lunedì 29 ottobre 2007

Recensione HARSH TIMES - I GIORNI DELL'ODIO

Recensione harsh times - i giorni dell'odio




Regia di David Ayer con Christian Bale, Freddy Rodríguez, Tammy Trull, Adriana Millan, Armando Cantina, Lora Chio, Kenneth Choi

Recensione a cura di Mimmot

Arrivato sui nostri schermi con due anni di ritardo rispetto all'uscita americana e colpevolmente mal distrubuito nelle sale, "Harsh Times", opera prima del regista David Ayer, elucubra, con inquietante realismo, il "male oscuro" delle generazioni post- Iraq, così come "Taxi Driver" o "Il cacciatore" elucubravano quello della generazione post-Vietnam.
Il film è soprattutto un crudo ritratto dei giovani reduci americani vittime degli effetti provocati da quell'assurda guerra, che cercano di reinserirsi nella vita civile e che scoprendosi inadeguati, e non riuscendo a dimenticarne gli orrori, trovano rifugio nell'alcool, nella droga, nell'alienazione, nell'incapacità di distinguere il confine tra ciò che è bene e ciò che è male.
Il film è però anche un duro affondo nella realtà quotidiana dei quartieri ghetto della Los Angeles sporca e degradata (che Ayer conosce in prima persona), dove la vita è fatta di piccola e grande criminalità, la sopavvivenza è legata alla supremazia nel gruppo, dove ci si lascia andare alla deriva e alla frustrazione crescente, in un mix esplosivo fatto di sesso, alcool, droga, risse, traffici illeciti.

Il dramma del reduce disadattato e indurito che subisce sulla propria pelle il trauma del reinserimento è stato uno dei temi preferiti della cinematografia americana, forse perchè il militarismo e la guerra, giusta o sbagliata che sia, legittima o illegittima (ma esistono poi guerre giuste o legittime?) fanno parte del loro genoma, fanno parte del loro vissuto e della loro cultura, e cineasti illuminati (Scorsese, De Palma, Cimino, Coppola, ecc) hanno cercato e cercano in questo modo di esorcizzarne i fantasmi, mostrandone gli orrori, le ingiustizie, le devastanti conseguenze.
David Ayer lo fa mostrando lo straniamento di Jim Davis, un individuo apparentemente normale in cui, progressivamente, nel vuoto dell'incertezza, emergono tratti di follia autolesionista.

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