico e infine suo alter ego.
Proseguendo in una descrizione del protagonista è evidente che egli è una persona decisamente superficiale, un uomo a cui interessa soltanto fare soldi, crearsi amici importanti e avere appresso belle donne. Pian piano però questa personalità viene maturando, diventa decisamente più profonda: per esempio egli si arrabbia quando viene ucciso un uomo menomato della sua fabbrica.

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giovedì 3 agosto 2006

Recensione IL GIORNO DEGLI ZOMBI

Recensione il giorno degli zombi




Regia di George A. Romero con Lori Cardille, Terry Alexander, Joe Pilato, Richard Liberty, Howard Sherman

Recensione a cura di paul (voto: 8,5)

Subito dopo il successo di "Dawn of the dead" Argento e Romero si rimisero al lavoro per produrre il terzo e definitivo capitolo sull'apocalittica saga dei morti viventi. Argento ritardò per questo le riprese di "Inferno", film che avrebbe dovuto essere portato sugli schermi nel 1979 e che invece uscirà un anno più tardi.

Romero dal canto suo ha già pronto lo script di questa terza fatica zombistica: il mondo è oramai invaso dai morti viventi, sono passati oltre dieci anni dai fatidici fatti de "La notte dei morti viventi" e "Zombi". I pochi superstiti rimasti sono asserragliati dietro grosse mura che li dividono dal resto del pianeta, ormai invaso dai morti viventi. Nonostante la terribile minaccia tuttavia l'uomo rimane un essere individualista, incapace di associarsi agli altri anche per affrontare la più terribile minaccia, che potrebbe addirittura annientare il genere umano. Gli uomini continuano a farsi la guerra e differenti fazioni che vivono in diversi fortini isolati l'uno dall'altro, si combattono proprio come in un nuovo medioevo. Per riuscire ad avere il sopravvento sulle fazioni rivali un certo Cholo ha costituito un esercito di "zombie" modificato geneticamente e pronto ad essere utilizzato come nuova micidiale arma contro il nemico. Come si potrà notare parecchie di questi elementi verranno utilizzati nei successivi "Giorno degli zombi" e "La terra dei morti viventi" che verranno girati rispettivamente sette anni e ventisette anni più tardi.
Comunque questo soggetto piacque subito a parecchie case di distribuzione americane che, galvanizzate dal successo ottenuto da "Dawn of the dead" si dissero disposte a finanziare Romero per poter realizzarlo. Ma cosa accadde?
Accade che un regista geniale, tale Lucio Fulci, fiutato l'inghippo, prima che Romero ed Argento possano rimettersi al lavoro, decide di realizzare un film, tanto distante quanto vicino a "Zombi". Titolo del film: "Zombi 2"!

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