Recensione il rifugio
Recensione a cura di Mimmot
Da molto tempo ormai il regista francese François Ozon ci ha abituati ad un cinema rivolto soprattutto all'analisi psicologica dei suoi personaggi e capace di mescolare ambiguità e trasgressione, sensibilità e passione, senza per questo snaturare in profondità la realtà del mondo che ci sta attorno.
Egli, infatti, invece di dare alle sue opere una sostanziale e facilmente riconoscibile compattezza di vedute, ama girare lo sguardo verso tematiche che spaziano da un genere all'altro, senza mai allontanarsi da quelle atmosfere di raffinata eleganza ai temi che preferisce trattare, nei quali si mescolano bisogni e sentimenti, convenzioni e anticonformismo, intimismo e materialità, eros e thanatos. Ecco dunque che il suo cinema è sfuggente, minimalistico, urticante a volte, scevro da ipoteche confessionali e ideologiche, mai chiuso in se stesso, in costante giustapposizione tra le istanze dei protagonisti, lo sguardo dello spettatore, e le necessità del racconto.
Pertanto, nella variegata filmografia del regista parigino, è possibile trovare tracce della sua costante necessità di esplorare con creatività la capacità della condizione umana di adattarsi alle brutalità delle cose. Le storie che mette in scena sono segnate da un'ambiguità che non subisce il fascino della dispersione di ciò che sta oltre ciò che siamo abituati a considerare nostro.
Ogni film del regista è anche una parabola sui labirinti della rappresentazione, in cui la finzione non si sostituisce alla realtà, ma la affianca per rafforzarla.
Ozon, insomma, non ha remore ad entrare diritto nel cuore delle storie, a scavare in profondità negli eventi perturbati dell'anima; i sui personaggi sono in balia di varie possibilità, prigionieri di un destino da cui non si può fuggire, che si diverte a combinare e scombinare le cose. Sono così Mousse, Louis e Paul, i personaggi de "Il rifugio", giovani alla deriva... occupati a sopravvivere.
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