Recensione nanuk l'esquimese
Recensione a cura di Marco Iafrate
Provate ad immaginare una distesa di ghiaccio, immensa, dove l'unico suono che giunge all'orecchio è quello incessante del vento; il naso, semi congelato, non percepisce odori diversi da un unico, costante, profumo di gelo; lo sguardo, oltre l'orizzonte, trova lo stesso uguale orizzonte; qui, in uno dei posti più inospitali del mondo, ad un passo dal circolo polare artico, il regista americano Robert J. Flaherty, ex esploratore e grande appassionato della macchina da presa, decide di sopportare i rigori della natura pur di documentare la resistenza dell'essere umano di fronte alla forza degli elementi.
Dotato di un animo inquieto, costantemente in cerca di avventura, l'occasione per dar sfogo alle sue pulsioni gli viene offerta da una ditta di pellicciai francesi, la Revillon Freres, che proprio in quel periodo desiderava realizzare un film pubblicitario in qualche zona remota delle regioni artiche. Il regista scelse la baia di Hudson, luogo da lui visitato pochi anni prima, il popolo che avrebbe contribuito alla riuscita del progetto quello degli Inuit, il protagonista un uomo: Nanuk.
Il cinema nacque con lo scopo di documentare. Agli iniziali esperimenti con la moltiplicazione di scatti fotografici a consentire l'analisi del movimento seguirono, per merito dei fratelli Lumière e di Thomas A. Edison, evoluzioni che portarono le fotografie ad una cadenza di successione tale da rendere la riproduzione del movimento incredibilmente verosimile agli spettatori.
Ma si era ancora lontani dal cinema di finzione, la realtà non era mediata, i registi per esprimere ciò che era nella loro immaginazione non sentivano ancora l'esigenza - e forse non era nelle loro possibilità - di manipolarla, i film documentavano le cose così come realmente si svolgevano.
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